Premessa
Quella che segue è una raccolta di saggi e articoli scritti e pubblicati tra il 1983 e il 2002 come contributi a convegni, opere collettive, riviste universitarie, cataloghi di mostre d’arte. Di ciascun lavoro il lettore troverà dichiarata la sede originaria, assieme ai nomi di coloro che mi hanno di volta in volta invitato a collaborare alle iniziative da loro patrocinate o curate. Accogliendo quegli inviti ho verificato la validità dell’osservazione di Geoffrey Parker, che la partecipazione a simposi e convegni rappresenta per lo studioso un utile stimolo a “esaminare la documentazione già familiare in modi nuovi, e ad allargare le ricerche in nuove direzioni” (G. Parker, Spain and the Netherlands. 1559-1659. Ten Studies, London, Collins, 1990², 12. La traduzione è mia). Se non ho tratto maggiore profitto dalle occasioni che mi sono state offerte, è soltanto per mia responsabilità.
Nessuno di questi testi è inedito. Eppure, in un certo senso, lo sono tutti, perché su tutti sono intervenuto: sia sulla forma, correggendo i refusi, eliminando le occasionali ripetizioni e sovrapposizioni tra un pezzo e l’altro, uniformando le citazioni bibliografiche e archivistiche; sia sul contenuto, modificando testi e note: qualche volta riducendoli, ma per lo più ampliandoli ovunque mi sembrasse necessario per chiarire o aggiornare il mio pensiero.
Questa raccolta si propone inoltre come un’opera aperta e, in quanto tale, tendenzialmente provvisoria. In effetti è la seconda versione, largamente modificata, con l’aggiunta di alcuni capitoli e l’esclusione di altri, di una raccolta dallo stesso titolo (ma dal sottotitolo leggermente diverso) uscita nei “Quaderni di Storia e Letteratura” nel dicembre 1995. Di quella prima versione ho deciso di escludere gli ultimi tre saggi, tutti vertenti più o meno direttamente sul bombardamento di Genova del 1684. Se ne avrò il tempo, e se mi riuscirà di compiere alcune necessarie ricerche d’archivio fuori di Genova, sul canovaccio di quei testi mi propongo di scrivere un libro dedicato per l’appunto al bombardamento, un argomento che mi pare permetta di incrociare attorno al racconto di un evento già di per sé drammatico e clamoroso una moltplicità di prospettive e di punti di vista sulla Genova del tardo Seicento. Ho invece aggiunto alcuni lavori pubblicati dopo il 1995, scegliendo i più attinenti al tema che dà il titolo alla raccolta e ne costituisce il filo conduttore tanto in questa versione quanto nella precedente, vale a dire il patriziato genovese del Cinque-Settecento considerato come ceto di governo. Tutti questi testi sono nati infatti in margine alle ricerche più ampie sullo stesso argomento in parte già confluite nel mio Il governo dei magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento (Genova, Ecig, 1990) e in parte ancora in via di elaborazione e in cerca di uno sbocco chiaro e definito.
I saggi sono disposti non nell’ordine in cui furono scritti o pubblicati, ma seguendo un percorso che prende le mosse dai contributi di ambito più generale e passa a presentare dei ritratti individuali o di gruppo di patrizi, secondo un ordine all’ingrosso cronologico degli argomenti trattati.
Il mio interesse per questi temi di indagine, e più in generale per la storia politica della Genova moderna, che è rimasto e verosimilmente rimarrà al centro della mia attività di studioso, risale alla prima metà degli annni Settanta, quando frequentavo dapprima come studente e poi come laureando l’Istituto (oggi Dipartimento) di Storia Moderna e Contemporanea. Claudio Costantini cominciò a orientare i miei primi e incerti passi nel mondo della ricerca storica quando gli chiesi un colloquio per individuare l’argomento della tesi di laurea, non ricordo se nell’autunno del 1972 o agli inizi del 1973, e ha seguitato da allora a interessarsi affettuosamente del mio lavoro. Non solo lo riconosco volentieri come maestro, ma gli sono particolarmente grato per aver offerto generosa ospitalità a questi contributi, che toccano argomenti a lui familiari, nell’impresa di editoria elettronica della quale è stato il lungimirante ideatore ed è tuttora l’instancabile animatore.
Avvertenza
Nelle note i riferimenti bibliografici vengono citati in forma abbreviata, vale a dire col cognome dell’autore, le parole chiave del titolo e, quando necessario, il numero di pagina. I titoli completi si trovano nella bibliografia finale.
Abbreviazioni
AGS | Archivo General de Simancas |
AMAE | Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Paris |
ASCGe | Archivio Storico del Comune di Genova |
ASGe | Archivio di Stato di Genova (e AS = fondo Archivio Segreto in ASGe) |
BAP | Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma |
BCB | Biblioteca Civica Berio, Genova |
BNP | Bibliothèque Nationale, Paris |
BUG | Biblioteca Universitaria, Genova |
Il tempo degli oligarchi.
Note sulla storia politica genovese nella prima età moderna[1]
- Comune e repubblica
Un titolo che rischia di apparire magniloquente nasconde un obiettivo modesto: una riflessione sulle dinamiche delle istituzioni e dei conflitti politici nella Repubblica di Genova nella prima età moderna, intesa come coincidente con i secoli XVI e XVII. Non che il Settecento genovese non presenti interesse dal punto di vista della storia politica: tutt’altro. Ma fu tra il primo quarto del Cinquecento e la metà del Seicento che le istituzioni della Repubblica presero forma e si consolidarono in un assetto che, sebbene a lungo discusso e occasionalmente sottoposto a sfide, restò immutato nella sostanza sino alla fine dell’antico regime. A Genova l’età moderna coincide con quella della repubblica oligarchica o aristocratica. I due termini vengono adoperati indifferentemente nella letteratura[2]; ma il primo sarebbe stato recisamente rifiutato dai “magnifici” (questo il titolo di cortesia dei patrizi genovesi), che ritenevano di aver dato vita a una repubblica aristocratica, un giusto mezzo tra la licenza dei molti e il dispotismo del ‘tiranno’, il signore assoluto: connotato quest’ultimo dell’epoca precedente, quella dei dogi nominalmente “perpetui” ma di fatto assisi su un trono presto divenuto posta in gioco nelle contese tra le grandi casate della fazione popolare. Eppure, a risultare analiticamente e storicamente più pregnante è proprio l’altro termine, che segnala la concentrazione e la riserva della funzione di governo in un ceto ristretto. Quando ebbe inizio, dunque, il tempo degli oligarchi? In pieno Risorgimento lo storico e giornalista Michele Giuseppe Canale non aveva dubbi: “dopo l’anno 1528 cessò la vita robusta e potente dell’antico Comune di Genova, ed il governo dei Dogi biennali si strascinò con istento menando una vita inoperosa ed ingloriosa sin l’anno 1797”[3]. Nel sottolineare il significato periodizzante della riforma detta di Andrea Doria per la storia politica genovese, Canale assegnava alle epoche separate da quella cesura valori contrapposti: positivi al Medioevo comunale, negativi all’età della Repubblica, il tempo degli oligarchi appunto[4].
Questo giudizio, che in altre occasioni Canale articolò più ampiamente ma non modificò mai, è interessante per diverse ragioni. Intanto, esprime nel modo più netto il punto di vista della storiografia risorgimentale genovese[5], pienamente consonante del resto con gli orientamenti della cultura nazionale del tempo, e sviluppa uno spunto presente già nel Sismondi della Histoire des républiques italiennes[6]. In secondo luogo, questo giudizio sulla storia politica genovese dell’età moderna, ripreso volentieri dalla storiografia nazionale postunitaria e ripetuto da quella locale, è stato messo in discussione e per certi versi ribaltato solo in tempi molto recenti. In terzo luogo, e su questo punto torneremo subito, la scansione cronologica, per molti aspetti giusta, segnalata da Canale, rischia di riproporre, soltanto rovesciate di segno, le mitologie politiche elaborate dagli oligarchi stessi nel corso dell’età moderna, e di offuscare alcuni problemi storiografici importanti.
- L’assetto del 1528
Sul piano politico-costituzionale la periodizzazione fissata da Canale (che, ripetiamolo, riprendeva quella assunta dagli stessi genovesi dell’età moderna) ha un’ovvia esattezza: nel 1528 la Repubblica di Genova si diede nuove leggi fondamentali, che sostituivano quelle promulgate nel 1413 e riviste nel 1443[7].
I cambiamenti introdotti nelle istituzioni che reggevano la Repubblica riguardarono soprattutto il dogato, ridotto da durata vitalizia a biennale; la consistenza dei due consigli investiti della funzione legislativa (invece del solo consiglio esistente in precedenza), fissata a 100 membri per il Minore e a 400 per il Maggiore; la durata dei consigli stessi, stabilita in un anno[8]. Magistrature tradizionali, come i Sindicatori, vennero rimodellate e potenziate: col nuovo nome di Supremi Sindicatori, cinque cittadini furono investiti del controllo sulla legalità ‘costituzionale’ degli atti emanati dalle altre magistrature e dalla Signoria stessa, comprendente il Doge e i due Collegi, il Senato e la Camera, composti, rispettivamente, di otto senatori e otto procuratori, che lo affiancavano nelle funzioni esecutive[9]. Questa riforma che, come si vede, riguardava tutte le principali articolazioni istituzionali, fu accompagnata, anzi preceduta, dalla riconfigurazione del ceto di governo cittadino. Nel 1528 venne realizzata infatti la “unione” tra le antiche fazioni nobile e popolare in un solo corpo patrizio a ruolo aperto o semiaperto (torneremo su questo importante aspetto della politica genovese), titolare esclusivo delle principali e più numerose cariche di governo nella Repubblica riformata[10].
I legislatori del ’28 intendevano chiudere un’epoca di lotte faziose (di “disunione”) inaugurata due secoli innanzi, nel 1339, con l’avvento del dogato popolare e vitalizio, se non prima ancora, alla fine del Duecento, al tempo delle diarchie di Capitani del popolo, come tra metà Cinquecento e metà Seicento opinarono alcuni tra i maggiori scrittori politici cittadini, da monsignor Oberto Foglietta ad Agostino Franzone[11]. Intendevano chiuderla riunendo le componenti della società politica cittadina in un unico ordine, definito nobile. Allo scopo venne istituito un “liber civilitatis” (non ancora un “liber nobilitatis”, denominazione introdotta soltanto dopo la riforma del 1576, quando il libro venne rifatto con i criteri prescritti dalle leggi riformate), nel quale tutti gli appartenenti al ceto di governo dovevano da allora in poi essere registrati. Con modalità singolari: ogni famiglia e persona era tenuta a collocarsi sotto l’insegna di una delle ventotto consorterie più numerose. A Genova i consorzi familiari erano detti “alberghi”. L’intera nobiltà cittadina così costituita doveva raggrupparsi in ventotto alberghi, con l’obiettivo di restringersi nel corso del tempo ad altrettanti cognomi. Chi doveva lasciare il proprio appellativo originario per aggregarsi ad un albergo poteva adoperare il doppio cognome: ma nel 1559, su pressione degli stessi aggregati, fu stabilito che si adoperasse solo quello dell’albergo. Così, ad esempio, poiché la famiglia Invrea, non abbastanza numerosa per dare nome ad un proprio albergo, si era aggregata ai Doria, un personaggio influente come Silvestro Invrea doveva essere denominato Silvestro Doria Invrea, e infine Silvestro Doria senz’altro.
Non è ancora chiaro con quali criteri le famiglie e gli individui che in base ai patti stabiliti, con un attento dosaggio, tra i capifazione nel corso del 1528 avevano diritto d’accesso al ceto dirigente si distribuissero nei 28 alberghi della riforma realizzando quella “confusione dei nomi” che Guicciardini registrò senza commenti tra gli ingredienti della riuscita (così pareva in quel momento) pacificazione genovese[12]. La geografia politica cittadina a fine ‘400 e nel primo ‘500 contemplava la divisione tra nobiles e populares, nell’ambito dei populares tra mercatores e artifices, e inoltre una divisione trasversale alle precedenti tra albi, ghibellini, e nigri, guelfi. Possiamo supporre che la scelta di aggregarsi a questa o a quella casata maggiore rispecchiasse precedenti affinità di ‘colore’ o di vicinanza abitativa, una consolidata collaborazione nelle attività mercantili e produttive, e la banale esigenza di non squilibrare troppo le dimensioni dei 28 alberghi, talché gli Spinola, la famiglia di gran lunga più numerosa, aggregarono ben pochi altri cognomi. Per contro, in qualche caso sembra che sia stata messa in atto un’operazione di ingegneria faziosa, che mirò a far convivere casate di appartenenze diverse[13]. E’ certo, inoltre, che il requisito fondamentale per rientrare tra i ventotto alberghi della riforma, l’esistenza di sei “case aperte” in città, cioè sei nuclei familiari residenti, venne disatteso almeno in un caso. I Sopranis potevano vantare sei case aperte; ma i Cibo, famiglia resa influente dal pontificato di Innocenzo VIII, contavano tra i loro l’arcivescovo. Furono i secondi a dar nome a un albergo.
- Alberghi, colori e fazioni
Abbiamo introdotto la nozione di consorteria o “albergo”. Intendiamo ricordarne soltanto la funzione politica. La consorteria familiare non era certo una specificità genovese, ma a Genova aveva avuto larga diffusione proprio nel periodo del dogato popolare[14]. A fine Trecento a Genova si contava una novantina di alberghi; un secolo dopo ne restavano ancora tra quaranta e cinquanta. La diffusione delle consorterie, aggregazioni di famiglie diverse che talora adottavano il nome di quella più influente (i Grimaldi, ad esempio, aggregarono i ricchi ma poco numerosi Cebà e Oliva), talora prendevano invece un nome coniato appositamente (i De Franchi e i Giustiniani tra gli alberghi popolari; gli Imperiale e i Centurione tra gli alberghi nobili), era stata una risposta alla forte conflittualità politica del Tre-Quattrocento. Proprio per questo è bene sottolinearne la funzionalità: in un sistema di governo strutturato sulle fazioni, con una distribuzione degli incarichi ufficialmente ripartita per quote tra nobili e popolari (le leggi del 1363, del 1413 e del 1443 modificarono le proporzioni della rappresentanza delle fazioni, ma non intaccarono il principio della spartizione del governo), gli alberghi tutelavano tanto le fortune mercantili quanto quelle politiche delle famiglie consorziate.
L’età del dogato popolare, quando non fu fatta oggetto di aperta deprecazione, venne condannata a un vero e proprio oblio durante il tempo degli oligarchi, dimentichi di essere, nella stragrande maggioranza, i discendenti delle famiglie e delle persone che proprio in quell’esecrata età dei torbidi avevano o iniziato o coronato la loro ascesa al successo e alla ricchezza. La precarietà dei regimi e le frequenti alternanze nel dogato tra gli esponenti di potenti famiglie mercantili popolari, Fregoso e Adorno in testa, hanno indotto a sottovalutare la basilare solidità della struttura politica cittadina. Lo stereotipo voleva i genovesi irrequieti e instabili[15]. Commines aveva definito come cosa ovvia i genovesi “enclins à toutes mutations”: un’osservazione che a fine Cinquecento il suo traduttore italiano (proprio un genovese) amplificò in “instabilissimi, et per natura inclinatissimi a mutationi, e novità”[16]. A metà Cinquecento un anonimo polemista genovese trovò la spiegazione nel clima “volubile”, tanto diverso da quello “stabile e fermo” di Venezia[17]. Più dottamente, nel primo Seicento lo scrittore politico Andrea Spinola amò citare il “vane Ligur” di Virgilio[18]. Non aveva però torto il non genovese Jacopo Bonfadio, annalista ufficiale della Repubblica negli anni ’40 del Cinquecento, a osservare che le ripetute, e apparentemente umilianti, sottomissioni dei genovesi al re di Francia e al duca di Milano erano state in genere contrattate e accettate dai maggiorenti cittadini, e scosse non appena il loro consenso era venuto meno[19]. Erano state “più presto appoggio, che sogettione”, spiegò, un secolo dopo, un diplomatico genovese a un collega veneziano[20]. La “disunione” faziosa aveva messo l’indipendenza genovese in pericolo forse meno gravemente di quanto non volesse il luogo comune condiviso a Genova e fuori. Era una interpretazione che appagava l’orgoglio cittadino, lavando gli antenati dalla vergogna di essersi piegati a padroni stranieri, ma trovava abbondanti riscontri nei fatti.
Ma se così stavano le cose, perché mai nel 1528 si era sentito il bisogno dell'”unione”?
- Le premesse e le ragioni della riforma del 1528
Non sappiamo ancora quanto vorremmo sulle tensioni interne alla città tra Quattro e Cinquecento. L’episodio del 1506-1507, la rivolta detta “delle cappette” sfociata nel brevissimo dogato del tintore Paolo da Novi e repressa da Luigi XII in persona, chiamato in soccorso dai nobili espulsi dalla città, è la manifestazione più celebre e più clamorosa dei conflitti che attraversavano Genova[21]. La lezione della rivolta fu verosimilmente questa: ai maggiorenti popolari insegnò che non conveniva mobilitare la plebe contro i nobili e i francesi; ai nobili mostrò che vincere con l’aiuto del re di Francia era quasi peggio che perdere. Di certo esistevano movimenti associativi trasversali, giovanili e no, nobiliari e popolari, che patrocinavano un riassetto del governo cittadino nel segno della pace civile[22]. La “unione” era nell’aria, nel primo quarto del Cinquecento. Ma la spinta decisiva a realizzarla venne dai mutamenti nei rapporti di forza tra le grandi monarchie e gli stati italiani e dalla congiuntura della guerra della lega di Cognac.
La fine dell’equilibrio tra i potentati della penisola e l’inizio delle guerre d’Italia avevano già reso pericolosissimo il proseguimento della scissione faziosa e del moto pendolare in corso ormai da un secolo abbondante tra sottomissioni e ritorni all’indipendenza. Il sacco del 1522 aveva dimostrato nel modo più rovinoso la differenza qualitativa tra le occupazioni forestiere di un tempo e quelle ormai di rigore in un’epoca di armate assai più numerose e aggressive. Negli anni Venti del ‘500 si prospettò pertanto anche ai genovesi l’alternativa brutalmente proposta nel 1528 da un segretario del maresciallo francese Lautrec agli inviati di Lucca, che protestavano di essere per la Francia col cuore, ma con l’Imperatore per necessità: “il mondo è hora in due parti et bixogna chiariate se voi siete francesi o imperiali”[23]. Perché i genovesi avrebbero dovuto sostenere il re di Francia? La sua dominazione prometteva, come avevano mostrato la dura esperienza del 1507 e le recenti mosse di Francesco I, di manomettere le leggi e l’indipendenza cittadine e di intaccare la stessa integrità del Dominio. Il rischio che Savona si sottraesse al controllo della Dominante con l’avallo della Francia venne preso sul serio a Genova. L’imperatore Carlo V, che era anche re di Castiglia e Aragona e signore dell’Italia meridionale e delle isole, nonché dei Paesi Bassi, era pronto invece a garantire l’indipendenza e i confini in cambio di una fedele e informale subalternità mal mascherata dalla neutralità ufficiale proclamata dalla Repubblica. Da Napoli a Siviglia ad Anversa, molti uomini d’affari genovesi avevano già i loro interessi nell’uno o nell’altro dei domini dell’imperatore, o in più d’uno contemporaneamente: recenti ricerche sembrano anticipare al primo Cinquecento quell’ascesa della finanza genovese nel mondo iberico che Ramón Carande collocava piuttosto verso la metà del secolo; e in ogni caso la proiezione genovese verso il regno di Castiglia risaliva almeno al Trecento e si era andata successivamente rafforzando, a misura che i mercanti della Superba venivano espulsi dagli antichi empori lungo le coste del Mar Nero e nell’Egeo[24]. Gli artefici diretti della liberazione militare della città dai francesi, Andrea Doria, il suo clan e i suoi luogotenenti e associati potevano contare su immediati e cospicui vantaggi personali e su brillanti prospettive future. La svolta del 1528 ebbe il suo decennio (abbondante) di preparazione. Ma poi fu repentina.
- Che cosa cambiò nel 1528
Il 1528 fu un momento di svolta sotto almeno due aspetti.
Il primo, decisivo aspetto è la collocazione internazionale della Repubblica: da allora Genova mantenne per circa un secolo e mezzo un rapporto di simbiosi con il mondo ispano-asburgico. Genova andò a occupare un ruolo importantissimo nella strategia imperiale di Carlo V e dei suoi successori sul trono di Spagna: se nel confronto navale con l’Impero Ottomano e le città-stato barbaresche il dispositivo militare genovese risultò subito indispensabile nello scacchiere mediterraneo, con lo scoppio della rivolta nei Paesi Bassi Genova divenne uno dei gangli dell’intero sistema logistico spagnolo[25]. Difendere l’indipendenza di Genova era perciò interesse del re Cattolico quasi quanto lo era dei genovesi stessi. Inversamente, sostenere le fortune di Carlo V e dei suoi successori era interesse generale della Repubblica, e interesse particolare degli uomini d’affari genovesi che, sempre più numerosi, commerciavano nei domini e investivano nelle finanze degli Asburgo con lusinghieri e talvolta strepitosi risultati.
Il secondo aspetto riguarda l’assetto politico interno: mutarono non solo le istituzioni cittadine, ma le stesse forme del confronto politico. L’era dell’indipendenza, sia pure sotto le ali dell’aquila asburgica, si aprì all’insegna del ripudio delle contrapposizioni di fazione. La festa dell’unione, il 12 settembre, anniversario dello sbarco armato di Andrea Doria nella città svuotata dalla peste, divenne, e rimase, la sola festività civile permanente della Repubblica, celebrata con una processione e un’apposita orazione pronunciata dal pulpito della cattedrale di San Lorenzo davanti al governo e alla nobiltà riuniti[26].
Solo da poco conosciamo nei dettagli il processo che sfociò nell’assetto dell’autunno 1528. Il compattamento del ceto dirigente venne minuziosamente patteggiato nel corso dei mesi tra i capiparte nobili e popolari. L’unione scaturì dall’attento rispetto dei rapporti di forza e di numero tra le fazioni, brutalmente influenzato proprio in quell’anno anche dall’epidemia. Ma chi guadagnò e chi perse nel 1528? Quale fu il senso di quell’operazione di ingegneria istituzionale? Si trattò o no di una serrata, come qualche volta si è scritto?[27]
Su quest’ultimo punto occorre intendersi. Se per serrata si vuol indicare l’operazione chirurgica di esclusione di un settore del ceto politico dal governo, una purga, allora serrata non fu. Ma andrebbe ricordato che nemmeno la famosa serrata veneziana del Maggior consiglio fu un singolo atto risolutivo, ma un processo pluridecennale[28]. D’altronde, come definire un accordo politico che sostituiva alla precedente maldefinita permeabilità del ceto di governo un vero e proprio ruolo, l’accesso al quale veniva limitato per legge a una quota annua di famiglie? E’ vero che ascrivere dieci famiglie all’anno avrebbe in breve dilatato enormemente il liber civilitatis. Ma sta di fatto che l’ascrizione di dieci famiglie all’anno era una semplice possibilità, non un obbligo come per oltre un secolo pretesero taluni polemisti, e in genere i nemici dello status quo. Perciò, se va fortemente sottolineata la disponibilità del ceto di governo genovese ad aprire i suoi ranghi (una disponibilità che lo differenziava in modo netto dal modello veneziano e sulla quale torneremo più avanti), va anche osservato che nell’immediato quei ranghi furono chiusi. Gli stessi candidati al primo liber civilitatis del 1528 furono sottoposti a una scrematura che forse non dipese soltanto dalla micidiale pestilenza imperversante in città in quei mesi. A perdere fu dunque anzitutto chi restò escluso dal ceto di governo.
In compenso, nel 1528 furono in molti a guadagnare. I nobili perché ottennero stabilmente e sicuramente metà dei posti nel governo, compreso quel dogato dal quale erano stati esclusi nel 1339. Le fazioni cacciate dalla porta rientrarono infatti immediatamente dalla finestra; e le supreme cariche del governo furono subito distribuite paritariamente (o in alternanza, nel caso del dogato) tra ex-nobili ed ex-popolari. Vinsero però anche i maggiorenti popolari, perché si stabilizzarono definitivamente e in massa al governo e ottennero una dignità formalmente pari a quella dei nobili, chiudendo per giunta, o meglio regolando, l’accesso ad eventuali uomini nuovi che reclamassero a loro volta una parte delle cariche. Vinsero, in generale, tutti quelli che avevano affari con l’imperatore: dagli uomini di commercio e di finanza che operavano tra Fiandre, Spagna e Napoli, agli uomini di mare che si ingaggiarono al servizio di Carlo V nel Mediterraneo ormai teatro di una endemica guerriglia di corsa[29]. Nell’immediato i vincitori economici del ’28 furono soprattutto gli ex-nobili, mentre a vincere sul terreno politico furono forse più gli ex-popolari. Ma alla lunga nel guscio assicurato a Genova dalla simbiosi con la Spagna potevano trovare, e trovarono, occasioni di guadagno molti altri.
- Repubblica e San Giorgio
Nel 1528 la riserva dei posti di governo agli ascritti al liber civilitatis fu immediatamente estesa alle Compere (o Banco) di San Giorgio. Chi governava San Giorgio non poteva avere status diverso da chi governava la Repubblica. Infatti, erano generalmente le stesse persone, da sempre. Questo dovrebbe bastare a rendere implausibile l’immagine che osservatori acuti ma estranei alle cose genovesi e di altro preoccupati, come Niccolò Machiavelli, propagarono di San Giorgio come di una sorta di ‘stato nello stato’. I genovesi del Cinquecento non la pensavano affatto così. E parecchi di loro erano assai meno entusiasti di San Giorgio di quanto non lo siano stati gli storici degli ultimi due secoli, i i quali hanno ammirato, non a torto, la mirabile gestione tecnica del Banco[30]. Andrebbe però ricordato che nel 1547 un depositante si introdusse nottetempo con alcuni complici nell’archivio delle Compere e ne sottrasse numerosi registri, per altro quasi tutti ritrovati[31]. Nel 1581 uno dei notai scrivani del Banco appiccò il fuoco all’archivio per cancellare le prove delle sue malversazioni[32]. Un secolo più tardi, nel 1679, un informatore francese, Dancourt, pretese che il grande e terribile segreto della Repubblica fosse l’esistenza di un ben occultato ammanco nei conti di San Giorgio[33]. Insomma, la leggenda aurea di un Banco di San Giorgio paragone di virtù contabile, “governo pecuniario il più bello, et più prudente, che sia mai stato al mondo”, nelle parole di Andrea Spinola[34], dovrebbe forse essere sottoposta a una salutare critica e collocata tra gli ingredienti dell’immagine di granitica solidità finanziaria che giustamente e accortamente il ceto dirigente genovese coltivò. Solo quando l’inventariazione dell’enorme archivio del Banco sarà terminata risulterà possibile esprimere al riguardo un giudizio documentariamente fondato[35]. Nel frattempo accontentiamoci di rilevare che i contemporanei discutevano volentieri della funzione politica che il Banco aveva nella costituzione genovese. Sin dal Cinquecento fu osservato (e divenne poi proverbiale) che a Genova lo stato era povero e i cittadini ricchi. Questo luogo comune è vero e falso nello stesso tempo. Perché il polmone finanziario dello stato genovese era il Banco di San Giorgio, un organismo privato che amministrava il debito pubblico e aveva il monopolio delle principali gabelle, cioè delle voci di tassazione indiretta. Ma quel polmone finanziario era retto dagli stessi che reggevano lo stato. Alla fine del Cinquecento un osservatore forestiero e malevolo affermò che a Genova si era realizzato il governo dei ricchi[36]. Quanto a questo, i genovesi non avevano certo l’esclusiva. Ma l’osservazione era acuta perché sfatava i luoghi comuni basati sull’estrinseca contrapposizione tra le due amministrazioni, statale e di San Giorgio, e sulla superficiale considerazione dei problemi di bilancio dello stato genovese. In realtà, lo stesso ristretto (e in questo solidale) ceto politico giocava su due tavoli e alternava i ruoli. Qualche voce nel Cinquecento chiese perciò la soppressione di San Giorgio. Il ricorso preferenziale alla tassazione indiretta, la forma di fiscalità generalmente più iniqua, fu oggetto di aperte recriminazioni. Va però aggiunto che l’attenzione posta dai governanti genovesi da un lato a costruire un efficace sistema caritativo-assistenziale incessantemente alimentato dalle beneficenze di ricchi privati, e dall’altro lato a risolvere i problemi annonari di una città senza campagna, alleggerirono le pressioni dal basso. La ‘politica del grano’ dei magnifici ebbe successo: alla fine del Cinquecento la città divenne un terminale delle navi granarie nordiche (anseatiche, olandesi); e anche se l’approvvigionamento cerealicolo seguitò ad essere assicurato anzitutto dai tradizionali fornitori mediterranei, il contatto stabilito con i mercati nordici consentiva di sventagliare all’occorrenza le ordinazioni e garantire la certezza delle forniture, oltre ad assicurare buone occasioni di lucro agli accorti speculatori privati. Anche se non andò occasionalmente esente da crisi di sussistenza, Genova non conobbe mai gli assalti ai forni[37]. La pietà accortamente organizzata, più che la forca, tenne saldi i legami verticali tra governanti e governati.
- I limiti della riforma
Perché allora l’unione del 1528 non durò? Perché Genova fu ancora per mezzo secolo politicamente instabile?
L’assetto del 1528 riposava su un triplice sì. Sì, anzitutto, al compromesso istituzionale, e ai suoi sviluppi, da parte non solo di tutte le famiglie e i clan che componevano il ceto dirigente riconfigurato, ma anche di chi ne era rimasto escluso; sì, in secondo luogo, al ruolo eminente di Andrea Doria come garante dell’alleanza imperiale da parte di tutti gli altri oligarchi; sì, infine, alla simbiosi strategica della Repubblica col sistema asburgico. Nel giro di un ventennio il consenso su almeno due di questi punti andò in frantumi.
La convenienza dell’alleanza spagnola era forse ciò che suscitava meno dissensi nel ceto di governo (anche se il patriottismo popolare mantenne a lungo, a detta degli osservatori, una coloritura antispagnola, in attesa di rovesciarsi in filospagnolo e antifrancese). Però, la neutralità formalmente esibita dalla Repubblica era quella di uno stato quasi disarmato, le cui principali forze navali erano in mano a privati (Andrea Doria e gli altri asientistas de galeras, in genere esponenti della ex fazione nobile[38]), e al servizio di un sovrano, Carlo V, perpetuamente in guerra, i nemici del quale diventavano perciò nemici dei genovesi. Dalla metà del secolo, quando Genova si scoprì incapace di vincere da sola la guerra di Corsica[39], la rivendicazione del rafforzamento dell’armamento marittimo pubblico divenne un cavallo di battaglia degli scontenti.
Ma i problemi sorsero principalmente sugli altri due punti. L’aggregazione delle famiglie mediante il sistema degli alberghi provocò molti malumori: quasi tutte le famiglie ex popolari erano destinate a perdere il cognome, ma anche alcune illustri famiglie nobili (i De Mari e i Serra, ad esempio) erano state costrette ad aggregarsi ad altre. Inoltre, la prassi spartitoria dei posti di governo e il flusso di nuove ascrizioni al liber civilitatis scontentarono, per motivi opposti, un po’ tutti. Furono soprattutto gli ex nobili a ritenere di non aver guadagnato abbastanza dal compromesso del 1528. Non sappiamo con esattezza quando cominciassero ad entrare nell’uso le denominazioni di nobili “vecchi” e nobili “nuovi” per designare, rispettivamente, gli ex-nobili e gli ex-popolari. Certo, la situazione peggiorò dopo che, altro punto, l’informale preminenza di Andrea Doria fu sfidata da Gian Luigi Fieschi, e la Repubblica conobbe una parziale riforma costituzionale.
- La congiura dei Fieschi e il “garibetto”
L’avvenimento è celebre. La notte del 2 gennaio 1547 il conte Gian Luigi Fieschi e i suoi fratelli cercarono di uccidere Andrea Doria e il suo giovane cugino ed erede Giannettino, e di impadronirsi del potere: verosimilmente per instaurare la signoria personale del Fieschi e spostare Genova nel campo di alleanze della Francia[40]. Il conte cercò appoggi tra i nobili “nuovi” e negli ambienti popolari e artigiani, soprattutto tra i tessitori, la principale massa di manovra plebea: senza grande successo per altro; come osservò l’ambasciatore spagnolo Figueroa, la grande maggioranza dei genovesi preferì restare alla finestra, e questo fu il loro solo e modesto merito. La congiura fallì, per la morte accidentale di Gian Luigi nelle prime fasi dell’azione; però Giannettino Doria fu ucciso[41]. Ripreso il controllo della situazione da parte del governo, alcuni nobili “vecchi” (Agostino Spinola conte di Tassarolo, ad esempio) appoggiarono le richieste di quei consiglieri imperiali, Ferrante Gonzaga in testa, che volevano assicurarsi della città costruendovi una fortezza e insediandovi una guarnigione, come a Siena. Era l’anticamera di un cambio di qualità del rapporto che la Repubblica aveva stretto con l’Imperatore. Adamo Centurione e lo stesso Andrea Doria (al quale la tradizione attribuì in ogni caso il merito) capeggiarono quanti invece, e dovevano essere principalmente “vecchi” anche costoro, difesero l’indipendenza cittadina così com’era, cogliendo però l’occasione di modificare la costituzione in senso ancor più oligarchico[42].
La legge detta del “garibetto”[43] affidò l’elezione di tutto il Minor Consiglio e di un quarto del Maggiore a un comitato ristretto costituito dai membri delle principali magistrature: Collegi, San Giorgio e Supremi sindicatori. In linea di massima, allora e al momento della riforma del 1576, i “vecchi”, nel complesso più ricchi, influenti e prestigiosi preferivano affidare la scelta dei magistrati all’elezione; i “nuovi”, più numerosi e distribuiti in molte più famiglie, propendevano invece per il sorteggio. Il “garibetto” era dunque un provvedimento specificamente diretto a garantire a una consorteria di oligarchi (comprendente, beninteso, anche i maggiorenti “nuovi”: ma, appunto, l’élite tradizionale e moderata della fazione) il controllo delle elezioni e per questo, in senso lato, una misura favorevole soprattutto ai “vecchi”. Ad esso seguirono col tempo una forte riduzione e poi il blocco delle nuove ascrizioni, e una puntigliosa rivendicazione di distinzione, dunque di superiorità, ancora da parte dei “vecchi”[44].
Per giunta, Genova fu coinvolta per un quindicennio, dal 1553 al 1569 (con un intervallo tra la pace di Cateau-Cambrésis e il 1564) nella guerra di Corsica. L’isola fu teatro di una serie di ribellioni, innescate dalla riuscita invasione dell’isola da parte dei franco-turchi, costosissime da domare[45]. Occorse accentuare la pressione fiscale: e poiché questa veniva esercitata soprattutto attraverso le imposte indirette, come la gabella del vino, a farne immediatamente e pesantemente le spese fu il mondo popolare.
Il garibetto divenne dunque il bersaglio polemico non solo dei “nuovi”, che si ritenevano penalizzati dal nuovo sistema, ma anche dei popolari grassi o in via di diventarlo, che vedevano sfumare le speranze di essere ascritti al liber civilitatis, e degli artigiani e della plebe, schiacciati dalle tasse. Per tutti costoro la parola d’ordine era il ritorno al Ventotto.
- La svolta del 1575-1576 e le Leggi nuove
Un risultato accessorio della congiura dei Fieschi fu di liberare gli oligarchi genovesi dall’ingombro dell’egemonia doriana. Andrea morì novantaquattrenne nel novembre 1560. Il suo nuovo erede, il ventenne Gian Andrea, a differenza del padre Giannettino, non era ancora un personaggio di rilievo, aureolato dalle vittorie navali[46], ed era condannato dalla giovane età a restare per il momento ai margini dei grandi giochi di potere[47]. Gli anni ’60 furono probabilmente l’età dell’oro degli oligarchi “vecchi”, padroni del gioco politico e liberi dalla tutela doriana[48]. Proprio allora, per inciso, decollò l’operazione immobiliare di Strada Nuova: la costruzione di un quartiere residenziale separato, realizzato con una vera e propria lottizzazione e subito occupato dai principali esponenti delle grandi famiglie “vecchie”[49]. Coincidenza degna di nota e di conseguenze, dal 1557-1560 i genovesi divennero incontestabilmente i principali banchieri di Filippo II, successore di Carlo V sul trono di Spagna e beneficiario dei tesori, via via più cospicui, delle Americhe[50].
La bonanza finanziaria dei genovesi durò, come è noto, parecchi decenni. La bonanza politica dei “vecchi” fu invece assai breve. Nei primi anni ’70 i malumori si coagularono. Gli scontenti trovarono, sia pur faticosamente, un’intesa. Nel 1575 i nobili “nuovi”, alleati al popolo grasso e agli artigiani, abrogarono con un colpo di mano il garibetto. I “vecchi”, che puntavano come male minore a ritornare a una vera e propria divisione del ceto di governo in due ordini distinti, come ai tempi del dogato popolare, ed erano persino disposti a scavalcare i “nuovi” concedendo un terzo dei posti di governo al popolo grasso, fuoruscirono dalla città e iniziarono una guerra civile contando sull’aiuto spagnolo. Questa speranza andò delusa: Filippo II approfittò anzi della circostanza per dichiarare bancarotta e cercare di rinegoziare a proprio favore il rapporto con i finanzieri genovesi: rimediandone per altro una sonora sconfitta. Infatti negli anni seguenti gli hombres de negocios genovesi, “vecchi” e “nuovi” di comune accordo, condussero una guerra sorda e vittoriosa sulle piazze finanziarie che portò al trasferimento, nel 1579, delle fiere di cambio dette “di Bisenzone” a Piacenza sotto controllo genovese[51].
Quanto alla guerra civile del 1575, essa venne composta grazie alla mediazione congiunta del papa, del re di Spagna e dell’imperatore: e per mezzo, e mano, del delegato papale, il concittadino cardinale Giovanni Morone, nel marzo 1576 Genova ebbe delle “Leggi nuove”, dette anche Leggi di Casale dalla città del Monferrato dove si svolsero le trattative tra le delegazioni delle due fazioni in lotta[52].
Il garibetto restò abolito; ma non per ripristinare il dettato del 1528. Il sistema degli alberghi come criterio di distribuzione degli effettivi del ceto di governo (non come istituto di diritto privato) fu smantellato, restituendo ciascuno al suo cognome originario, salvo preferenza contraria. L’esecutivo venne allargato da sedici a venti membri (dodici governatori o senatori, e otto procuratori) e scelto con un’originale procedura che mescolava elezione e sorteggio attraverso l’urna del Seminario[53]. Restò ribadita l’unicità dell’ordine nobiliare. La legge delle ascrizioni venne confermata: anzi, nel 1576 un’infornata di novantasette nobilitazioni (ma i candidati erano circa trecento e la massima parte degli ascritti del 1576 portavano cognomi già presenti nel Liber civilitatis) premiò i maggiorenti popolari alleati ai “nuovi”, raggiunti negli anni immediatamente seguenti da alcune altre famiglie.
Vittoria dei “nuovi” su tutta la linea? All’apparenza sì. Ma era una vittoria che riportava in equilibrio, sia pure con una formula originale, un pendolo che, dopo il 1547, aveva oscillato in direzione favorevole ai “vecchi”.
Dopo il 1576 Genova non conobbe altre riforme costituzionali, sino alla caduta della Repubblica nel 1797. Le sole novità di rilievo (vale a dire, escludendo la regolamentazione delle attribuzioni di singole magistrature) furono l’istituzione degli Inquisitori di Stato, nel 1628, a ridosso della congiura di Giulio Cesare Vacchero[54], il raddoppiamento del Minor Consiglio da cento a duecento membri nel 1652[55], e l’ammissione nel Maggior Consiglio di tutti i nobili maggiorenni dopo la terribile pestilenza del 1656-1657[56]. Nel 1576 ebbe perciò termine non solo il ciclo politico medio-breve iniziato nel 1528 con la riforma detta di Andrea Doria, ma anche il ciclo politico molto più lungo aperto dalla grande scissione faziosa degli anni trenta del Trecento. Porre al 1528 la frontiera tra evo medio ed età moderna nella storia politica e istituzionale genovese è dunque giusto in linea generale, ma euristicamente ambiguo. Per un verso, è infatti impossibile non risalire almeno al Quattrocento, se non addirittura al fatidico 1339, per comprendere la formazione e le dinamiche delle strutture faziose: e il Quattrocento politico genovese rimane per larghi tratti terra incognita. Per un altro verso, la vera svolta stabilizzatrice della storia politica cittadina appare il 1576, quando venne messa per l’ultima volta a punto la macchina del governo oligarchico.
- Perché le Leggi di Casale durarono
Dobbiamo dunque chiederci perché le leggi del 1576, a differenza di quelle del 1528, siano durate. Perché erano intrinsecamente meglio pensate? Perché vennero applicate più accortamente?
Rispetto al Ventotto, la scomparsa del singolare, macchinoso e frustrante sistema degli alberghi rappresentava indubbiamente un vantaggio: tanto che ci si chiede come mai questa soluzione non fosse stata adottata subito, e se qualcuno dei riformatori del ’28 non l’avesse ventilata sin da allora. Ma, soprattutto, la prassi applicativa delle norme di Casale smussò le possibili occasioni di tensione. Non c’è norma, spiegano i giuristi, che non sia corretta e modellata dalla prassi. E per l’appunto nel caso genovese non troviamo la tanto proverbiale quanto ingannevole contrapposizione tra norma e prassi, ma piuttosto una duttile complementarietà. Dopo il 1576 la prassi di governo degli oligarchi fece per l’appunto un uso accorto e selettivo delle norme.
Qual era lo spirito delle leggi di Casale? Assicurare il ristabilimento più saldo e definitivo dell’unione. Questo obiettivo, non facile tenuto conto del contesto e dei precedenti, poteva essere conseguito in più modi.
Un primo esempio. Due capitoli delle leggi, il 44 e il 48, vincolavano le decisioni sulle materie gravi di politica estera (stipulazione di alleanze, dichiarazione di guerra, stipulazione di paci) e di politica interna (la concessione di pieni poteri ai Collegi per il mantenimento dell’ordine, e l’autorità di procedere extragiudizialmente per indagare su reati di particolare gravità e di interesse politico) all’approvazione dei 4/5 del Minor Consiglio. Per le scelte fondamentali e più delicate, insomma, occorreva un consenso talmente ampio che il solito Andrea Spinola individuò in queste disposizioni la “finezza di prudenza rara” di Filippo II per prevenire ogni iniziativa nociva alla Spagna paralizzando il processo decisionale dei governanti genovesi[57]. Niente, nella norma, impediva che nei Collegi e nel Consiglietto prevalesse occasionalmente una fazione. Va però rammentato che i Consigli avevano durata annuale e tutte le principali magistrature, a cominciare dal Doge e dai Collegi e con la sola eccezione dei Supremi Sindicatori, durata biennale: il che limitava comunque nel tempo l’eventuale preponderanza di una parte sull’altra. E nei fatti preponderanza era difficile che si manifestasse, perché anche dopo il 1576 le cariche di governo più importanti seguitarono ad essere spartite per quanto possibile paritariamente tra famiglie “vecchie” e famiglie “nuove”. Il Minor Consiglio comprendeva “vecchi” e “nuovi” in numero uguale, scelti da Trenta elettori (designati dal Minor Consiglio uscente) anch’essi metà “vecchi” e metà “nuovi”. I nominativi immessi ogni anno nell’urna del Seminario erano generalmente (salvo quando il numero era dispari) metà “vecchi” e metà “nuovi”. Il sorteggio poteva produrre una sovrarappresentanza dei “nuovi”, distribuiti tra un maggior numero di casate e statisticamente meno soggetti all’impedimento dei legami di consanguineità[58]. Ma non necessariamente: negli anni ’10 del Seicento, ad esempio, la maggioranza dei senatori e procuratori risultò composta di “vecchi”; e in ogni caso non in misura eccessiva e non in permanenza. I dogi erano alternativamente un “vecchio” e un “nuovo”: con il corollario che in caso di morte del doge in carica dopo la metà del mandato si procedeva all’alternanza, altrimenti si sceglieva un uomo della stessa fazione. Anche il governatore della Corsica (carica, neanche a dirlo, biennale) era tratto per quanto possibile alternativamente dall’uno e dall’altro “portico”. Prima del 1528 i rappresentanti popolari nel governo erano stati tratti per metà dal raggruppamento dei mercanti e per metà da quello degli artigiani. Ci sono testimonianze che ancora alla fine degli anni dieci del Seicento anche questa sottoripartizione venisse osservata al momento di eleggere il doge “nuovo”[59].
Insomma: la norma prescriveva di dimenticare le fazioni. La prassi strutturava invece il processo di selezione dei governanti precisamente su di esse, ma senza mai dirlo.
- La persistenza delle fazioni
“Unione” e “disunione”, valore e disvalore sommi della politica genovese (potremmo farli corrispondere a ‘concordia’ e ‘conflitto’ oppure ‘consenso’ e ‘dissenso’: e il patrizio che occasionalmente si alzava a criticare nel Minor Consiglio le proposte dei Collegi poteva essere tacciato di fomentare la “disunione” e ammonito o addirittura incarcerato per punizione, come accadde allo scrittore politico Andrea Spinola nel dicembre 1619, e ad altri prima e dopo di lui), volevano dunque dire anche questo: accordo o disaccordo tra gli oligarchi per un’equa compartecipazione al governo. L’intero pensiero politico genovese del Cinque e Seicento condannò tuttavia le fazioni e persino il loro ricordo. Come mai, allora, la persistenza della struttura faziosa non minacciò la stabilità della Repubblica?
Si tratta di intendersi sul significato della parola fazione. I polemisti pensavano alle fazioni come a raggruppamenti organizzati non solo conflittuali, ma finalizzati alla gestione del conflitto, spesso e volentieri armato, che Genova aveva conosciuto più volte tra il pieno Duecento e gli inizi del Cinquecento, e tendenzialmente rivolti a prendere il controllo del governo. Ma dopo il 1576 il conflitto era ormai incruento e riguardava semplicemente la distribuzione delle cariche. In quella fase della storia politica genovese, perciò, le fazioni erano ormai e anzitutto dei contrassegni di identità a fini elettorali. In una certa misura, via via decrescente, seguitavano a corrispondere a pratiche di socialità separate. Era infatti più probabile e frequente sia imparentarsi sia semplicemente socializzare con persone della stessa fazione[60]. Non per nulla nel pieno Cinquecento “portico di San Luca” e “portico di San Pietro”, luoghi di ritrovo separati e distinti attorno alla centrale piazza di Banchi, erano assurti a sinonimo rispettivamente di “vecchi” e “nuovi”: e il termine “portico” entrò permanentemente nel vocabolario politico genovese a significare “fazione”[61]. A fine Cinquecento la più importante accademia genovese, quella degli Addormentati, presentava ancora un connotato fazioso[62]. Ma era il carattere, per così dire, recessivo del fenomeno; quello dominante era l’uso dell’appartenenza faziosa come criterio regolatore, stabilizzatore e semplificatore delle procedure elettorali: un modo per prevenire gli imprevisti e distribuire le opportunità, dal momento che l’esito delle principali scadenze elettorali veniva in questo modo se non proprio predeterminato, certo circoscritto nel ventaglio delle scelte e sottratto per quanto possibile all’incertezza e al conflitto delle ambizioni inviduali e di clan. A Genova, insomma, nel corso del Cinquecento, mantenendo le stesse etichette di fazione il ceto di governo passò da una prassi tendenzialmente, e talvolta effettivamente, conflittuale ad una prassi apertamente e solidamente consociativa. Alla lunga anche le pratiche matrimoniali andarono sfumando le differenze: le grandi e più facoltose casate “vecchie” e “nuove” si legarono spesso e volentieri tra loro.
Le fazioni non rappresentavano perciò un fattore di crisi, come i commentatori politici interni e gli osservatori esterni amarono credere e far credere, leggendo il presente con le lenti del passato, ma al contrario un potente fattore di stabilità.
- L’oligarchia aperta
Analoga considerazione va fatta a proposito delle ascrizioni. Il ceto dirigente genovese era, a norma di legge, un’élite aperta: caratteristica che non mancò di suscitare qualche curiosità, ad esempio nell’Olanda di metà Seicento, e che andrebbe considerata in una prospettiva comparativa[63]. Ma dopo il 1576-78, gli anni delle infornate, l’apertura si ridusse a una fessura. In mezzo secolo furono ascritte solo tre famiglie, per giunta nella stessa tornata, nel 1612. Solo la sequenza drammatica della guerra con il duca di Savoia alle soglie di casa e della congiura dentro casa, dopo il 1625, indusse i governanti a riaprire la porta[64].
A più riprese gli scrittori politici genovesi espressero il timore (e gli avversari interni ed esterni del governo l’auspicio) che il ceto non ascritto, o secondo ordine, il popolo grasso insomma, scontento per l’esclusione dal governo insorgesse e rovesciasse l’oligarchia. La congiura di Vachero, nel 1628, sembrò confermare le peggiori preoccupazioni. Momenti di tensione dopo il 1576 non mancarono: anche se, a tacere di alcuni episodi minori, la dissidenza tra il popolo grasso venne alla superficie solo a due riprese, con Vachero nel 1628 e forse (perché in questo secondo caso si trattò piuttosto di un’iniziativa individuale, presa per giunta da un membro, sia pure emarginato, del patriziato) con Raffaele Della Torre junior nel 1672[65]. Grazie alle ascrizioni, il popolo grasso venne ripetutamente scremato dei suoi rappresentanti più ricchi (i re della carta di Voltri, per esempio[66]) oppure più qualificati.
Il maggiore scrittore politico genovese del primo Seicento, Andrea Spinola, avversava la legge delle ascrizioni annuali considerandola fomite di ambizioni e frustrazioni nel secondo ordine, e quindi minaccia all’unione. Proponeva perciò di attuare un’ultima infornata e poi operare una serrata: una soluzione ‘veneziana’, modello che infatti lo scrittore genovese ammirava, pur ritenendolo, come al solito, non facilmente trasferibile dalla laguna alle rive del Tirreno[67]. I governanti, invece, non solo non le abolirono mai, ma dopo il 1628 alle ascrizioni ordinarie sommarono occasionalmente quelle propiziate da offerte di denaro: solo per questo aspetto ripresero un suggerimento spinoliano[68]. In seguito le ascrizioni, formalmente motivate secondo la legge dal merito dei candidati, furono di fatto (benché non obbligatoriamente) abbinate al versamento di significativi contributi alle casse pubbliche. Si potrebbe osservare che in questo caso fu Genova a fare da modello a Venezia, che praticò anch’essa nobilitazioni platealmente venali all’epoca della guerra di Candia[69]. I critici della legge non coglievano la subalternità nella quale il meccanismo delle ascrizioni poneva i popolari doviziosi. Era sempre lecito bussare alla porta; e di tanto in tanto a qualcuno veniva aperto. Ma l’apertura dipendeva dagli oligarchi, che conveniva non sfidare ma piuttosto coltivare: gli aspiranti alla nobilitazione entravano in competizione tra loro, invece di fare blocco. Pertanto attraverso la legge delle ascrizioni il patriziato non solo si rinsanguava, ma consolidava la propria egemonia, impedendo lo sviluppo di un secondo ordine antagonista e ricco.
- Gli scontenti dell’assetto di Casale
Abbiamo messo in rilievo alcuni solidi presupposti della persistenza del regime oligarchico. Grazie alla quale, invece di una “vita inoperosa e ingloriosa”, come voleva Canale, i magnifici riuscirono con accortezza, e sia pure sormontando notevoli difficoltà, a governare una fase di enorme fortuna per Genova. Il Cinque-Seicento ci appare ormai “il secolo dei genovesi”, l’età degli asientistas di Strada Nuova e della splendida fioritura artistica e architettonica cittadina: uno dei grandi momenti, insomma, della storia di Genova[70].
La medaglia aveva però un rovescio. In termini sociali la conversione agli investimenti finanziari comportava il ridimensionamento e la ristrutturazione dell’apparato produttivo, il tramonto delle attività industriali cittadine, che andarono decentrandosi nel Dominio, e della marineria. Per molti plebei genovesi significò percorrere il tragitto, tuttora mal noto, da artigiani combattivi e organizzati a servitori deferenti[71].
La nuova Genova cresciuta all’ombra della Spagna e degli affari con la Spagna non piaceva nemmeno a una parte dello stesso ceto di governo. Nell’ostilità di Andrea Spinola verso le ascrizioni s’intravede appunto il timore della semplificazione sociale che il prosciugamento del secondo ordine implicava. La “fortezza dell’interesse” e le “catene d’oro” che legavano i genovesi al re Cattolico a più d’un oligarca parevano intollerabili[72]. Almeno dagli anni ’80 del Cinquecento si trova documentata l’esistenza tra i magnifici di un orientamento “repubblichista”, un termine di significato molto simile a ‘patriota’[73].
Chi era repubblichista? Chi voleva Genova armata di galee proprie, e non dipendente dall’aiuto, e dal vincolo, della Spagna e dei privati che navigavano sotto la sua bandiera e ai suoi ordini. Chi preferiva la mercatura e la marineria alla finanza. Chi sognava il patriziato parsimonioso e austero, in aderenza ai modelli culturali del mercante quattrocentesco e primocinquecentesco, e non dedito a sciupii vistosi e “costumi cavallereschi” di importazione e imitazione spagnolesca. Il “cittadino di Repubblica”, per riprendere il titolo del trattatello di Ansaldo Cebà, dato alle stampe nel 1617, doveva essere virtuoso, votato al bene pubblico, sobrio in tutto[74]. Nel pensiero “repubblichista”, espresso al meglio nell’opera di Andrea Spinola, quasi tutta stesa tra il 1610 e il 1623, confluiva l’eredità dei polemisti del pieno Cinquecento, da monsignor Oberto Foglietta agli anonimi protagonisti della battaglia pubblicistica che precedette e accompagnò la guerra civile del 1575[75]: ma aggiornata da una valutazione critica dei frutti della simbiosi tra Genova e il sistema spagnolo. Quello dei “repubblichisti” più giovani, della generazione sucessiva, era un atteggiamento di opposizione, armato di moralismo e di passatismo, ma proprio per questo teso a proporre una radicale riconversione marinara e mercantile dell’economia cittadina. Nelle acque tranquille del primo quarto del ‘600 non era fatto per incontrare troppe simpatie. Quando le acque si agitarono di nuovo, fece il suo ingresso sulla ribalta.
- Ascesa e declino dei patrioti
La congiuntura internazionale offre la chiave per comprendere, dopo la nascita della Repubblica oligarchica nel 1528, la crisi del suo ceto di governo un secolo dopo.
A più d’un patrizio la simbiosi con la Spagna cominciò a sembrare meno conveniente e giustificata dopo la guerra del 1625 contro il duca di Savoia e la congiura di Vachero. Il re Cattolico, secondo costoro, non aveva sostenuto abbastanza a fondo le ragioni della Repubblica, nonostante un secolo di fedele alleanza; anzi, una volta assicurata la difesa di Genova e respinte le forze savoine, aveva, attraverso i suoi rappresentanti in Italia, primo fra tutti don Gonzalo Fernández de Córdova, governatore di Milano, cercato un accordo con Carlo Emanuele I di Savoia. E quando questi aveva minacciato di far decapitare cinque patrizi genovesi prigionieri di guerra se Vachero e i suoi complici fossero stati giustiziati, gli spagnoli avevano caldeggiato la clemenza per i cospiratori. Sfuggiva ai genovesi, indignati sia per il ricatto (che per altro respinsero, giustiziando i condannati senza subire conseguenze di sorta) sia per l’apparente voltafaccia dei rappresentanti del Cattolico a Milano e a Genova, che la Spagna doveva elaborare una complessa e difficile strategia imperiale, per giunta su più scacchieri, nella quale la Repubblica non poteva pretendere un ruolo esclusivo o privilegiato, e che nelle contingenze della guerra per la successione del Monferrato trasformare in alleato il recente nemico Carlo Emanuele I riportando il ducato di Savoia al ruolo di stato cuscinetto e di antemurale tra Milano e la Francia era una mossa ragionevole e utile.
Parallelamente, la crisi delle finanze spagnole del 1627 ebbe dimensioni, e ripercussioni sugli investitori genovesi, più gravi che non le crisi precendenti, anche se non sembra più accettabile la tesi tradizionale che proprio la bancarotta del 1627 abbia chiuso il “secolo dei genovesi” in Castiglia: il tentativo di Olivares di sostituire un consorzio di “marrani” portoghesi ai finanzieri genovesi come principali asentistas de dinero fallì[76]. Sta però di fatto che danni dei privati e danno pubblico si confusero nel coro delle recriminazioni[77].
Dalla metà degli anni ’30 alla metà degli anni ’50 gli avversari dello status quo, repubblichisti e antispagnoli veri e propri, vennero allo scoperto e accedettero alle supreme cariche del governo, dogato compreso[78]. Rimasero sempre, verosimilmente, una minoranza del patriziato, ma una minoranza robusta, rumorosa e attiva. Le loro ambizioni sembrarono giustificate dal riemergere della Francia come efficace contraltare della potenza spagnola, e poi dalla gravissima crisi alla quale quest’ultima andò incontro negli anni ’40. Alcuni personaggi di punta dello schieramento innovatore, come Federico Federici e Giambattista Raggio, incitavano addirittura a cogliere l’attimo, adottare una politica aggressiva, promuovere l’espansione territoriale: la Repubblica poteva diventare “il granello che fa pendere la bilancia” nel duello tra Spagna e Francia[79]. Gio. Bernardo Veneroso proponeva che una ricostituenda flotta genovese si affiancasse a quella veneziana nella difesa di Candia[80]. Difficile dire se fossero ambizioni calcolate o velleità. Alcuni eminenti repubblichisti, nonostante l’affettazione di austerità, erano gran signori, appartenenti al vertice del patriziato: Agostino Pallavicini, Giacomo Lomellini, Alessandro Spinola, Anton Giulio Brignole Sale. Le teste forti dello schieramento erano piuttosto giuristi come Federici e Raggio, e soprattutto Raffaele Della Torre[81]. Qualsiasi cosa fossero, né potevano né probabilmente nemmeno volevano infrangere le regole stabilite dalle leggi di Casale, che costringevano a costruire larghe intese.
Inoltre, uno schieramento composito e magmatico come quello repubblichista non era in grado di controllare a lungo il governo. I sostenitori dello status quo erano sempre abbastanza numerosi da bloccarne le iniziative. Tanto più facilmente, in quanto le ambizioni di rilancio mercantile ed espansione territoriale presupponevano uno stato ricco, con un sistema di finanza pubblica diversamente strutturato, e non dipendente da San Giorgio. Il sistema politico genovese era congegnato per durare, non per cambiare. Toccarne un elemento significava metterlo in discussione nel suo complesso e suscitare la resistenza dei centri di interesse consolidati, come si vide nello sfortunato tentativo di armare galee con equipaggi liberi[82]. La maggioranza degli oligarchi non voleva il salto nel buio. L’insidia più pericolosa all’assetto interno della Repubblica venne probabilmente dalla congiura di Gian Paolo Balbi: un colpo di stato sul modello di Gian Luigi Fieschi, anche questa volta sostenuto dalla Francia (Balbi era in contatto con il cardinale Mazarino, presso il quale cercò inizialmente rifugio una volta fuggito da Genova), scoperto per delazione di uno dei congiurati nella primavera del 1648. Balbi è stato generalmente presentato come un avventuriero senza prospettive e senza principi. Tanto vale, però, sostenere che i repubblichisti legalitari erano, nonostante la loro statura intellettuale e l’esibita integrità morale, degli illusi[83].
Quando la congiuntura internazionale si stabilizzò di nuovo, alla fine degli anni ’50 del Seicento, i genovesi scoprirono di non poter e di non voler far altro che rimanere sotto l’ombrello spagnolo.
- Genova fuori del sistema spagnolo
Le sole svolte riconoscibili nella storia politica genovese dopo il 1576 sono situate nel primo decennio del Settecento, quando la guerra di Successione spagnola mandò in pezzi il sistema ispano-asburgico e ridistribuì tra diverse teste coronate, per giunta in contrasto tra loro, le aree nelle quali i genovesi si erano diretti per un secolo e mezzo[84], e all’epoca della guerra di Successione austriaca, quando l’integrità territoriale, se non la sopravvivenza stessa, della Repubblica fu salvaguardata solo grazie al sostegno della Francia, che divenne pertanto il nuovo, vero punto di riferimento politico degli oligarchi[85].
Prima che avvenisse questo radicale cambiamento di scenario, Genova era stata oggetto di forti pressioni proprio da parte della Francia perché cambiasse orbita. La Repubblica accettò l’alea di sfidare Luigi XIV e subì nel maggio 1684 un rovinoso bombardamento. La visita del doge di Genova a Versailles, a presentare le scuse al Re Sole, è stata definita con ossimoro brillante ma forse eccessivo una “dignitosa umiliazione”[86]. L’immagine dello scontro tra Genova e Luigi XIV come di un duello tra Davide e Golia (con la differenza non trascurabile che, nel caso, era Golia a vincere), per quanto eroica e gratificante per l’orgoglio genovese, è riduttiva. I magnifici accettarono consapevolmente la sfida e in una certa misura addirittura la provocarono. Giocarono un azzardo calcolato[87]. Persero, e si trincerarono in una neutralità benevola verso la Francia, dove cominciarono a indirizzare investimenti e dove alcune casate realizzarono strepitose fortune che ne propiziarono l’ingresso nel patriziato, percorrendo una traiettoria sociale che ricalcava quella degli hombres de negocios genovesi in Castiglia[88]. Ma il contesto internazionale complicò, e modificò in maniera decisiva, i termini dei loro problemi. Le potenze marittime, Inghilterra e Olanda, a fine Seicento presero a insistere sulla Spagna perché riconducesse all’ordine la Repubblica, ma stavolta per loro conto. Nel contempo, negli anni ’90 nell’Italia settentrionale fece la sua ricomparsa, per giunta a mano armata, l’Impero[89]. Vienna da un lato, Parigi dall’altro, divennero i poli di attrazione alternativi della politica genovese. Lo sarebbero rimasti nel corso del secolo successivo.
- Problemi aperti
Il profilo della storia politica genovese che si è sin qui delineato per grandissime linee tiene conto di ricerche che hanno privilegiato alcuni temi e figure, mentre non ne hanno presi in considerazione altri. Proviamo perciò a stendere un’agenda dei filoni che sarebbe utile scavare, senza pretesa di esaustività, e precisando subito che in ogni caso anche alcuni settori di ricerca tradizionali, come la storia delle relazioni internazionali e la ricostruzione degli avvenimenti politici, sono ben lontani dall’essere esauriti[90].
(a) Il funzionamento della maggior parte delle magistrature della Repubblica è tutt’altro che noto. Le istituzioni caritative e annonarie hanno ricevuto un’attenzione privilegiata, così come per certi aspetti le magistrature sanitarie e navali. Ma, ad esempio, l’esercito di terra della Repubblica, sul quale pure si conserva documentazione abbondantissima, è negletto: eppure, uno stato che si è abituati a considerare quasi indifeso e imbelle ebbe ripetute occasioni di impegno militare tra Sei e Settecento: e si trattò di impegni non marittimi ma, sia in Corsica sia in Terraferma nel 1625, nel 1672 e nel 1745-1748, terrestri.
(b) Mancano studi complessivi sul governo delle periferie[91]. Le ricerche pregevolissime di Edoardo Grendi e Osvaldo Raggio muovono da interessi diversi[92]. Resta da comprendere come mai, se la Repubblica aveva un sistema di governo relativamente semplice e slegato, secondo il luogo comune, la metropoli riuscisse a tenere sempre sotto controllo le periferie, e perché solo in un caso (Sanremo nel Settecento) una comunità locale sviluppasse un forte spirito di rivolta. In realtà l’integrazione tra il ceto dirigente metropolitano e i notabilati locali, e il peso della presenza degli oligarchi nel Dominio, restano da studiare. A corollario di questo punto aggiungiamo la carenza di studi sul governo della Corsica. Le ricerche sono ora finalmente avviate da parte corsa con l’utilizzazione della documentazione archivistica genovese; ma è evidente che sarebbe utile anche una prospettiva metropolitana del lungo rapporto tra la Repubblica e il suo più durevole dominio[93].
© Le storie di famiglia e le biografie di personaggi di rilievo sono rare e confinate per lo più alle voci del Dizionario Biografico degli Italiani. La ricerca di Edoardo Grendi sui Balbi è una felice eccezione, anche dal punto di vista metodologico: si tratta infatti della ricostruzione di una vicenda familiare condotta senza disporre (o quasi) di carte di famiglia; mentre le indagini sui Brignole Sale si sono valse del ragguardevole archivio donato nell’Ottocento al Comune di Genova, e hanno ruotato sulle figure distintesi per l’attività culturale e mecenatizia[94]. In generale, la maggior parte delle grandi figure dell’oligarchia attende ancora un biografo, a cominciare da Andrea Doria, che meriterebbe un’indagine di amplissimo respiro[95].
(d) Se l’oligarchia da un lato, e il mondo popolare per alcuni aspetti (come fruitore di alcuni servizi assistenziali e come protagonista delle attività produttive) dall’altro, hanno attirato attenzione, scarsissimo interesse ha suscitato invece il “secondo ordine”, il mondo dei professionisti e degli imprenditori: eppure da lì proveniva la burocrazia sia della Repubblica sia di San Giorgio, e da lì l’oligarchia trasse i suoi rinforzi attraverso le ascrizioni[96].
(e) La “politica popolare” che si sviluppava, a detta di tutti gli osservatori, nel mondo associativo delle arti e più ancora delle confraternite (dette a Genova “casacce”) e che garantì per due secoli una integrazione subordinata del “secondo ordine”, ma anche del popolo minuto artigiano, nel sistema oligarchico è pressocché ignota nelle sue articolazioni e nelle sue dinamiche[97].
(f) I genovesi fuori di Genova sono ancora una nebulosa indistinta. Le preziose ricerche di Aurelio Musi sui De Mari (classico esempio di famiglia divaricatasi tra ramo genovese e ramo napoletano) e di Giovanni Brancaccio sul consolato genovese a Napoli dovrebbero trovare imitatori[98]. Senza contare che all’emigrazione ‘alta’ dei mercanti e finazieri di successo, talvolta trasformatisi in feudatari, va aggiunta quella più modesta degli artigiani, dei marinai, e dei piccoli imprenditori, quantitativamente assai più significativa e temporalmente più duratura.
Arrestiamoci qui e tiriamo le conclusioni provvisorie.
Il tempo degli oligarchi si protrasse per cent’anni dopo la fine del sistema di relazioni internazionali che aveva favorito, se non condizionato, la stabilizzazione politica della Repubblica. Ma il Settecento politico genovese presenta caratteri e problemi propri, che non possono essere esaminati in questa sede[99].
Le sorti del regime oligarchico a Genova si giocarono nel corso del Cinquecento, entro il fatidico ‘76. Nei decenni seguenti quel regime diventò abitudine consolidata, dimostrando solidità, coerenza e capacità di controllo delle tensioni interne e di resistenza alle pressioni esterne assai maggiori di quanto avversari esterni e critici interni non volessero ammettere. In realtà conosciamo, attraverso la ricca pubblicistica politica, soprattutto le voci critiche presenti nel patriziato, mentre il governo non si curò di alimentare una pubblica storiografia encomiastica, capace di propagare e affermare presso l’opinione pubblica colta un canone interpretativo positivo della storia cittadina: anche in questo caso, in significativo contrasto con il modello veneziano. Attraverso la pubblicistica politica conosciamo di conseguenza, per la penna degli oligarchi stessi, tutte le crepe dell’edificio oligarchico. Ma erano crepe, possiamo riconoscerlo, che segnalavano non l’imminenza del crollo, ma l’avvenuto assestamento.
E’ utile comprenderlo, per non restare prigionieri di polemiche storiografiche sorpassate e di luoghi comuni datati, e per guardare con occhio più avvertito e con interesse critico più affinato quello che a Genova fu il tempo degli oligarchi.
Città, Repubblica e Nobiltà
nella cultura politica genovese fra cinque e seicento[100]
- Unione e libertà
Le Leggi nuove, o leggi di Casale, che nel 1576 fissarono la definitiva ‘costituzione’ politica della Genova moderna, giustificavano il riconoscimento della mercatura come arte nobile e lecita ai patrizi genovesi richiamando il detto corrente Genuensis ergo mercator. Che il mercante fosse la figura sociale caratterizzante la città e, prima di tutto, il suo ceto di governo si avviava però ad essere piuttosto un’immagine normativa e un auspicio che non una constatazione. Mezzo secolo più tardi, infatti, Andrea Spinola precisò:
Noi altri Genovesi di prima origine ebbimo il corso per mare; successe poi il traffico nelle più remote parti del mondo. Da tempo in qua siamo applicati alla pecuniaria. Del corso non convien più ragionare. La mercatura in gran parte è perduta e ce ne deve dispiacer assai, perché in effetto è il miglior modo di qualsivogli altro per mantenere la libertà publica, il viver civile e le cose private.
Mercatura e libertà, dunque: un abbinamento ribadito proprio quando l’identificazione tra genovese e mercante appariva sorpassata dalla divaricazione intervenuta tra realtà sociale e modello culturale. La Genova cinquecentesca e primoseicentesca aveva compiuto il percorso da città di mercanti a piazza di finanzieri. La cultura politica genovese aveva ampiamente discusso i problemi che questo processo comportava: e sia pure, spesso, dall’angolatura del dibattito sulla nobiltà. Affidata a testimonianze per lo più manoscritte, questa discussione non ebbe però né sul momento influenza al di fuori della città, né in seguito molta notorietà. Ma il fatto che la riflessione politica genovese abbia raramente trovato l’accesso alle stampe non le ha impedito di costituire un importante tassello della cultura cittadina dell’età moderna. Piuttosto, l’abbondanza del materiale impone una selezione per forza di cose limitata di personaggi e di testi.
Lo sbarco a Genova di Andrea Doria e l’acclamazione della libertà genovese da parte dei notabili presenti in città, nel settembre 1528, produssero un nuovo assetto politico: le Leggi del Ventotto, come vennero dette, che sostituivano le “regulae” quattrocentesche. Le immagini di Andrea Doria come liberatore, e della “unione” come evento improvviso e quasi miracoloso, alla lunga entrarono a far parte della ricostruzione del passato cittadino che il patriziato genovese mise a punto nel corso dell’età moderna. Ma questa ricostruzione, dalle origini partigiane, si impose a fatica e non prima che i problemi politici dell’età doriana venissero acquietati dal nuovo assetto istituzionale del 1576. Solo col tempo, dunque, il 1528 giunse a rappresentare per la cultura politica genovese non un momento di decisione travagliata e controversa, ma uno spartiacque della storia genovese. Perché questo avvenisse occorreva contrapporre nel modo più netto “unione” e “libertà” riconquistate nel 1528 alle vicende tramandate dall’annalistica medievale: e non tanto al lontano e sempre rimpianto passato comunale, glorioso per l’espansione marinara; quanto piuttosto ai quasi due secoli del dogato popolare, svalutati a lunga e confusa età dei torbidi.
Ai contemporanei però la neonata Repubblica appariva una costruzione assai più casuale e dalla genesi più complessa di quanto l’apologetica ufficiale non pretendesse. Del resto, l’assetto politico della città venne sensibilmente modificato nel giro di una generazione con la riforma detta del “garibetto” (1547), contraccolpo della fallita congiura di Gian Luigi Fieschi. E proprio il carattere del ceto dirigente cittadino e gli equilibri di governo tra le sue fazioni interne nobile e popolare (o, come si erano ribattezzate dagli anni ‘40 in poi, della nobiltà ‘vecchia’ e della nobiltà ‘nuova’) era al centro di un dibattito che metteva in causa il presente della città attraverso il passato.
- Apologia e pedagogia: Ludovico Spinola
La riforma del 1528 non ebbe un vero e proprio manifesto ideologico. E singolare sarebbe stato il modello culturale dei riformatori, a sentire uno spettatore e (misconosciuto) storico degli eventi, il nobile Giovanni Salvago:
detta forma di govverno del senato, la fu inventata da Don Gregorio da Modena, monacho de la religione de Santo Benedeto, conforme al govverno de la loro religione, cioè de uno presidente et otto definitori, li quali hanno cura de govvernarla e si cambiano, et lui hebbe cura de reformarle et metterle in lingua latina.
L’atmosfera della “unione” pervade però il trattatello latino del giovane umanista patrizio Ludovico Spinola De reipublicae institutione, steso all’indomani della riforma, dedicato ad Andrea Doria e rivolto ad un consesso di patrizi, forse il Gran Consiglio. Nello scritto l’autore, appartenente agli ambienti intellettuali cittadini caratterizzabili come ‘erasmiani’ e in seguito in contatto epistolare con lo stesso Erasmo, salutava e magnificava l’avvento del nuovo regime, realizzatosi repentinamente per aiuto divino.
Nonne urbem nostram tot secula bellis intestinis laborantem una diecula non solum liberavit, sed etiam in libertatem summa cum gloria omnium nostrorum vindicavit?
Il modulo retorico richiesto dall’occasione esimeva dall’entrare nei dettagli: ascritto alla provvidenza, il ritorno alla libertà appariva svincolato dai giochi della politica cittadina, nei quali i negoziatori e i legislatori del 1528 erano pur stati immersi sino al collo. Stato di ottimati, Genova godeva ormai del migliore dei regimi possibili e poteva attendersi un radioso avvenire. A una condizione: la conservazione della libertà presupponeva un’adeguata educazione delle nuove generazioni e la trasmissione dell’ideale di concordia civile:
quippe cum nullam maiorem patriae iniuriam inferre possint, quam illi filios pravis moribus procreare. Nec satis est parentes ipsos Rempublicam bene administrare, nisi etiam omni diligentia adhibita efficiant, ne sibi succedant ii, qui quod ipsi tanta videlicet cura diligentiaque auxerint ac conservaverint, id statim nulla eruditione a pueritia imbuti disturbent ac funditus evertant.
C’era dunque un fondo di inquietudine e di cautela nell’elogio della riconquistata libertà: una libertà da vigilare con le armi e da nutrire con la beneficenza dei privati. Ludovico Spinola rappresenta, secondo la sua più recente studiosa, “un singolare caso di umanesimo municipale in ritardo”; il suo scritto è il frutto di “una diramazione genovese dell’umanesimo civile”. Il ritardo culturale di Spinola sarebbe in tono con l’arcaismo talvolta attribuito alle forme della politica genovese fra Quattro e Cinquecento. E quello di arcaismo appare un concetto accettabile in quanto descriva la discronia tra le vicende politiche genovesi e quelle di altri stati cittadini; meno accettabile, invece, se impiegato per giudicare negativamente l’esperienza politica genovese, misurandola su modelli astrattamente ritenuti più moderni e migliori: il principato come via maestra allo stato moderno, Venezia come esempio di buon governo repubblicano. L’interesse dell’esperienza cittadina genovese sta proprio nel non aver imboccato né la via del principato né quella della chiusura oligarchica alla veneziana, ma di aver percorso, discutendone per oltre un secolo, un cammino originale. L’opera di Ludovico Spinola appare perciò anomala rispetto al clima e alle preoccupazioni del ceto di governo genovese appena ricompattato: per un verso, anticipatrice dell’immagine ufficiale, filodoriana e unanimistica, affermatasi in seguito; ma per un altro verso assolutamente e volutamente disinteressata agli aspetti operativi della nuova forma di governo. Del personaggio e dell’ambiente erasmiano genovese, al quale anche Jacopo Bonfadio dovette essere legato, non sappiamo in realtà molto. Si può però segnalare un dettaglio biografico sinora sfuggito: dallo stesso ramo degli Spinola al quale apparteneva Ludovico uscì due generazioni dopo Andrea, il maggior scrittore politico genovese del primo Seicento. Un lignaggio e una casata di grande rilievo, che proprio dopo l’unione conobbe uno spettacolare successo politico (vi appartenne il famoso marchese Ambrogio Spinola; ma già due fratelli di Ludovico, Ambrogio e Paolo, furono oligarchi di spicco, e il secondo anche un benefattore del pubblico). La preoccupazione pedagogica di Ludovico riemerse fortissima nell’opera del pronipote (il quale tuttavia ricordò la beneficenza del prozio Paolo, ma non l’opera dell’altro prozio Ludovico), diretta ai rampolli del patriziato, ma con un’intonazione francamente politica e polemica. Ludovico Spinola manifestava invece, forse anche per i vincoli imposti dall’occasione, un’attitudine irenica che velava i termini reali della discussione politica cittadina. Esso raccoglieva tuttavia uno stato d’animo effettivamente diffuso nella cittadinanza. Movimenti associativi giovanili e caritativo-religiosi (confraternite) all’insegna della “pace e concordia” avevano infatti annunciato e accompagnato la graduale affermazione, entro il ceto di governo cittadino, del programma dell’unione.
Non casualmente la nozione di “unione” si impose come l’idea-forza della politica genovese del primo Cinquecento. Che la discordia civile fosse la caratteristica peculiare della politica genovese era infatti un luogo comune, che nelle Istorie fiorentine di Niccolò Machiavelli trovò solo la testimonianza più celebre. Nel contrapporre la lodevole ed esemplare stabilità del Banco di San Giorgio alla riprovevole e dannosa instabilità della repubblica Machiavelli riecheggiava e sviluppava (contribuendo involontariamente a creare un fraintendimento sui reali termini della politica genovese) un sentire diffuso, rintracciabile anche in Philippe de Commynes, secondo il quale a Genova “la gente [era] propensa ai cambiamenti”. Un sentire condiviso anche a Genova: ad esempio dal patrizio storiografo Giovanni Salvago, disposto a dannare la memoria stessa delle discordie civili, delle quali, scriveva, “saria utilissima chosa, che non se ne fosseno mai ritrovate, ni se ne ritrovaseno scriture, ni meno fosseno a memoria di persone, non possandosene havere niuno bono documento”.
Ricompattandosi nel 1528 il ceto dirigente cittadino si era reso meno permeabile. La Repubblica di Genova adottò il singolare istituto dell’ascrizione annuale (sino a dieci famiglie, sette della città e tre delle riviere, potevano essere ogni anno cooptate nel patriziato), che non rinnegò mai. Ma un ceto in precedenza aperto si delimitava in un “libro d’oro” originariamente patteggiato nome per nome tra i maggiorenti delle fazioni.
- Un’immagine ufficiale: Jacopo Bonfadio
L’assetto del 1528 poteva in ogni caso apparire il lieto fine di una vicenda tormentata. Da lontano Francesco Guicciardini così riassunse il clima genovese post-1528: “i cittadini, quieti e intenti più alle mercatanzie che alla ambizione, ricordandosi massime de’travagli e delle suggezioni passate, avevano cagione di amare quella forma di governo”. Da vicino, sullo stesso tono, Jacopo Bonfadio, straniero ma annalista ufficiale della Repubblica, osservava che essa “tra le altre repubbliche risplendendo in questi tempi, in un pacifico e quieto stato onoratissima si riposa”.
Proprio nelle pagine del Bonfadio possiamo cercare l’immagine che il governo genovese intendeva diffondere di sé: non a caso, forse, grazie alla penna non di un intellettuale locale, ma di un letterato forestiero. Bonfadio, nell’elogio di Genova che apriva i suoi Annali (stesi in latino e tradotti nel 1586 da un altro forestiero calato a Genova e accolto nei circoli culturali della migliore nobiltà, Bartolomeo Paschetti: e dalla traduzione del Paschetti saranno tratte le citazioni), non mancava di sottoscrivere la tradizionale lode delle antiche imprese guerriere dei genovesi e della costante difesa della religione. Più singolare era il commento sulle vicende politiche della città.
Quanta prudenza poi e quanta virtù fosse in quelli [genovesi dei secoli passati] nel governar la Repubblica circa le cose di dentro, la grandezza loro chiaramente ce la dimostra; […] e con ogni diligenza rimirando ogni cosa, più ardentemente si accendevano al conservare con riputazione la libertà loro. Della quale hanno avuta sempre questa special cura, che, quantunque volte è paruto loro valersi dell’autorità e potenza di genti straniere, essi spontaneamente e con certe condizioni se li sono eletti, sicché potevano ritenerli piacendo loro, e non piacendo levarli, come il più delle volte avveniva. […] Ma quello che più rincrescer ci deve che nel governo della città i capi delle fazioni, l’uno o l’altro de’ quali per la qualità di que’ tempi facevano Duce, non al ben della patria ma solo alla privata potenza ed ambizione attendevano; e dove le parti de’ cittadini tra lor discrepanti insieme unire, o il consenso de’ buoni aiutare e colle buone arti della pace aumentar dovevano, essi, all’incontro, la rendevano più debole ed alienavano; e dove protettori della cittadinanza conveniva loro mostrarsi, come tiranni di vincerla e d’opprimerla con ogni studio procuravano. Nel qual tempo quella città la quale da’ maggiori di generosi consigli e fatti egregi munita, e famosa eziandio nelle ultime parti del mondo avevano ricevuta, è poi occorso veder più volte correre pericolo di rovinare, e tutta lacerata e guasta: essendo, per dispareri e per cupidità di regnare di coloro che ho detto, tutte le cose da discordie e sedizioni sottosopra rivolte. Laonde, spiacendo infinitamente a tutti i buoni i governi e varietà per l’addietro seguite, e dagl’imminenti pericoli de’ passati danni fatti accorti, e specialmente dalla crudele strage e percossa ch’ebbero pochi anni addietro [il sacco della città, nel 1522], che fino a quel tempo stava loro fissa negli occhi, tutti, con ogni studio, per la riputazione e salute universale procurarono di ridurre la Repubblica a miglior stato e disciplina.
Quello stato del quale l’annalista si accingeva a trattare. La rievocazione del Bonfadio, attentissima a non fare né nomi né date, oscillava tra l’esigenza celebrativa del passato e quella del presente. Di qui il lucido ridimensionamento delle sottomissioni a signori stranieri, ridotte ad opportunistici ingaggi di governanti; ma di qui anche la deplorazione delle lotte faziose e il richiamo al desiderio di pacificazione emerso tra i cittadini. Ineludibile, e significativo, il confronto con le gesta dei genovesi dei secoli passati, affrontato in apertura del libro secondo dell’opera:
Riducendoci noi a memoria quegli antichi, troveremo che per natura ed instituto loro solo ad onorate imprese ed alla gloria miravano. In casa, tra loro di bontà ed industria contendendo, delle mediocri loro fortune si valevano in guisa, che non erano loro stromenti d’avarizia o d’ambizione, ma sì bene d’aiuto a virtuose operazioni. […] Nulla di meno, che quelli molto maggior studio ponessero nelle cose di guerra, che consiglio nel governo della città e nel reggimento della Repubblica, affermar liberamente conviene. Conciossiaché, nell’eleggere quelli che maneggiavano la somma di tutte le cose, tenessero una varia e confusa maniera, dalla quale, nascendo poscia molte differenze e rivoluzioni, sovente le contese delle contrarie fazioni vituperosamente alteravano la Repubblica, siccome noi stessi di fresca memoria l’abbiamo veduta stranamente conquassata, quando dalle tempeste di varie sedizioni combattuta, a guisa di fluttuante nave, or a questo or a quel signore, come a duri scogli condotta, miseramente percoteva. però fu finalmente, per virtù de’ buoni nella riformata città stabilita la concordia, e con l’aiuto specialmente d’uno [Andrea Doria] cresciuta, in somma fondato il porto alla pace ed alla tranquillità. […] Ora non navigano con armate in Oriente, non acquistano titoli né giurisdizione presso straniere nazioni, lo confesso; […]la materia oggidì manca di propagare la gloria della virtù militare, non mancando però nella città quello antico vigore, quella forza e grandezza d’animo che vi bisognerebbe per conquistarla. […] Ma questi tempi altra vita, altri costumi richiedano: non si tralascia la virtù militare per quello che torna conto alla Repubblica; però si attende più alle azioni civili e alle buone arti della pace, le quali indubitatamente si debbono anteporre agli studii della guerra, abbracciandosi questi per rispetto di quelli; vive il sommo e sincero culto della religione, vive il continuo e pronto esercizio della liberalità verso i poveri; l’ozio non vi ha luogo; la vigilanza, la fatica, l’industria occupano ogni cosa. Lo studio di aumentare il danaro è per certo grandissimo, però riguardando i monti, i dirupi e i sassi de’ Genovesi, che nulla producono, non è in tutto degno di riprensione, essendo necessario; considerando l’uso di quello in alcuni, eziandio degno è di molta lode. Ha prodotti questa città alcuni, i quali io soglio molto ammirare, di ricchezze e di facoltà agli altri di gran lunga superiori (che diresti esser Crassi o Luculli), nel vivere poscia e nel vestire agli altri eguali; la somma abbondanza ed estrema ricchezza de’ quali ai comodi degli uomini molto pronta mostrandosi, riesce a loro un illustre trionfo di virtù.
Il paragone degli antichi e dei moderni tornava, abbastanza prevedibilmente, a vantaggio dei secondi. Ma l’elogio retorico della loro virtù si traduceva nell’elogio della beneficenza privata, giustificazione delle ricchezze dei singoli, e della frugalità di costumi: i Crassi e i Luculli genovesi osservavano una virtuosa eguaglianza esteriore. L’elogio del presente ritornava come premessa della narrazione della congiura di Gian Luigi Fieschi.
Però, essendosi i Genovesi formata così fatta forma di repubblica […], parmi che rallegrarsi con essi loro somammente si debba; e perciò con orazione per avventura più lunga che il luogo non ricercava, sono trascorso a ragionar di questa materia, per ammonirli della felicità che godono al presente, o per congratularmi colla Repubblica, o finalmente per legar più strettamente gli animi di tutti alla concordia, e maggiormente accenderli a conservar la libertà. Né vi ha dubbio alcuno che questa città, coll’abbondanza di tutte le cose, non sia per mantenersi ogni dì più lieta e abbondante, e più sicura da ogni colpo di fortuna, se in questa ottima maniera di vivere continuerà unita e concorde.
Così il proemio al quarto libro degli Annali, contenente il racconto della congiura di Gian Luigi Fieschi. In realtà, per spiegare la strategia di alleanze del conte Bonfadio doveva introdurre gli elementi di dissidio all’interno del quadro armonioso che aveva appena schizzato: la divisione tra ex nobili ed ex popolari; il malcontento dei tessitori. Dei fatti della notte dei Fieschi Bonfadio, testimone oculare in mezzo agli oligarchi rinserrati in Palazzo Ducale, forniva un racconto colorito e tutt’altro che trionfalistico per il governo. In compenso, nascondeva la riforma del ‘garibetto’ dietro un semplice, pudico rinvio alla legge. Salvo rievocare con un misto di ammirazione e riprovazione il tumulto antispagnolo del dicembre 1548. Storiografo per sua stessa ammissione svogliato, ma osservatore acuto, di quella che definì una repubblica “per dir così infante”, Bonfadio fu annalista in definitiva meno ufficiale di quanto forse non volesse il governo. E colpisce il contrasto tra l’inflessibilità mostrata nei suoi confronti, e la tranquilla diffusione della sua opera.
- Il manifesto politico di Oberto Foglietta
La stretta oligarchica sulla politica cittadina attuata dopo la congiura dei Fieschi fu accidentalmente seguita dalla disastrosa guerra di Corsica (1553-1559). La Repubblica, quasi disarmata (le principali forze navali genovesi erano le galee di Andrea Doria e degli altri privati, quasi tutti nobili ‘vecchi’, al servizio di Carlo V e poi di Filippo II) dipendeva dall’aiuto spagnolo per riacquistare il controllo di quei mari che erano suoi da secoli. L’affermarsi dell’oligarchia all’interno sembrava coincidere con il nadir delle fortune militari genovesi.
Si comprende perciò che proprio nel 1559 uscisse a Roma, dai tipi di Antonio Blado, il dialogo Della Republica di Genova, di Monsignor Oberto Foglietta, un genovese espatriato, rampollo di una dinastia di notai e cancellieri. L’assenza nel testo di ogni riferimento alla pace di Cateau Cambrésis (2-3 aprile 1559), grazie alla quale Genova recuperò la Corsica, consiglia di datarlo, al più tardi, alla seconda metà del 1558: il dialogo ben si colloca nell’atmosfera di incertezza che poteva regnare a Genova prima della pacificazione generale, con mezza isola in mani francesi (anticipare il testo al 1556 sulla scorta dell’osservazione che Andrea Doria aveva “nonanta anni” sarebbe azzardato, la precisione anagrafica non essendo propria dell’epoca.). Opera giovanile, è stata definita dal miglior conoscitore del Foglietta. E certo non occupa il posto d’onore nel complesso della produzione fogliettiana. Ma rispetto al dibattito sulla politica genovese questo dialogo, il solo testo politico genovese in quasi un secolo nato per la stampa e attraverso la stampa immediatamente diffuso, riveste un’importanza centrale, che ne giustifica un’analisi distesa.
Scenario del dialogo non è Genova, ma Anversa, dove uno dei due intelocutori, Ansaldo, si sarebbe trasferito assai giovane “a negotiare”. Non Siviglia, o un’altra città iberica, la nuova frontiera degli affari genovesi, ma l’Anversa della colonia mercantile genovese di insediamento medievale. Una scelta, a ben guardare, non solo singolarmente contro tempo, ma scopertamente polemica, visto che Ansaldo afferma di aver rinunciato, “per alcuni rispetti”, a stabilirsi nuovamente in Spagna.
Lo spunto del dialogo è la delusione per l’andamento della guerra di Corsica. Ma lo scacco della Repubblica in un’area strategicamente vitale come l’isola serve da pretesto per un discorso sulla politica genovese in generale. Pungente la riflessione sulle sorti della Repubblica posta in bocca ad Ansaldo:
Et pare che li pianeti et la fortuna da molti secoli in qua habbia preso a perseguitare quella povera nostra Patria, la quale essendo stata per tanti anni adietro vessata et agitata da molte discordie et partialità, le quali furono cagione, che oltre altri infiniti danni et travagli et ruine ella perdesse il dominio di tante terre acquistate in Levante dalla virtù et fatiche de’ nostri maggiori, et insieme col dominio la riputatione anchora del nome et l’honore appresso, hora che pareva ragionevole, che mediante questo stato di unione et di libertà ella dovesse un poco respirare, et riacquistare le cose et la gloria perduta, non solo non possa fare questo, ma faccia anchora maggiori et più importanti perdite in questo tempo tranquillo, che nei passati tempi turbulenti non ha fatto. Percioché il Dominio delle terre di Levante era più presto cosa gloriosa, et honorevole, che gran fatto utile. Con la perdita della Corsica è congiunta non solamente la perdita dell’honore, et della reputatione, che poco però non importa, ma un gran danno et ruina dell’essere et stato nostro. Grande inimicitia certamente et ostinata persecutione è quella della Fortuna contra di noi.
Ovviamente, Foglietta non pensa neppure per un momento che responsabile delle disgrazie di Genova (enfaticamente dilatate nel tempo: se duravano da “molti secoli”, quando mai la Repubblica aveva conosciuto la gloria che rimpiangeva? E davvero le conquiste in Oriente erano state gloriose e non utili?) sia la Fortuna. Sotto accusa sono piuttosto i risultati del nuovo assetto di governo genovese, apparentemente peggiori di quelli dei tempi più turbolenti. L’autore ha del resto anticipato sin dalla prima pagina dell’opera i suoi bersagli polemici: sono i cittadini “li quali parte per ottenere una eminente autorità et potentia, parte per mantenere le immoderate ricchezze con modi forse poco lodevoli in gran parte acquistate, sottopongono alle private cupidità il rispetto della Patria”. Le loro pretese di supremazia politica sostanziate da una superiorità di fortune moralmente sospetta sacrificano agli interessi privati la pubblica concordia promessa dall’unione del 1528. Tutto questo sembra destinare Genova “ad una ruina e forse Tirannide perpetua, o a qualche altro dispiacevole et odioso fine”: che non può esser altro che la perdita della libertà. I responsabili hanno presto un nome: sono i nobili ‘vecchi’, che dopo la congiura dei Fieschi (1547) hanno manomesso attraverso la legge del “garibetto” l’eguaglianza tra i membri del ceto di governo cittadino stabilita nel 1528. Il dialogo si presenta perciò a chiarissime lettere come un manifesto politico, rivolto contro chi è imputato di avere una parte preponderante nel governo, e intreccia il tema del patriottismo (la difesa della Corsica) a quello delle riforma politica.
Come spiegazione delle disgrazie di Genova la “ambitione et cupidità di pochi grandi et potenti” è stata anticipata nella premessa al dialogo. In aggiunta Foglietta avanza un’altra causa: “le nostre discordie, et la non buona intelligentia, et biasmevole emulatione, che è fra Noi, la quale nutrisce la importunità de i potenti predetta”. Le due spiegazioni in realtà si completano: le ambizioni individuali pesano in quanto il ceto dirigente cittadino non è unito. Il cuore del problema è infatti la persistenza della “diversità del nome di Nobile et Popolare”: una “peste” non rimossa dalle Leggi del 1528, quando venne “stabilita la unione trattata molti anni adietro et fu tolta via la distintione di ogni colore, et fu tutta la Città riddotta ad un corpo”. Qui si annuncia un veleno: se l’unione del 1528 era stata “trattata molti anni adietro”, del suo merito veniva implicitamente spogliato il liberatore Andrea Doria. La sopravvivenza dello spirito di divisione è imputata esclusivamente ai “domandati nobili”, contrapposti ai “cittadini popolari”, le due parti delle quali Ansaldo e Princivalle si fanno rispettivamente portavoci. L’atto d’accusa di Princivalle nei confronti dei Nobili è tagliente. Essi sono i maggiori responsabili della “disunione” (disvalore sommo, nel discorso politico genovese dopo il 1528, in quanto negazione dell’ unione fondativa della Repubblica) perché
vogliono a dirla in poche parole, che fra loro et gli altri Cittadini sia distintione, et che ella vi si conosca, et mostrano apertamente, che in Genova sono dui corpi o vero due parti della Republica, et che essi sono la principale, et si arrogano ogni superiorità et autorità in tutte le cose, sprezzando ad un certo modo gli altri, et tenendoli da meno di sé. Finalmente non vogliono in alcun modo l’uguaglianza.
La necessità aristotelica di una graduazione di ranghi (“Non sapete voi che in una Città libera deveno essere grandi, mezzani, et infimi?”) addotta da Ansaldo a giustificazione dei nobili non risponde al reale obiettivo della parte, che è la costituzione in ordine separato, l’affermazione di una supremazia di rango e di sangue. “Superiorità et inferiorità la deveno fare le circustantie”, è la replica di Princivalle/Foglietta: che anticipa così la piattaforma della fazione ‘nuova’ nel quindicennio seguente. Al corrente del dibattito sulle caratteristiche della nobiltà, Foglietta considera ovvio il contrasto tra “nobili” e “huomini nuovi”. Ma proprio questa distinzione egli nega che sia mai esistita a Genova. Il suo colpo d’ala sta proprio nell’interpretare le vicende faziose genovesi con un criterio radicalmente nominalistico. A Genova
è sempre stato usanza, che ogni Cittadino, il quale veniva alla aministratione della Republica, si mettessi qual di dui questi nomi più li era a grado, et si facessi di qual di dui questi colori egli voleva. Onde quelli di loro, i quali si chiamano Populari, non sono distinti da coloro, li quali Nobili si domandano né per novità et antichità, la quale per la maggior parte è pari nell’uno e nell’altro colore, né perché siano maggiori li meriti de gli antepassati de i Nobili verso la Republica di Genova, che i meriti de gli antepassati de’ Populari.
Negli annali Foglietta trova la smentita alle pretese di superiorità dei nobili; e negli annali legge in maniera fortemente angolata la storia politica della Genova medievale. All’epoca di Caffaro e del comune consolare, i cittadini “senza alcuna differentia di colori o di sette, et senza distintione o nominatione di Nobili o non Nobili tutti parimente erano ammessi al governo della Republica con nome di Consoli, dico quelli Cittadini, li quali per facoltà et altre circostantie erano degni di venire a quel luogo”. Nella città “liberissima” (anticipo della polemica contro i successivi assoggettamenti a signori forestieri) esisteva un’originaria indistinzione di rango. Lo stesso vocabolo di nobile daterebbe dall’avvento del comune podestarile e dall’affiancamento al podestà forestiero di otto cittadini, avrebbe un timbro esotico (“il Podestà come forastiero et nobile parlando secondo l’usanza di Lombardia, onde per il più venivano li Podestà”) e un’origine di convenienza. L’“ottimo e santo governo” dei podestà era perciò caratterizzato dalla assoluta permeabilità della nozione di nobile. Un comune meritocratico, un’élite aperta, una nobiltà di funzione: questa, per Foglietta, la Genova ante 1270, dove persino l’incertezza, quando non l’assenza, dei cognomi confermava l’apertura del ceto dirigente ai meritevoli, per quanto “fossero persone basse et oscure”.
Quando e come si era passati dal “laudabile costume” di considerare nobiltà la semplice amministrazione della città alle divisioni? Foglietta individua il punto di svolta nell’avvento (1270) delle diarchie di capitani del popolo alle quali non dà neppure merito dei successi militari dell’epoca: Meloria e Curzola appartengono dopotutto a questi anni di “grandissima corrottione et confusione”, che al polemista cinquecentesco interessano soltanto per gli aspetti interni. Il tramonto della “prisca santità di costumi” politici risale alla “ambitione di alcune Casate”, che aveva resa odiosa la qualifica di nobile, tanto che
si cominciarono a cercare Governi di altre denominationi, et questo nome Popolare cominciò ad essere amabile come freno di quella odiata Nobiltà, in modo, che i Cittadini, li quali di mano in mano sorgevano al governo si contentavano del nome di Cittadino et di Popolare, cioè seguitante il bene et l’utile comune del Popolo et inimico della causa Nobile.
Nel Foglietta i tempi del dogato popolare non hanno alcuna connotazione negativa. L’esclusione dei nobili dal dogato, e la loro riduzione ad una quota parte del governo (provvedimenti punitivi, si sottintende, meritatissimi) giustificano il fatto che le casate ascese al governo in quel periodo vengano tutte definite popolari. Non solo
coloro, li quali in quelli tempi venivano la prima volta alla amministratione della Republica, volevano essere Popolari domandati, ma etiandio molti de i domandati Nobili, et antichissimi Nobili già per tali nominati nel primo buon Governo si spogliavano quel nome di Nobile a nessuna cosa utile, anzi per le cagioni dette dannosissimo et odioso, et si vestirono del nome Popolare utile all’honore et alla grandezza, et all’hora amabile.
Convenzionale, l’adesione alla parte popolare era assolutamente utilitaria, tanto da provocare delle defezioni nello stesso schieramento nobile. La denominazione di popolare era perciò “segno di elettione et di fattione, et non di ignobiltà”. La struttura stessa dei clan gentilizi (“alberghi”), dove si mescolavano case illustri e case nuove, giustificava l’irrisione della pretesa purezza di sangue dei nobili: “[Princivalle] Non sappiamo noi et ne conosciamo non picolo numero, li quali non accade nominare, li quali sono libertini, figliuoli essi o nepoti di schiavi stati di huomini di quello Albergho, li quali fatti franchi da patroni ritennero sempre il nome della casata del patrone?”
Coerente alla posizione antinobiliare è l’elogio di Simone Boccanegra, liberatore anch’egli di Genova, ma dalla “tirannide” dei Doria e degli Spinola in grazia della sua “virtù […] grandezza d’animo[…] prudentia”. L’avvento del dogato popolare appare un ritorno a “quelli primi felici tempi de i Consoli”: un generoso proposito frustrato dalle ambizioni delle quattro grandi casate nobili (Doria, Spinola Fieschi, Grimaldi) e delle altre loro aderenti: da allora datava la “differentia” tra nobili e popolari, “cioè seguitanti la causa del Popolo et comune”. Questo porta Foglietta a liberare in una certa misura Adorno e Fregoso dalla damnatio memoriae gettata su di loro dai riformatori del 1528. Fomentatori di discordia dall’opposizione come lo erano stati al potere, i nobili delle quattro case assolvono nella ricostruzione storica di Foglietta il ruolo di veri e propri vilains de la pièce, autori e profittatori dello smembramento del dominio genovese. Le loro colpe diminuiscono quelle dei capiparte Adorno e Fregoso “sorti a’ tempi, che la Republica era già corrotta, et che gli animi de’ Cittadini erano già tutti inclinati alle partialità, et perciò non si possono chiamare guastatori del buono et Politico vivere, né autori della corrottione”.
Solo oltre la metà del dialogo è introdotto il nodo della riforma del 1528. L’abolizione dei cognomi originari, e la confluenza di tutte le famiglie del ceto dirigente nei 28 alberghi della riforma era stato tuttavia un provvedimento superfluo e doloroso. Lo avevano dettato in ogni caso considerazioni pratiche: i cognomi degli alberghi non segnalano alcuna superiorità di rango delle casate titolari, ma la semplice superiorità numerica, le case più numerose. Dopo aver rilevato la lealtà dei popolari al nuovo assetto e la doppiezza dei nobili, Foglietta introduce un confronto con Venezia, dove pure erano state ammesse al patriziato casate popolari. Il confronto è importante per due versi.
Venetiani dando la Gentilitia a Popolari, li fecero con quel dono partecipi del governo della Republica, del quale erano per l’adietro in tutto e per tutto privi; et vivevano in Venetia non come Cittadini di quella Città, ma quasi come vassalli, come si vede che hora sono in Venetia quelli Cittadini, i quali sono Popolari. […] Al contrario si deve dire di Genova nell’unione del 28 quando dei Cittadini si fece tutto un corpo, et quello si battezzò Nobile. Nel quale atto tanto è lontano che i domandati Nobili donassero cosa alcuna a Popolari, che anzi i Popolari fecero infinito dono a Nobili […]. Né li Popolari furono chiamati alla amministratione della Republica, percioché da che vi è memoria de Genovesi sempre la hebbero. Anzi il governo Popolare è in Genova il più antico, et come di sopra si è detto dopo che dal tempo del Boccanegra in qua cominciò la differentia di questi dui colori sempre li Popolari hanno havuta l’amministratione della Republica dalla quale li chiamati Nobili sono stati molte volte esclusi, et per gratia de Popolari (come si è detto) anche ammessi. […] Talché in quella Riformatione i Popolari non acquistarono niente, et a i Nobili fu fatto dono del supremo Magistrato, per comunicatione del quale in Roma già furono tante contese et tante baruffe.
L’elogio di Venezia e del suo ceto di governo è già un topico, che Foglietta riprende. Ma il parallelo addita soprattutto la radicale differenza tra la storia politica veneziana e quella genovese. Venezia ha un regime originariamente oligarchico e una nobiltà immemoriale. Genova è invece una repubblica originariamente popolare. E la convenzionalità, la natura pattizia ed empirica dell’assetto politico era stata espressa proprio nel 1528 dall’incertezza nella scelta del nome da attribuire alla classe dirigente della città.
La cosa non è tanto vecchia che in Genova infiniti non si ricordino, che quando fu fatto della Civilità tutto uno corpo, et s’instituì l’unione, fu dubitato che nome si doveva porre a i Cittadini di questo corpo, et se ne proposero molti, come ottimati, huomini di Consiglio, Nobili, et altri nomi, et questo di Nobile fu più comunemente ricevuto, facendo di ciò (come io vi ho detto) grande instantia li Nobili et cuoprendo la loro intentione con questo colore di ragione, ch egli ci darebbe più riputatione appresso de’ forastieri.
Nel 1528, insomma, i governanti genovesi erano “tutti nati Nobili in un giorno”. E precedenza ed antichità nel governo, a Genova, stavano dalla parte degli ex popolari. La pretesa dei ‘Vecchi’ stava di avere la parità nelle cariche di governo pur essendo meno numerosi era un abuso consentito dalla “fattiosa et scelerata legge” del Garibetto. Foglietta ritiene ingiusta e inutile l’offensiva politica attuata dai ‘Vecchi’. Questi non ne traggono né utile “acquistandosi in Genova le ricchezze con l’industria mercantile”, né supremazia (“percioché essi non possono mai designare di doventare soli Signori, et Governatori di Genova”). La loro chiusura difensiva, alimentando il gioco delle appartenenze di colore, cioè di fazione, è addirittura autolesionista: perché (insinua conciliante Foglietta)
io Popolare eleggo più presto il Popolare di minore valore, che il Nobile valorosissimo, per essere il Popolare del mio corpo, et ritenendo io nell’animo una certa amaritudine contra il colore domandato de’ Nobili, il quale mi vuole essere superiore, la quale me li fa abhorrire. Ma come tolta questa distintione eleggendo all’hora colui, il quale hora per Nobile da’ Popolari si distingue, mi parerà eleggere uno de’ miei, chi dubita, che io non debbia sempre preporre la maggiore virtù alla minore? Et essendo poi fra loro al presente più huomini di valore, che non ne sono ne colore domandato Popolare, non sì presto si sarano senza fuco o fallacia tutti una cosa medesima, che subito haranno tutta la amministratione della Republica in mano.
Un comportamento politico così irragionevole non può essere ascritto che a “vanità et […] superbia”, al “lusinghevole lenocinio, che ha in sé il vocabulo” di nobile.
I ‘Vecchi’ favoriscono inoltre la debolezza militare della Repubblica, a vantaggio della potenza privata: “non pur patiscono ma procacciano et difendono che in una Città libera siano Cittadini potentissimi, et di eccessive forze, et la Republica sia debole et disarmata”. La stoccata ad Andrea Doria e agli altri asientistas de galeras non potrebbe essere più chiara. L’ascendente doriano e ‘vecchio’ presuppone una repubblica inerme. Di rito le proteste di non voler intaccare minimamente i meriti del Principe Doria, ma evidente l’intenzione di non attribuirgli meriti inesistenti. Reale invece il pericolo dell’assoggettamento di Genova a principi stranieri. Foglietta non accetta di distinguere il “poco di emulatione” dei suoi giorni dalle “arrab- biate discordie” del passato. La prudenza fogliettiana invita a fermare il dissidio all’origine, e si fonda su una realistica presa d’atto del mutamento nei rapporti di forza internazionali rispetto all’età dei ‘cappellazzi’:
erano all’hora certe qualità di tempi, nelli quali era in facoltà de’ Cittadini medesimi agevolmente mandarli via ogni volta che volevano, come sempre che quelli Governi sono loro rincresciuti hanno fatto. Ma hora ciascuno vede che le cose sono talmente cambiate, che non potendosi venire se non in mano di Principi potentissimi, considerando colui, il quale vi entrasse, di quanta opportunità fosse Genova a’ suoi dissegni, et come ella è solita a fastadire [sic] et cambiare spesso li Governi forastieri, se ne assicurerebbe in modo, che non potriamo scherzare et ci ridurrebbe et con fortezze et con altri infiniti presidij in uno stato et servitù, la quale Dio prohibisca da Noi.
La lezione del 1547, il ricordo della proposta di Ferrante Gonzaga di assicurare la città mediante la costruzione di una fortezza, brucia ancora. L’alternativa, del resto, pare il rischio di sottomissione ad un cittadino potente: principato straniero o principato indigeno, Foglietta lancia un allarme sulle sorti dell’indipendenza cittadina: “il fine dele discordie civili è la servitù o di gente forastiera, o pure de’ suoi proprij Cittadini, massimamente se quelli popoli lasciano sorgere fra loro uno Cittadino o una Casata di eminente stato et di straordinaria potentia”. Non certo il Principe Doria: ma non si esclude che il suo successore, o altri, possa indirizzarsi diversamente, anche a dispetto delle preferenze degli stessi consorti ‘vecchi’. La lezione delle cose e le letture concordano nel dettare a Foglietta una diffidenza radicale verso le aspirazioni signorili. La storia cittadina italiana, del resto, era un cimitero di libertà.
È cosa naturale et ordinaria, che non havendo gli animi humani nelle cose della ambitione et della grandezza modo né termine alcuno, quando tu dai ad uno sopra molti autorità et potentia granda, egli non possa contenersi dentro a termini che tu li prescrivi, ma inescato dalla dolcezza del comandare, della quale non è alcuna che tiri a sé con più dolce allettamento l’appetito humano, procede tanto oltre quanto quello acuto stimolo del Regnare lo spinge. La quale soavità del Regnare è tanta, et tanto secondo il gusto humano, per essere gli animi nostri di natura sublime et magnifica, che ella non ci lascia havere altra consideratione o di gratitudine o di religione, o di qual si voglia altra cosa, in modo che così è facile ad opprimere coloro, li quali furono principio et cagione di quella grandezza come gli altri. […] Et se questo fu sempre in ogni tempo et in ogni Popolo, et è ragionevole che così sia, non è già da dire, che Genova non sia sottoposta al medesimo pericolo, et per l’essempio, che ne ha di altre volte, et per essere Genovesi di natura caldissima, et di ingegni et complessioni vehementi et accesi, li quali nelle cose poco si sanno temperare. Anzi in Genova questo pericolo è tanto maggiore, quanto le altre famiglie, che di sopra habbiamo detto che si sono fatte padrone delle loro Patrie, sono state portate a questo grado della autorità et potentia solamente, che dava loro una parte de Cittadini. Ma in Genova coloro che hanno queste forze, et delli quali per la loro bontà non si può temere, ma bene de i loro posteri, li quali non si può indovinare che huomini habbiano ad essere, né essi li possano a loro posta creare buoni. Costoro dunque, oltre l’autorità la quale è loro data, saranno armati di così gagliarde loro forze private che quasi basteriano anchora con quelle senza questa autorità ad opprimere la Città, et haranno li appoggi et provisioni grossissime di Principi forastieri.
Pandolfo Petrucci nella pagina fogliettiana si presta ad esempio di principe nuovo asceso dal basso profittando dell’insipienza e delle discordie degli oligarchi. Ma l’allusione vera, ad uso interno, riguarda gli eredi politici dei grandi vecchi della Genova doriana: il successore di Andrea Doria, il figlio di Adamo Centurione. A questo punto Foglietta avanza la provocatoria proposta che Andrea Doria stesso distrugga la potenza privata della propria casata rinunciando alle galee, e comprandosi col ricavato un feudo nel regno di Napoli: disarmo ed autoesilio volontari sono i pegni che il polemista osa chiedere al più potente personaggio della scena genovese, lanciando un parallelo con l’azione di Ottaviano Fregoso, che aveva rinunciato a farsi signore di Genova ed aveva anzi demolito la fortezza che poteva dargli forza militare.
Il modello politico che Foglietta propone è classico: la repubblica romana, in virtù del suo meccanismo elettorale per centurie. Là il polemista scorge un accorto sistema politico censitario, che non mortificava formalmente nessuno, e nel contempo rispettava rigorosamente le gerarchie di fortuna. I Romani, infatti,
vedendo che in una vera libertà non era honesto privare alcuno Cittadino per basso et oscuro che egli fosse del suffragio et voto, né allo incontro era conveniente, che tanta autorità havesse uno basso et vile et di nessuno valore, quanto uno il quale per ingegno et facoltà risplendeva, trovarono questa via, la quale salvava l’una cosa e l’altra.
Ogni centuria agiva come un collegio uninominale: il voto della centuria era quello della sua maggioranza. Le centurie avevano però diversa consistenza numerica a seconda delle classi, ed ogni classe comprendeva un numero diverso, e decrescente, di centurie. La piramide elettorale era il rovescio di quella sociale:
In modo che rarissime volte o non mai si veniva al voto della infima classe de i Capitecensi […] et a quello non venendosi mai restava esclusa questa feccia della Città quasi in tutto dalla amministratione della republica, e ricompensavano questa dishonoranza con la essentione, la quale havevano da ogni gravezza, et dalla militia anchora, la quale in quelli tempi era una gravezza grandissima.
A rendere questo sistema tollerabile ai cittadini delle classi inferiori contribuiva l’equa ripartizione delle imposte, in misura proporzionale al rango. Il sistema romano, di imposte dirette progressive, figura dunque in positivo a confronto del sistema genovese, di imposte indirette distribuite egualmente su tutti, dunque maggiormente sui poveri: i romani
facevano del tutto esenti dalle gravezze li poveri; et Noi altri li quali pur siamo Christiani, più li graviamo con le gabelle sul vitto ugualmente da loro pagate, come da i ricchi, né è alcuno, che mosso da charità o da humano rispetto dica la ragione della misera gente.
Il confronto con i romani (rafforzato per la circostanza dall’esempio di Venezia) permette di a Foglietta di proporre addirittura l’attribuzione delle decisioni politiche a tutto il corpo della nobiltà convocato in assemblea generale, e non al solo Consiglio grande.
L’importante digressione sul modello romano repubblicano è però soltanto un intermezzo prima del ritorno alla questione cruciale della volontà o meno di Andrea Doria di accettare la sfida fogliettiana, e vendere la galee alla Repubblica. Il dubbio che egli lo faccia prepara la stoccata finale alle pretese benemerenze del Principe, che per Foglietta si limitano a “poche cose”. Il debito di riconoscenza dei genovesi per Andrea Doria è un mito, a ridimensionare il quale Foglietta dedica l’ultima parte del dialogo. È Ottaviano Fregoso ad assurgere a promotore della riunificazione del ceto dirigente cittadino: e sia pure in negativo, attraverso la rinuncia a mantenere la signoria della città, piuttosto che in positivo:
il primo il quale si svegliasse a dimostrare questo segno di amore alla Patria, di volerla mediante l’unione de’ Cittadini ridurre a migliore stato, et riformare il corrotto vivere passato, fu il Signore Ottaviano Fregoso, il quale all’hor teneva il Principato in Genova, indutto a ciò, et dalla sua naturale bontà, et dalli assidui conforti di Raffaello Ponsono Segretario del publico, il quale lasciato l’ufficio si era fatto sacerdote.
Il testimone del disinteresse nel patrocinare la concordia civile e la riforma politica era stato raccolto da Stefano Giustiniani, da Agostino Foglietta (il padre di Oberto), da Antoniotto Adorno: tutti e soltanto personaggi di parte popolare. Le circostanze, più di tutte la questione di Savona, avevano poi precipitato una riforma nella cui genesi il ruolo del Doria era stato accidentale:
alla deliberatione fu la benignità di Dio favorevole, fece cadere opportunissimamente che il Principe Doria oltre il publico rispetto fusse per private cagioni alienato da’ Francesi. Venne dunque a Genova il Principe Doria con le sue Gallee chiamato da Cittadini, li quali dopo molti lunghissimi tratti già havevano concluso l’unione, et con l’aiuto et favore di quello la Città scacciò Francesi, ruinò il Castelleto, et riprese dalle mani di Francesi Savona.
Semplice, e non disinteressato, esecutore il Doria, dunque, e niente più, ma non “autore né perfettore della unione, né della Riforma, né della estintione delle fattioni”. “Autore” della libertà: ma solo perché già esisteva la “unione”. “Che quanto ad entrare dentro con le sue Gallee, et ad aiutare la Città a scacciare Francesi, questo la Città etiandio senza lui bastava per se stessa a farlo, come molte volte già ha fatto”. Foglietta nega anche che Andrea Doria possa essere definito “autore di questo stato Riformato”. Infatti,
più presto si doverebbe chiamare mantenitore, et conservatore. Ma se così vi piace, facciamolo anche assertore, et orniamolo di questa laude. Ma avvertite, che essendo con questa libertà congiunta la sua grandezza, potrebbe alcuno calunniarlo, che la sua intentione non fusse stata né fosse questa libertà et questa riforma, ma la grandezza sua propria, et il fine suo fusse stato et fosse instituere et fondare in Genova essendosi spente le fattioni Adorna et Fregosa sotto questo colore di Republica libera una straordinaria potentia di casa sua.
Perciò al Doria deve essere chiesta una prova: “Dare le Gallee alla Patria che questa sola è la pruova, che egli preferisce alla grandezza della casa il ben publico, per il quale bene ha fatto tutto ciò che ha fatto”. Il dialogo precipita ad una conclusione frettolosa, improntata ad una manierata ostentazione di fiducia nella buona volontà del Principe Doria. E nella conclusione Foglietta condensa la sua proposta politica.
Risolviamoci pur Noi ad unirsi da dovero, et a stabilire uno stato quieto et glorioso, mantenendo sempre Cinquanta Gallee sforzate, le quali saranno la salute nostra, et quelle che ci faranno rispettare così da tutta la Italia come da tutti gli altri Principi, et senza altra spesa ci faranno restituire la Corsica, et ci assicureranno il traffico, il quale è la vita nostra, et daranno un continuo inviamento, et honesto essercito [sic] et intratenimento alla nostra gioventù, la quale hora per il più otiosa è sforzata a darsi a mille male arti.
Questa grande flotta di stato verrebbe posta al servizio dei principi italiani “dico di quelli che hanno li stati al mare inferiore”. A chi allude Foglietta? Al re di Spagna? Al pontefice? Probabilmente a quest’ultimo. Ma il senso della proposta non cambia se si sostituisce ad esso il re di Spagna. La flotta genovese starebbe alla politica spagnola come le truppe svizzere a quella francese. La neutralità nominale della Repubblica si sostanzierebbe dei profitti di un mercenariato navale volto a beneficio pubblico, anziché a quello privato degli asientistas de galeras. Questo mercenariato navale sarebbe perciò veicolo di libertà e indipendenza (come per gli svizzeri), invece che minaccia di soggezione. Senza dire che la pratica dell’armamento legherebbe Genova a un ruolo marinaro ed esalterebbe le figure sociali del mercante e dell’arma- tore, in declino di fronte alle ricchezze emergenti dei finanzieri, gente di parte ‘vecchia’ legata a filo doppio alla Spagna.
Impossibile sopravvalutare l’importanza del dialogo del Foglietta nel dibattito politico genovese del Cinquecento. Foglietta dava voce per primo allo scontento diffuso tra gli ex Popolari nei confronti della correzione oligarchica all’assetto del 1528 attuata col “garibetto”. Prendendo a rovescio l’immagine della Repubblica che stava proprio allora costituendosi, Foglietta ribaltava il giudizio sulle discordie civili; spogliava Andrea Doria dello stesso attributo ufficiale di liberatore; affermava il carattere popolare della tradizione repubblicana genovese; rilanciava il ruolo marinaro e mercantile della città; sosteneva un’attitudine di indipendenza orgogliosa e armata; proponeva un modello di organizzazione politica aperto e partecipatorio, dove l’accesso al potere fosse premio alla ricchezza prodotta dalla capacità individuale, senza pregiudizi di casta, ma dove anche il ceto di governo si accollasse l’onere della tassazione. Per la sua lettura del passato genovese come per il suo progetto di futuro Foglietta veniva a negare nel dialogo l’intera costruzione della Repubblica uscita dalla riforma. La stessa parola d’ordine del ritorno al Ventotto era poi contraddetta dalle riserve rivolte alle disposizioni delle Leggi. Le argomentazioni e i temi sollevati da Foglietta aprirono il campo a quasi un secolo di polemica politica filomercantile, navalista, antispagnola, anticambista, suntuaria: in altre parole, alla grande stagione della pubblicistica politica genovese. Repubblica armata, rafforzamento della flotta, indipendenza dalla Spagna, superamento delle divisioni interne, diffidenza per i personaggi eminenti legati al re Cattolico: tutte le sfaccettature dell’orientamento più tardi definito “repubblichista” erano già adombrate nel dialogo fogliettiano, che forse riecheggiava posizioni e spunti circolanti in città e passati senza lasciar traccia scritta. Il dialogo, è stato scritto, “potrebbe anche essere considerato l’ultima voce di libertà in un periodo in cui l’Italia si stava avvilendo”. Eppure, a Genova, di tutto ciò che venne avanzato da Foglietta si discusse e si scrisse ancora per decenni: anche se gran parte di quella riflessione restò manoscritta, col risultato di generare un’impressione di atonia politica dove c’era invece un’attenzione quasi ossessiva per il problema dell’operatività del governo e per la definizione delle caratteristiche del ceto che ne deteneva dal 1528 il monopolio.
- Politica ed economia nel “Sogno” in morte di Agostino Pinelli
Il manifesto fogliettiano uscì intempestivamente per più motivi. Andrea Doria morì di lì a poco; ma il successore ed erede Gian Andrea si trovò provvisto di una forza navale diminuita e osteggiato da alcuni degli stessi oligarchi ‘vecchi’. Inoltre, la Corsica fu restituita alla Repubblica proprio nel 1559; salvo esplodere di lì a pochi anni in una nuova ribellione (1564-1569), sia pure priva di sostegni esterni. La nuova emergenza bellica contribuì a ritardare l’attacco frontale all’assetto del 1547, anche se nel contempo attizzò il risentimento per il carico fiscale che imponeva soprattutto ai ceti più poveri. Ma nel 1566 l’assassinio del Procuratore Perpetuo Agostino Pinelli da parte del figlio dell’ex Doge Giambattista Lercari, un personaggio di parte ‘vecchia’ avversato, e messo da parte, per il suo protagonismo dagli oligarchi della sua stessa fazione, diede lo spunto per un nuovo dialogo, rimasto manoscritto, intitolato Sogno sopra la Republica di Genova veduto nella morte di Agostino Pinello ridotto in Dialogo. Interlocutori Stefano Giustiniano primo Institutor della Unione, e detto Agostino Pinello Procuratore in Vita. Il testo, opera forse di Bernardo Giustiniani Rebuffo (autore di almeno un altro libello di tono antispagnolo, ma personaggio tuttora pressocché sconosciuto), introduce nella pubblicistica genovese il genere lucianeo del dialogo dei morti. Sotto questo profilo fa da battistrada alla libellistica degli anni seguenti forse più che non il dialogo del Foglietta. Un anonimo, forse seicentesco, annotò sulla copia del dialogo conservata nell’Archivio Storico del Comune di Genova, dove il Sogno è seguito dai dialoghi di Caronte dei primi anni ‘70: “tutte insulse satire di quei tempi di partiti”. La sottovalutazione del dibattito politico cittadino cominciò presto.
Il dialogo appunta il malumore provocato dalla infelice conduzione della guerra di Corsica su alcuni aspetti del sistema di governo. Dal Foglietta è ripresa l’esaltazione di Stefano Giustiniani, interlocutore positivo del dialogo, espressamente introdotto come “primo institutor della unione”. Tuttavia l’autore del Sogno non ha la posizione sferzantemente antidoriana di Foglietta. Forse perché il vecchio principe è già morto e il suo erede appare meno pericoloso per la libertà cittadina di quanto non avesse temuto Foglietta. Ancora in comune con il Foglietta, ma con una sfumatura limitativa, è l’apprezzamento per Ottaviano Fregoso (“vera-mente ottimo principe fra tutti li tiranni stati alla città nostra”). Appare invece accentuata, rispetto al precedente fogliettiano, l’attenzione per la sorte della plebe, schiacciata dalla fiscalità indiretta. Il che introduce un elemento del tutto assente dal dialogo del monsignore: il giudizio sul ruolo di San Giorgio. Un giudizio, tra l’altro, fortemente critico, soprattutto perché l’ano-nimo prende di petto il luogo comune di una differenza di interessi e di collocazione tra San Giorgio e la Repubblica: nega, insomma, l’esistenza di una sorta di doppio stato (“Vedo ben chiaro, Ms Agostino, in che abuso sete et in quanto errore venite presuponendo che il danno di San Georgio non sia della Republica, et quello della Republica non è di San Georgio, come se la republica e San Georgio fossero due signorie separate, e che una senza l’altra potesse vivere da sé et mantenersi in grandezza et reputatione”), per additare invece il ruolo chiave di ristrettissimi gruppi di oligarchi di parte ‘vecchia’ asserragliati, in quanto ex dogi, nella funzione di Procuratore Perpetuo. L’insistita polemica contro i Procuratori Perpetui, dei quali aveva fatto parte l’interlocutore negativo del dialogo, Agostino Pinelli, di famiglia ‘vecchia’, forse era occasionata proprio dalla circostanza, ghiotta, di chiamare in causa la vittima del clamoroso attentato. Ma può darsi che altri episodi, dei quali non siamo a conoscenza, avessero portato alla ribalta della polemica di tutti i giorni proprio alcuni dei Procuratori Perpetui. L’anonimo attribuisce inoltre ai ‘vecchi’ un espediente elettorale che mezzo secolo dopo in un altro dialogo politico si troverà imputato ai ‘Nuovi’: di eleggere al dogato, quando la carica spetta all’altra fazione, i candidati più vecchi, nella speranza che la loro permanenza tra i Procuratori Perpetui sia breve, e di eleggere al contrario candidati giovani della propria parte. Forse viene generalizzata e interpretata maliziosamente, sia in questa circostanza sia in seguito, una occorrenza casuale. Questa attenzione ai meccanismi operativi delle istituzioni cittadine conferma però l’estrema concretezza della pubblicistica politica genovese: risvolto positivo del suo scarso, e non molto originale, respiro teorico. L’anonimo ha pur presenti, e cita, esempi alti: Machiavelli per l’esortazione a ripigliare lo stato, il cardinal Contarini per l’elogio di Venezia. Il principio machiavelliano serve a giustificare la proposta di tornare alla riforma ‘tradita’ del 1528:
Agostino: Che vole inferire ripigliar lo stato?
Stefano: Vol dire ripigliarsi alle prime leggi come già ho detto et abolire quelle nuove rifforme fatte in 47 con tanta violentia tanta foza tanta iniustitia causa d’ogni male.
L’esempio veneziano viene accettato in maniera un po’ convenzionale, come modello positivo: ma affermando subito la sua scarsa imitabilità sulle spiagge della Liguria per la differenza di “clima”
Agostino: A voler osservar i costumi e legge de Venetiani bisogneria che noi Genovesi fussimo situati in le tartare paludi sicome sono i venetiani, e sotto quella clima così stabile e fermo e non sotto questo volubile.
Si è detto che, a differenza di Foglietta, il Sogno fa l’elogio di Andrea Doria. Ma non per l’unione del 1528, messa all’attivo di Stefano Giustiniani; bensì per la resistenza opposta nel 1547 alla costruzione di una fortezza in città. In quel momento i peggiori nemici della libertà genovese erano stati altri oligarchi ‘vecchi’, chiamati in causa nominativamente, ma non il Principe: anzi, “se non era il buon Principe Doria actum erat della Republica e della libertà insieme”. L’apprezzamento, e questo suona più singolare, si estende a Gian Andrea Doria, “quale sosteneva la grandezza della Republica”, a differenza di Marco Centurione, figlio del grande banchiere Adamo Centurione, asientista de galeras anch’egli e uomo della Spagna, la cui morte recente, nel 1565, non ispira alcun compianto all’autore del Sogno. Questi giudizi discendevano forse da considerazioni contingenti: diversamente da Foglietta, il polemista non individuava nei Doria i più schietti interpreti degli interessi ‘vecchi’; al contrario, li distingueva dalla fazione alla quale pure appartenevano naturalmente. Il programma in positivo del Sogno era tutto sommato modesto: “a salvar la Republica non ci è altro rimedio che la intiera osservanza delle leggi, che le armi proprie, quali sono galee, et le amorevolezze fra’ cittadini”. L’autore insisteva sul tema dell’armamento: “Stefano: Il sostegno di tutto sono l’armi proprie alli Genovesi, l’armi proprie sono le Galee”. Il messaggio trascendeva l’occasione: la rivolta corsa non era certo reprimibile con la flotta: sul piano militare l’allestimento di una squadra di galee di stato poteva essere stato urgente quando scriveva Foglietta (ed era stato effettivamente promosso nel 1559), non nel momento in cui si discuteva come eliminare Sampiero di Bastelica, capo dei ribelli: una soluzione che il libellista caldeggiava (“Le republiche ben ordinate, et ben composte di ottimi cittadini, quando non puonno haver un loro seditioso cittadino, o subdito nelle mani, s’agiutano del suo migliore et per qualsivoglia via lo cercano di castigare in qualsivoglia modo per sostegno del publico et universal bene”), e che sarebbe stata raggiunta di lì a pochi mesi.
Nell’insieme, il modello repubblicano dell’autore del Sogno veniva tratteggiato per accenni marginali: la critica ai Procuratori Perpetui paragonati, del tutto impropriamente, ma con efficacia polemica, al Consiglio dei dieci veneziano; la sottolineatura del ruolo sovrano del Maggior Consiglio (“il Gran Consiglio de 400 eletti giusto le leggi et li santissimi ordini de i dodici è il vero Principe, e il Duca e Signori sono legitimi Procuratori di quel Consiglio”); infine, la rivendicazione della libertà di parola dei consiglieri, conculcata dai governanti anche attraverso provvedimenti di esilio nei confronti dei dissidenti, esempio recente Leonardo Sauli:
Agostino: Lo bandirno per essere uscito fuor della posta con sì poco rispetto et per opponersi sempre a tutte le dimande del Senato.
Stefano: Li consigli debeno esser liberi et ogni cittadino deve poter in quelli dire liberamente il suo parere e deve imparare dalli venetiani quali hanno per bene che sempre in quello li siano delli cittadini che contradichi l’uno a l’altro et spesso il figlio ha contradito alla sentenza del <padre>.
Oltre a questo, il libellista sottolineava fortemente quel che in Foglietta era soltanto accennato: la polemica contro il lusso, imputazione tipicamente rivolta ai ricchi di parte ‘vecchia’. Venezia, non si sa quanto plausibilmente, tornava qui come metro di paragone. Ma la polemica suntuaria si arricchiva di previsioni fosche sullo spopolamento della città e sul rimescolamento della popolazione provocato dall’immigrazione di forestieri: previsioni che mettono in piena luce il versante passatista di un po’ tutta la pubblicistica di opposizione. Bersagli del dialogo il lusso dei matrimoni, il livello eccessivo delle doti, l’uso di camerieri e paggi, il gioco, le vesti lussuose delle donne. Il tutto da combattere con forti gabelle suntuarie.
Stefano: […]altrimenti vi protesto, che non verrà l’anno del 600 che una gran parte delle famiglie che adesso regnano, saranno estinte, et la Republica resterà in gente nuova et li sarà sempre da vedere nuovi successi et nuovi imperij.
Agostino: È quasi impossibile questo, perché i ricchi non vogliono gabelle, se non sopra le vettovaglie.
Stefano: Se questo è impossibile, è impossibile conservar la libertà, perché i prudenti Venetiani da principio, quando formarono la loro quasi perpetua Republica che è quasi mille anni che ella si mantiene, cosa che sino a qui non si legge di alcuno altro Imperio al mondo, constituirono alli huomini un habito honorevole, e cittadinesco, et alle donne un altro, né quello si varia in modo alcuno, di maniera tale, che con quello moderanno il lusso cittadinesco, et il povero e patritio cittadino non ha da invidiar il più ricco e potente, perché comorando insieme le donne et gli huomini col paragone si conservano così tanto può le sostanze de grandi come de mezzani.
Agostino: La libertà è più possibile conservare senza le sostanze perché animo volenti nihil difficile.
Stefano: Questo non è cosa difficile ad uno che voglia da dovero, ma come si può conservare in uno che già sia stato ricco et si veda poi povero, mirate a Lucio Sergio Cattilina e compagni, e quanto più poco si conservò Roma in libertà poi di quel lusso così grande in che vivevano li Romani.
Agostino: I Venetiani non vivono con lusso più grande de noi altri.
Tutti gli argomenti e gli obiettivi della polemica sul lusso sarebbero ritornati nei decenni e nei secoli seguenti, con leggere varianti formali. In sé, dunque, un filone moralistico di ascendenze antiche e di grande avvenire, e a prima vista politicamente neutro. In realtà, mirato anch’esso, visto che obiettivi polemici erano quei ‘Vecchi’ che avevano abbandonato la mercatura per farsi feudatari di principi e segnatamente della Spagna.
Stefano: Ve lo dico et ve lo attesto, et vi soggiongo che tutti quelli vostri cittadini diventati di mercadanti principi duchi et marchesi sono i maggiori nemici che habbiate in Genova perché oltre che vi danno nemico il mondo tutto con haver accumulato oro et tanti stabili per conservarli sono quelli che hanno da vendere la Republica et voi altri et voi altri et alla fine ogni cosa resterà in ziffra.
L’autore del Sogno arrivava a chiedere l’eclusione dal governo degli interessati con il re di Spagna.
Stefano: Vi dico che sarebbe bene che […] l’interessati con il Re et Principi stranieri non governassero la Republica, dico quelli che li danno il suo e quello delli altri, perché non è ponto dubio che per conservare le proprie et private fortune li lascieranno andar il resto della vostra libertà: e questa legge è di quelle che con l’autorità de voi perpetui doveria esser rifformata et posta in osservanza.
Agostino: Volete troppo Ms Stefano: i principali di Genova sono quasi tutti a questa foggia interessati con Re Filippo.
La grana del repubblicanesimo espresso dall’autore del dialogo mancava forse di finezza retorica, ma non certo di chiarezza: come nella professione di fede repubblicana messa in bocca all’ex Procuratore Perpetuo Agostino Pinelli.
Agostino: Vi dico in prima che è meglio e senza dubio commandare che ubidire, e sentirsi et vedersi commandati da altri è troppo duro osso ad un cittadino libero; e meglio ancora esser cittadino di una republica libera che soggetto ad un re non che ad un prencipe tiranno: perché un cittadino libero in una Republica libera è simile al Re; e assai meglio essere tassato da un magistrato sottoposto alle leggi che dal voler di un solo; et per concludere vivere in una Republica dove alle volte se sei virtuoso et prudente comandi che sotto ad un Prencipe solo dove sei sforzato ad ubedire e tanto peggio quando è tiranno.
Il repubblicanesimo andava congiunto strettamente alla difesa autonoma della città, che riecheggiava temi machiavelliani solo in parte sollecitati dalla contingenza militare della Repubblica: “senza armi proprie”, ribadiva Stefano, “non si ponno li stati longamente conservare, e quelli li quali si sono lungamenti conservati, sono stati armati et rare volte han variato gli antichi ordini”. Non solo mercatura e libertà, dunque, ma anche armi e libertà.
- La sfida nobiliare
Il Sogno anticipò la battaglia libellistica che preparò ed accompagnò la guerra civile del 1575 e l’assetto costituzionale del 1576: un compromesso elaborato dal mediatore cardinale Giovanni Morone, che faceva tesoro delle proposte emerse dal dibattito politico cittadino (della città rimasta in mano ai nobili ‘nuovi’ e ai loro alleati popolari), senza esserne però vincolato.
Nella battaglia a colpi di dialoghi ‘Vecchi’ e ‘Nuovi’ badarono soprattutto a valorizzare le rispettive benemerenze, disperdendosi però nelle frecciate personali. Più interessanti e meglio articolati sono alcuni testi dati alle stampe durante il conflitto. In particolare, la Risposta del S. Leonardo Lomellino Gentilhuomo Genovese al discorso de l’Ambasciadore Sauli, uscito dai tipi milanesi di Paolo Gottardo Pontio, nel 1575. Non si è certi che il Lomellini fosse il vero autore del libello. Ma di sicuro questo esprimeva nel modo più netto la posizione della nobiltà ‘vecchia’. L’autore, che continueremo per comodità a chiamare Lomellini, ricordava (ed era un topico della sua parte) l’evergetismo dei ‘Vecchi’:
non mancherei di dire che in essi si sono veduti donativi di infinito valore fatti da particolari Nobili vecchi antichi e moderni al pubblico per estinzione e diminuzione delle gabelle, infinite elemosine per sostentamento della povertà e della minuta plebe; contribuzioni gravissime di danari, servizii importantissimi con le galere loro nei bisogni pubblici e particolarmente nelle guerre di Corsica.
Su quest’ultima benemerenza i ‘Nuovi’ non potevano essere d’accordo; ma i ‘Vecchi’ dovevano rimarcare il proprio paternalismo verso la plebe e la beneficenza individuale verso la Repubblica per giustificare la parità di posti nel governo, benché inferiori di numero rispetto ai ‘Nuovi’. “Secondo tutte le leggi divine, naturali, canoniche, e civili alla nobiltà di sangue devesi deferir molto”, sosteneva Lomellini. E proseguiva: “altro è l’indistinzione degli ordini quanto al governo, ed altro fare assolutamente di due tutto un ordine”. Gli esempi di Roma e di Venezia, che i ‘Nuovi’ con più o meno convinzione solevano addurre, non valevano: là, “prima che si confondessero totalmente gli ordini quanto al governo, ricorsero le centinaia d’anni […] ma in Genova la nobiltà della maggior parte dei Nuovi incomincia dall’età nostra”. Se Foglietta era stato nominalista, quanto all’origine delle divisioni di fazione, Lomellini era realista: ‘Vecchi’ e ‘Nuovi’ erano diversi:
egli è così in sostanza, che i Nuovi sono Nuovi, che li popolari sono popolari, che gli aggregati sono aggregati, che li artefici sono artefici […]E meno fia possibile che si estinguano questi nomi, quantunque si vietasse il lor uso con mille leggi: perché come dissi vengono dalla natura istessa.
Le leggi del 1528 avevano lasciato “la somma delle cose all’indiscreta discrezione della fortuna” affidando al sorteggio la composizione dei Consigli. Sbagliavano dunque i Nuovi a proporre, contro il garibetto, il ritorno al Ventotto. L’unica soluzione soddisfacente per gli interessi dei ‘Vecchi’ stava nella rigorosa distinzione tra loro e i ‘Nuovi’, e nel contempo nel pari diritto di rappresentanza, per “ordine”, nel governo. Lomellini, in altre parole, postulava l’esistenza a Genova di due nobiltà, beninteso con graduazione di dignità fra la nobiltà autentica e antica dei ‘Vecchi’ e quella convenzionale e recente dei ‘Nuovi’.
Il metallo della nobiltà vecchia, è senza dubbio di liga migliore, più perfetto e più purgato da ogni oggezione, parlando semplicemente ed avendo riguardo all’antichità, sebbene quanto al governo non vi è differenza alcuna, in quanto però che tanto vi sii atto il minimo de’ nuovi, come il maggiore de’ vecchi: perché così vollero li 12 riformatori, e la convenzione fra noi.
Gli stessi modi di vita e l’origine delle fortune testimoniavano a favore dei ‘Vecchi’. Non era in questione la dignità della mercatura:
il nome di mercante, quanto alla professione è comune all’una parte ed all’altra (quantunque dalla banda dei Nobili Vecchi vi siano infiniti che non fanno mercanzia, dandosi all’esercizio dell’armi, ovvero al governo de’ lor castelli e stati, o veramente a una vita quieta di Gentiluomo) né perciò sarà stimata professione disonorevole, perché la mercanzia grossa e denarosa non solo non è biasimevole, ma piuttosto onorata e lodevole, non scemando punto alla Nobiltà di chi l’esercita, e de’ suoi maggiori, massimamente nelle Repubbliche d’Italia e fuori.
I polemisti ‘nuovi’ additavano nei ‘Vecchi’ un’oligarchia di finanzieri e appaltatori di galee: tratti che Lomellini sfumava in un’aura di vita cavalleresca e feudale. Invece “la voce e professione di artefice, quanto sia poco onorevole alla Repubblica, e diametralmente contraria al nome di vita di Gentiluomini, non accade provarlo”. Alla proposta di un corpo unico e indistinto della nobiltà e dell’applicazione del principio maggioritario avanzata dai ‘Nuovi’, ad esempio dal protonotario Marcantonio Sauli, ambasciatore del governo genovese (controllato dai ‘Nuovi’) presso il re di Spagna, i ‘Vecchi’ per sua bocca rispondevano con la proposta di una rappresentanza paritaria per “ordini” distinti. Si trattava, in buona sostanza, di riproporre il modello istituzionale vigente prima del 1528, all’epoca del dogato perpetuo, ma con la compartecipazione al dogato dei Nobili, resi per giunta più forti dai rapporti preferenziali stabiliti con il re di Spagna, e dalle possibilità di patronato nei confronti delle famiglie ‘nuove’ minori (secondo Lomellini “non solo gran parte degli aggregati fu aggregata per opera e favore degli stessi Vecchi, nudriti, allevati e beneficati dai Vecchi”).
L’esito del conflitto fu in realtà sfavorevole tanto ai ‘Vecchi’ quanto agli esponenti più radicali di parte ‘nuova’. Il più eloquente portavoce dei quali era stato forse il medico Silvestro Facio, autore di una risposta del “Popolo di Genova” alle argomentazioni dei ‘Vecchi’ e di una polemica orazione per l’incoronazione del Doge Prospero Fattinanti. Facio, come l’autore del Sogno, puntava il dito sulla politica fiscale seguita dall’oligarchia al governo, accomunandola agli altri ideali capi di imputazione rivolti alla fazione avversa: che erano
l’havermi [si intende, il popolo] escluso a fatto del Governo; non voler fabrica di Galere, dalle quali […] pende lo splendore, e la salute della Repubblica; l’haver imposte gravissime Gabelle sulle vettovaglie per fuggir la necessità di ritrovar danari co’l mezzo giustissimo della Taglia; l’haver mantenuti tutti i beni del Publico impegnati nella casa di S. Gregorio [sic per S. Giorgio]; l’haver conservato una quasi perpetua carestia.
L’attacco a San Giorgio, cioè al sistema fiscale della Repubblica, la preferenza per l’imposta diretta invece dell’indiretta, erano spunti radicali: mettevano in discussione l’intero assetto istituzionale genovese. Andavano di pari passo con la rivendicazione navalista, cavallo di battaglia, come si è visto, dell’opposizione ‘nuova’ in quel momento, e degli innovatori ben addentro il secolo seguente. Ma, a differenza del navalismo, che poteva anche sbiadire in retorica innocua, l’attacco a San Giorgio, se condotto fino in fondo, era eversivo. La voce del popolo espressa attraverso il medico Facio era in questo un canto del cigno, non un preannuncio.
Il compromesso del 1576 abolì il garibetto senza però tornare alle leggi del Ventotto (come del resto, una volta data la parola alle armi, neppure i ‘Nuovi’ avevano più sollecitato a fare). Venne accolta la sostanza delle richieste “nuove”: ordine unico della nobiltà, ritorno di ogni famiglia al proprio cognome, scelta del governo attraverso un sistema misto di elezione e di sorteggio accettabile per entrambe le due parti. Infine, la prassi tacita di seguitare ad assicurare una rappresentanza più o meno paritaria a ‘Vecchi’ e ‘Nuovi’ nelle principali cariche placava i timori dei ‘Vecchi’ di essere soverchiati dal numero.
- Da un secolo all’altro: le ultime polemiche
Il compromesso di Casale segnò una svolta decisiva. Ma i genovesi non cessarono per questo di polemizzare sulle caratteristiche del ceto di governo. Niente del molto che fu scritto al riguardo andò tuttavia alle stampe. Non certo gli Annali commissionati dalla Repubblica al cancelliere Antonio Roccatagliata, che li iniziò nel 1581 e morì nel 1607 senza aver elaborato un testo vero e proprio. Dati da rivedere ad una commissione di patrizi, i suoi appunti vennero ricuciti in un testo continuo, destinato ad ampia circolazione nelle biblioteche private genovesi, ma stampato solo nel 1873. Qualsiasi cosa Roccatagliata, a suo tempo uomo di parte ‘nuova’, avesse avuto in animo di fare, il manoscritto che lasciò non diffondeva certo, come forse il governo aveva sperato, un’immagine lusinghiera della Repubblica pacificata. Era piuttosto il resoconto delle difficoltà che questa incontrava sia nelle relazioni internazionali, sia nello stabilire la concordia interna. Bersaglio di Roccatagliata era Gian Andrea Doria, capoparte “vecchio” nel 1575 e principale esponente di quei patrizi “eminenti” fatti ricchi, potenti e prevaricatori dai legami stabiliti con il mondo spagnolo. Il Principe Doria era il protagonista negativo delle vicende genovesi. Il testo ricomposto dedicava al comportamento del Doria una colorita digressione, introdotta da un commento eloquente:
Perseverava in Genova l’odio universale de’ cittadini verso del Doria, perché non solo appresso de’ mezzani, ma de’ più inferiori, era in opinione ch’egli non istimasse la Repubblica, e che nelle occorrenze porgesse occasione di disgusti e pregiudizii, ed appresso de’ grandi non solo per le cagioni di sopra narrate, ma perché anco nelle occorrenze li andava oltraggiando, e trattando ingiuriosamente.
Questo il giudizio sulla situazione dell’ordine pubblico nel 1585: “andavasi in questi giorni commettendo de’ gravi delitti, i quali non erano generalmente castigati, massime quando dipendevano da persone grandi”. Eloquente il resoconto delle manovre faziose nelle elezioni dogali del 1585:
la cagione di tutte queste difficoltà e dispareri dipendeva in tutto da’ nobili vecchi, perché essi non volevano in guisa veruna acconsentire che nel numero de’ sei si ammettesse alcuno de’ nuovi, come in effetto riuscì loro, e ciò per accautelarsi tanto più che nel maggiore Consiglio non si eleggesse altro Duce fuori che della loro banda, e benché i nuovi acconsentissero che il dovere fosse di eleggere uno de’ vecchi, si lasciavano però alla scoperta intendere che questa azione loro fosse mal fatta e mal intesa.
A mitigare un quadro così cupo, Roccatagliata citava la comune disponibilità dei cittadini alla difesa, che gli forniva il destro per manifestare le simpatie navaliste prevedibili in un anziano popolare:
e benché in questi tempi vivessero etiandio nelle dissensioni loro, quando però si è parata avanti loro occasione, mandando in disparte tutte le passioni, congiungendosi sempre in un valore, ed intenti al bene della patria, voltarono affatto li studi loro alla comune difesa di essa.
Ma nel complesso erano le “passioni” e le “dissensioni” a campeggiare in un testo che non esitava ad adoperare quelle denominazioni di parte, come ‘nobili vecchi’, formalmente proibite dalle leggi. Questa singolare attitudine di un ex cancelliere stipendiato ufficialmente dalla Repubblica come annalista spiega come il testo non sia mai andato alle stampe. Sorprende, piuttosto, che un resoconto così franco e partigiano venisse rielaborato su incarico pubblico e trovasse circolazione, sia pure privata, per quanto se ne sappia indisturbata. Ma si capisce che la Repubblica abbia rinunciato da allora a promuovere un’annalistica ufficiale.
Roccatagliata era stato un protagonista delle discordie civili. Il vocabolario fazioso e la polemica faziosa si riproposero però anche nella generazione seguente. L’orientamento dei ‘repubblichisti’, come Ansaldo Cebà e Andrea Spinola, non esauriva affatto il dibattito politico. La loro posizione, quella di Spinola in particolare, più aderente alle effettive discussioni interne al patriziato, risalta non perché rappresentativa dei temi e dei toni della polemica politica, ma perché programmaticamente tesa a superare, anche passandole sotto silenzio, le diatribe faziose cinquecentesche. Spinola non entrò mai nel campo dell’erudizione storica, come fecero invece Antonio Roccatagliata prima di lui, il quasi coetaneo Giulio Pallavicino (1558?-1638), e i più giovani Federico Federici (1570 ca.-1647) e Agostino Franzone (1580 ca.-1658).
Avvocato della “unione” in chiave “repubblichista”, Spinola votava all’oblio l’età delle lotte faziose. Se la ricerca antiquaria si dimostrava ora occasione involontaria, ora pretesto deliberato per rinfocolare gli antichi e recenti contrasti, meglio non praticarla: nelle migliaia di pagine spinoliane la rivisitazione del passato genovese è quasi assente. Pochi, e in linea con la tradizione ‘vecchia’, i riferimenti alle vicende cinquecentesche: all’elogio di Andrea Doria, il liberatore disinteressato del 1528 e il difensore dell’indipendenza genovese del 1547, si contrapponeva la menzione ostile di Ottaviano Fregoso, sospettato di ambizioni signorili. Tuttavia Spinola, benché di famiglia inequivocabilmente ‘vecchia’, fondeva nella sua idea di città elementi che provenivano da entrambi i filoni della polemica politica cinquecentesca. L’elogio della mercatura e della navigazione proveniva soprattutto dalla tradizione ‘nuova’, anche se realisticamente non comportava alcun disdegno per l’attività finanziaria. Tutta di origine ‘nuova’ era l’insistita polemica suntuaria, non priva di accenti antifemminili e antigiovanili. E ancora ‘nuova’ (benché anche i ‘Vecchi’ avessero maltollerato nel Cinquecento il protagonismo di alcuni tra loro) l’ostilità verso gli ‘eminenti’. La diffidenza verso gli ordini religiosi “moderni” e il proselitismo ecclesiastico tradiva poi il rimpianto per la religione civica del secolo precedente e per un rapporto tra laicato e clero che era certamente, e irreversibilmente, cambiato. Radici ‘vecchie’ presenta invece l’adesione spinoliana ad una immagine sostanzialmente immobile della società cittadina. Era questo il presupposto della sua avversione alla legge che consentiva al patriziato di cooptare ogni anno nuovi membri traendoli dal mondo popolare. Disposizione destabilizzatrice, gli pareva: perché generava aspettative permanenti di ascesa sociale, che non potevano (anzi, non dovevano) essere soddisfatte. L’idea di città spinoliana contemplava un ceto di governo concorde, frugale, mercantile, consapevole dei propri doveri, provvido verso gli inferiori; ma anche un ceto di popolari operosi, leali e privi di ambizioni di ascesa sociale. Aleggiava, dietro questa proposta, la suggestione del modello veneziano: patriziato chiuso, e secondo ordine contento del proprio stato. Sottintesa, un’idea di ordine sociale fondata su una stratificazione articolata non solo della città, ma dello stesso patriziato, che il lusso e la diffusione di nuovi modelli culturali (i “costumi cavallereschi”) tendevano a semplificare brutalmente.
Negli stessi anni in cui Spinola rielaborava i Ricordi, però, la polemica cinquecentesca sulle fazioni venne riproposta per l’ultima volta: nel 1622-23 da un dialogo anonimo rimasto manoscritto che incorporava alcuni testi del 1575 (riproposti a stampa nel 1628, sullo sfondo della guerra tra Repubblica e duca di Savoia e della congiura di Vachero, dal filosabaudo Gian Antonio Ansaldi), e nello stesso anno dalla prima parte del dialogo Aristo. Sotto questo titolo va la riflessione politica che l’intellettuale e uomo di governo Agostino Franzone stese in dodici parti (“giornate”) fra il 1623 e il 1641, e che circolò anch’esso largamente senza andare mai alle stampe. La prima “giornata”, dedicata al tema della nobiltà di Genova, rispondeva (se deliberatamente o no lo ignoriamo: non è possibile stabilire con certezza quale testo sia stato scritto prima) ai dialoghi anonimi. La coincidenza temporale delle due opere esprimeva evidentemente lo stato d’animo, anzi di malanimo, del momento. I dialoghi del 1622-23 assumevano un punto di vista risolutamente ostile all’azione dei ‘nuovi’, considerati traditori della causa “popolare” nel 1575; tuttavia la loro ispirazione è ambigua: essi sottolineavano soprattutto la convergenza degli interessi delle due parti contro i comuni nemici ‘nuovi’. Sul piano operativo sembrano tuttavia più un appello alla riscossa dei ‘Vecchi’, che non un incitamento all’eversione rivolto al popolo.
Nella rivisitazione polemica e ‘antinuova’ dei fatti del 1575-76 i dialoghi riprendevano lo spunto proposto alla fine del secolo precedente in uno dei più straordinari pezzi della pubblicistica politica genovese: quella Relazione di Genova, databile molto verosimilmente al 1597-98, che è stata (e talvolta è tuttora) attribuita al Doge Matteo Senarega, ma che c’è motivo di credere sia stata invece stesa da un intelligente e ‘machiavellico’ intellettuale-avventuriero toscano forse al servizio del Granduca, Jacopo o Giacomo Mancini da Montepulciano, morto assassinato a Genova nel 1603. La relazione, e due scritti più brevi ad essa correlati, se opera del Mancini rappresentavano una acuta analisi del governo genovese e soprattutto dei suoi punti deboli, ad uso di chi volesse (e il Granduca era un candidato plausibile per la parte) sfruttarle a proprio beneficio. È invece molto più impegnativo giustificarne l’attribuzione a un protagonista, pur spregiudicato, della politica genovese come Matteo Senarega. Il governo genovese fece bruciare il testo (che per altro ebbe larghissima diffusione) attribuendolo al già defunto Mancini.
La Relazione, è stato osservato, pare rispecchiare gli interessi e il punto di vista di un estraneo, non di un genovese. Non così i dialoghi del 1622-23, cosparsi, come già la pubblicistica precedente il 1575, di attacchi personali. Disinvolto pastiche di toni e argomenti di riporto, e di riferimenti d’attualità, i dialoghi furono forse travolti dalla cronaca, ovvero dalla guerra savoina del 1625 e dalla successiva congiura di Vachero, e non ebbero seguito.
A sua volta, Franzone chiuse senza saperlo il dibattito sulle caratteristiche del ceto di governo genovese, riprendendo e rovesciando la posizione sostenuta tre quarti di secolo innanzi dal Foglietta. A somiglianza del quale risaliva infatti alle discordie duecentesche, ravvisando nelle bipartizioni dei posti di governo l’origine della scissione faziosa. Diversamente da Foglietta, però, rilevava l’importanza della ripartizione dei posti di anziano praticata a partire dal 1290. Là, più ancora che nell’avvento del dogato popolare del Boccanegra, stava lo spartiacque politico del passato genovese:
dalli quali ordini come ho detto cominciò la divisione nel governo perché quelli che in l’avvenire avevano da esser ammessi conveniva che fossero dichiarati o dell’ordine de nobili, o di quello de populari, e da qui nacque, che ogniuno o fosse di casato e generazione nobile o vero persona nuova si faceva porre per governare la Republica in quale di quelli ordini meglio gli pareva e di qui venne che il nome de nobili e di populare acquistarono, oltre la loro propria significazione, quella di fazione e mutavansi i cittadini da un ordine all’altro secondo le occasioni e gli interessi che correvano.
Quanto al significato delle fazioni, Franzone era dunque nominalista. Era una riproposta di Foglietta, ma capovolta per un aspetto capitale: inizialmente il ceto di governo genovese era stato unito e in qualche modo ‘nobile’. Dove Foglietta aveva visto apertura e permeabilità, Franzone scorgeva chiusura ed esclusione. Già in età comunale chi entrava a far parte del governo doveva essere stato implicitamente cooptato nella nobiltà. Essere nobile o popolare “era elettione e non necessità, e così fazione e non condizione di persone”. Il regime del capitano del popolo aveva diviso artificialmente e per motivazioni faziose un ceto dirigente in precedenza concorde. Proiettando in un passato originario l’unione faticosamente raggiunta dal patriziato cittadino in due tappe nel corso del Cinquecento, Franzone chiudeva davvero un’epoca.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Il dibattito politico genovese nel Cinque-Seicento è ottimamente utilizzato in Costantini, La Repubblica di Genova, al quale rinvio per il quadro generale della Genova dell’epoca e per una bibliografia esauriente. Le origini e le caratteristiche della riforma del 1528 sono stati di recente studiati da Pacini, Le premesse politiche del ‘secolo dei genovesi’; mentre la guerra civile del 1575, le leggi di Casale e l’ampio dibattito politico sviluppatosi sul tema della riforma politica sono stati analizzati da Savelli, La repubblica oligarchica. Costantini ha messo in rilievo il grande interesse delle Historie di Giovanni Salvago, il cui manoscritto si trova nella Biblioteca dell’Istituto di Storia Economica dell’Università di Genova, Archivio Doria, scat. 417, n. 1912. Il trattatello di Ludovico Spinola, segnalato da Musso, La cultura genovese fra il Quattro e il Cinquecento, è stato edito in appendice a Seidel Menchi, Passione civile e aneliti erasmiani di riforma. La biografia del personaggio resta però da fare. Su Jacopo Bonfadio si veda La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica. Cito gli Annali dalla traduzione del Paschetti, Genova, presso Girolamo Bartoli, 1586. Su Oberto Foglietta rimando ancora a La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica, limitandomi a segnalare qui Musso, La cultura genovese, e Libri e cultura dei Genovesi, che assieme ad altri lavori dello stesso studioso sono stati ristampati inalterati in Id., La cultura genovese nell’età dell’umanesimo. Sul Sogno sopra la Republica di Genova veduto nella morte di Agostino Pinello ridotto in Dialogo, che ho citato dalla copia conservata in ASCGe, Manoscritti Pallavicino 164, ved. Costantini, La Repubblica di Genova, e Savelli, Tra Machiavelli e San Giorgio. Sulla pubblicistica genovese in particolare ved., sempre di Savelli, Potere e giustizia, e La pubblicistica politica genovese. Ho citato il testo di Leonardo Lomellini dall’edizione di Agostino Olivieri in appendice a Le discordie e guerre civili dei genovesi nell’anno 1575 descritte dal doge Gio. Batta Lercari. Si avverta che il testo attribuito dall’Olivieri a Giambattista Lercari è invece di Scipione Spinola: cfr. Savelli, Potere e giustizia. Degli Annali di Antonio Roccatagliata ho utilizzato l’edizione a cura di Vincenzo Canepa, Genova 1873. Il manoscritto originale si trova in ASGe, Manoscritti 64. La vexata quaestio della Relazione di Genova del 1597 è discussa in Costantini, La Repubblica di Genova e nei lavori citati di R. Savelli. Entrambi questi studiosi, ed anche chi scrive, dubitano fortemente dell’attribuzione tradizionale del testo a Matteo Senarega.
Sulla pubblicistica politica genovese del primo Seicento rimando ancora a Costantini, La Repubblica di Genova, e a Doria-Savelli, “Cittadini di governo”. Esiste un’antologia spinoliana, a cura di chi scrive: Spinola, Scritti scelti; mentre il nesso tra dibattito politico e problemi di governo nello stesso periodo è discusso in Bitossi, Il governo dei magnifici. Su personaggi come Federico Federici e Agostino Franzone, non ancora oggetto di studi specifici di ampiezza pari all’interesse delle figure, si trovano frequenti riferimenti nei già citati lavori di C. Costantini, R. Savelli, e C. Bitossi, ai quali si rimanda anche per ulteriori riferimenti biobibliografici.
Magnifici malfattori. Note sulla criminalità patrizia a Genova tra Cinque e Seicento
Carlo Bitossi (Università di Ferrara)
- Una considerazione pur rapida delle conoscenze sulla storia sociale della criminalità nella repubblica di Genova in confronto ad altre città italiane di antico regime, ad esempio Venezia (per restare nell’ambito della forma di governo repubblicana), mostra il ritardo della ricerca in area genovese. Dal lato veneziano, per insistere nel confronto, una fioritura di studi che hanno messo a frutto molteplici fonti normative e documentarie[101]; dal lato genovese pochi, ancorché pregevolissimi, sondaggi, segnale implicito che il materiale archivistico utile è largamente sottoutilizzato. In questa sede non si tratta pertanto di tracciare un bilancio di conoscenze, che si esaurirebbe rapidamente, quanto di fornire un limitato apporto di ricerca: le prime schede inserite in un fascicolo che richiederà verosimilmente parecchi anni per essere riempito. Ad essere preso in considerazione è soltanto il ceto patrizio: non perché non sia importante e urgente utilizzare le fonti giudiziarie per ricostruire le vicende degli altri gruppi sociali; ma piuttosto perché in questa fase l’indagine sul patriziato malfattore presenta il vantaggio di poter essere categorizzata con maggiore immediatezza.
- Ricordiamo anzitutto i contributi dai quali deve partire ogni indagine su questo tema. Rodolfo Savelli ha studiato le origini e la prima fase di applicazione della legge dell’ostracismo: una sanzione che il patriziato genovese adottò nel 1607 per contenere le devianze dei propri consorti, soprattutto di quelli giovani[102]. L’esilio biennale veniva inflitto a chi, menzionato da un certo numero di biglietti anonimi depositati in un’urna nel corso di un’apposita seduta del Minor Consiglio, venisse poi votato da una maggioranza qualificata della stessa assemblea. I comportamenti devianti sanzionati andavano dall’intemperanza e insolenza verbale alle vere e proprie risse di strada, dal porto di armi proibite da taglio e da fuoco alla partecipazione a fatti di sangue e a imprese ancor più brutali, come stupri e violenze a privati. Edoardo Grendi ha studiato invece il reato di falsa monetazione, assai significativo in una realtà urbana caratterizzata da un’economia monetaria particolarmente sofisticata. Si trattava di un reato che vedeva coinvolti i magnifici soprattutto perché nei feudi dei quali parecchie casate patrizie genovesi erano investite al di fuori del territorio della Repubblica potevano trovare rifugio le zecche clandestine[103]. A parte ricordiamo due indagini di diversa ampiezza e importanza solo marginalmente rilevanti per il nostro assunto. La prima è il libro di Osvaldo Raggio su faide e parentele nell’entroterra di levante della Repubblica fra Cinque e Seicento: un fenomeno nel quale per la verità risulta marginale la parte dei patrizi metropolitani, che non in quell’area avevano i loro feudi in possesso (con la segnalata eccezione dei Doria, subentrati nel dominio di parte dello stato fieschino dopo la fallita congiura del 1547), mentre vi spicca il coinvolgimento dei notabilati locali[104]; e le ricerche di Maria Desiderata Floris su vari aspetti dell’amministrazione della giustizia penale genovese[105] [vedere gli altri lavori della Floris in MSL].
- Perché il comportamento criminale dei patrizi genovesi ha attirato così scarsa attenzione? Non certo per carenza di fonti. Al contrario, la documentazione utile ha dimensioni enormi[106]. Una spiegazione va forse cercata nella tendenziale considerazione dei magnifici anzitutto come protagonisti delle vicende economico-finanziarie. La giusta scoperta del ceto di governo genovese come protagonista di primo piano della storia economica del mondo ispano-asburgico nel Cinque-Seicento ha contribuito a identificare il tipo ideale del magnifico la fisionomia di un intero gruppo sociale sulla dimensione dell’homo economicus. [rivedere questo passaggio!!!] Un po’ come lo stesso gruppo sociale viene preso in considerazione quasi soltanto come comunità mercantile nei turbolenti secoli del tardo Medioevo. Le pratiche di socialità, l’ethos e il costume dei patrizi, il loro stesso ruolo politico, sono rimasti a lungo, e per certi aspetti restano ancora, in secondo piano[107]. Da una pur sommaria indagine risulta però come alcuni personaggi che compaiono in altri momenti della loro vita nelle vesti di uomini di stato o di finanza vengano citati nelle fonti tanto documentarie quanto narrative o memorialistiche come protagonisti di fatti penalmente rilevanti. Senza dire degli altri, dei quali non gli organigrammi delle magistrature repubblicane, ma proprio le cronache criminali hanno tramandato il nome. E’ una scoperta certamente banale sul piano generale; è però un dato di fatto sinora trascurato sul piano genovese.
Rispetto alla tematica del banditismo, la specificità della situazione genovese impone delle limitazioni. Ricordiamo almeno un’evidenza: un ceto dirigente composto per la maggior parte di patrizi cittadini e solo in parte minore di casate di origine e radicamento feudale, in genere in aree periferiche del dominio, lungo quelle frontiere che consentivano di sfuggire alla giustizia metropolitana con facili sconfinamenti in rifugi collocati sotto bandiere sicure. Non soprende perciò che la frontiera dell’estremo levante, con il principato di Massa e con i feudi imperiali della Lunigiana abbia lasciato tante tracce nella documentazione giudiziaria genovese. Però in quella documentazione i patrizi compaiono piuttosto come complici o distratti controllori (i giusdicenti inviati da Genova a governare i capitanati e le podesterie frontaliere) che non come protagonisti. Sono i notabilati locali, i clan delle località di frontiera, ad animare le bande e il conflitto di bande. [qualche esempio?] Non solo. Anche dove i patrizi genovesi sono radicati, nei feudi imperiali posti proprio ai confini della Repubblica lungo la dorsale appenninica tra la Fontanabuona e il Monferrato, non è frequente trovare menzioni dell’attività di bande. Il patrizio feudatario è più spesso, come si è anticipato, un falsario di monete (reato ovviamente gravissimo per la Repubblica, ma reato socialmente trasversale, che vede coinvolti preti e cittadini dei borghi del Dominio altrettanto spesso che i patrizi) che non un organizzatore di bande di malfattori intenti a controllare le strade e i traffici. Oppure è impegnato nei conflitti con le comunità locali: e i bravi al suo servizio si dedicano a mantenere l’ordine nel feudo[108] o a difendere gli interessi del signore contro le comunità confinanti, magari collocate sotto diversa bandiera[109]. Di questi fenomeni si deve del resto parlare con prudenza, dal momento che si dispone di ben pochi archivi feudali genovesi, e che in quelli noti, come l’archivio Doria Pamphilj, non sono state condotte ricerche su questi temi[110]; dei feudi, come la terra di Gabiano, nel Monferrato, posseduta da un ramo dei Durazzo, sono rimaste soprattuto le contabilità, non l’attestazione della vita sociale attraverso documentazione giudiziaria[111]; quanto poi alla documentazione governativa genovese, questa è ovviamente poco attenta alle vicende interne ai domini di patrizi che come feudatari erano sudditi di un altro sovrano[112].
A quali fonti, dunque, dobbiamo rivolgerci? Dove si trova traccia del comportamento criminale dei patrizi genovesi?
(a) Fonti narrative, memorialistiche e pubblicistiche. Disponiamo per fine Cinquecento e prima metà del Seicento di alcuni testi importanti: un diario di Giulio Pallavicino degli anni 1583-1589[113]; un secondo diario dello stesso personaggio degli anni 1600-1610[114]; una cronaca redatta dal benedettino [ctrl] genovese Agostino Schiaffino, consultata relativamente agli anni 1624-1647[115]. Senza dimenticare i commenti del più prolifico e attento commentatore politico genovese del tempo, Andrea Spinola, relativi agli anni ‘10-’20 del Seicento[116].
(b) Fonti documentarie: le serie propriamente giudiziarie, come quelle comprese nel fondo ‘Rota criminale’ (che include, ad esempio, anche gli atti del ‘Magistrato della Moneta’, utilizzati da Grendi per il saggio sopra citato[117]); e i riferimenti a pratiche criminali contenuti, soprattutto in riferimento proprio ai patrizi, nei fondi archivistici governativi, in primo luogo ‘Archivio segreto’ e ‘Senato’.
- Cominciamo dai due diari di Giulio Pallavicino. Essi presentano una netta differenza di contenuto. E si spiega: il diario degli anni 1583-1589 è quello di un gentiluomo trentenne, sposato da poco, e participe di tutte le occasioni di socialità a disposizione di un personaggio della sua condizione: veglie, tornei, ricevimenti nuziali, sodalizi tra ludici e culturali[118]. Il diario riporta ampi squarci della cronaca bianca e nera del patriziato, soprattutto di quello più vicino allo scrittore. A confronto, il diario del primo decennio del Seicento appare per più rispetti l’opera di un’altra persona: un cinquantenne attento a registrare soprattutto le vicende politiche e meno interessato o attento ad annotare ciò che aveva invece seguito con attenzione nemmeno due decenni prima. Le stesse caratteristiche che rendono il diario del 1583-1589 scarsamente rilevante per lo storico delle politica cittadina lo rendono una fonte importantissima per un sondaggio come quello che qui si tenta. Pallavicino registra liti, risse a mano armata, pacificazioni, aggressioni, omicidi o tentati omicidi, e anche la vicenda di una coppia di patrizi, attivi per qualche tempo a capo di una banda attorno a Genova nei primi anni ‘80 del Cinquecento. Vediamo.
Su un arco di sei anni e mezzo, dal 10 giugno 1583 al 31 dicembre 1589[119] sono menzionati circa 150 fatti diversi che o rientrano senz’altro nella sfera del penalmente rilevante o costituiscono le premesse per fatti penalmente rilevanti, e nei quali compaiono come protagonisti, vittime o mandanti dei patrizi. Nella prima tipologia rientrano il porto di armi proibite, le risse tra privati o tra questi e le forze di polizia, aggressioni, sfregi, stupri, sequestri di persona, torture, omicidi a sangue caldo e omicidi su commissione, banda armata a scopo di estorsione e omicidio. Nella seconda tipologia rientrano invece le sfide, le “mentite”, le provocazioni verbali o fisiche, queste ultime talvolta involontarie.
E’ naturale chiederci se Pallavicino riporti tutti i fatti del genere avvenuti a Genova, o se almeno quelli che riferisce compongano un quadro rappresentativo della violenza patrizia. (Lasciamo deliberatamente da parte il confronto tra criminalità nobiliare genovese e quella di altre città italiane coeve, che presuppone infatti un quadro di riferimento comparativo al momento non disponibile) Osserviamo che se il quadro tracciato da Pallavicino è realistico, allora dobbiamo pensare a una netta divaricazione di comportamenti all’interno del ceto di governo genovese. La grande maggioranza dei fatti violenti riportati vede infatti come protagonisti dei nobili “vecchi”, e solo una minoranza registra il coinvolgimento di nobili “nuovi”[120]. Parecchie casate sono vistosamente assenti dalla cronaca nera o vi compaiono assai meno frequentemente di quanto non indurrebbe a supporre il loro peso demografico: perché, ad esempio, così pochi Giustiniani delinquenti, e così frequenti menzioni invece non solo di Doria e Spinola (che, certo, all’epoca erano le famiglie più numerose e ramificate), ma anche di Pinelli e Gentile, Centurione e Cattaneo? Sembra ragionevole concludere che Pallavicino riferisca ciò che conosce meglio, vale a dire la condotta degli appartenenti alla sua stessa fazione, e più specificamente ancora alla sua rete di relazioni e conoscenze dirette. Si può però ipotizzare una diversità di codici di comportamento, una diversa declinazione dell’ethos patrizio: più accentuatamente cavalleresco e incline a porre ed accettare le sfide in termini ritualizzati tra i “vecchi”[121]; laddove i “nuovi”, più legati al tradizionale ethos mercantile, nelle notie di diario del Pallavicino non compaiono o compaiono come protagonisti e comprimari di episodi di qualità più banale. Un’altra osservazione si impone, connessa alla precedente: anche limitando l’osservazione alla nobiltà “vecchia”, i personaggi citati sono spesso e volentieri esponenti di famiglie di spicco, e nell’ambito di queste appartengono a lignaggi doviziosi. Troviamo ad esempio il giovane marchese Spinola, il futuro espugnatore di Ostenda e di Breda[122]; e figli o nipoti di senatori in carica. Precisamente l’ambiente nel quale si muove il diarista, il quale del resto non rilutta dall’estrarre egli stesso il pugnale e ferire (alla schiena) un aggressore e dal partecipare a una zuffa tra patrizi. Il ‘magnifico malfattore’ sarebbe da cercare dunque non tanto nella plebe nobiliare quanto nell’élite. Sembra però ovvio che abbiano avuto luogo altri fatti di cronaca nera non registrati da Pallavicino ma che abbiano visto coinvolti patrizi di altra, e minore, caratura. Osserviamo inoltre che gli episodi censiti non riguardano sempre persone diverse. Alcuni personaggi e famiglie ritornano a più riprese: e chi, come Tomaso Lercaro, compare dapprima come paciere o come protagonista di semplici zuffe, esce definitivamente dal diario come vittima del cognato che lo uccide ad archibugiate e coltellate mentre si reca alla commedia, riuscendo per giunta a farla franca[123]. Gli episodi più lievi sono scontri verbali, in occasioni festive o in incontri fortuiti nei luoghi pubblici, come la centrale piazza Banchi, che è anche un terreno neutro e condiviso, oppure in luoghi connotati da una specificità faziosa, come la piazza di San Siro, ritrovo dei “vecchi” (non a caso definiti a partire dal pieno Seicento ‘portico di San Siro’[124]), che tendono a degenerare in sfide attraverso il rituale dell’offesa attraverso la ‘mentita’ o lo schiaffo, con la conseguente reazione. Non sempre però gli scontri verbali danno luogo a fatti di sangue. “E’ seguita costione”, è la formula con la quale Pallavicino inizia a raccontare questi fatti. Ma l’esito è spesso un rapido accomodamento per opera di un terzo fortunatamente presente o disposto a intromettersi come paciere. In altri casi si dà invece la parola alle armi; ma a sangue caldo, non necessariamente provocando ferite, e giungendo spesso a una riconciliazione nella serata stessa o nel giro di qualche giorno. Quando così non è Pallavicino annota preoccupato: “sarà costione grossa”. Ma non sempre si preoccupa poi di annotarne gli sviluppi; oppure sviluppi, nonostante i timori del diarista, non ci sono. Le annotazioni più frequenti riguardano il porto di armi proibite e le conseguenze della repressione di questo reato: misura che si vuole preventiva, ma che di fatto risulta a sua volta criminogena. Le squadre di birri guidate dai bargelli erano infatti incaricate di effettuare perquisizioni sulle persone trovate per strada di notte: “attastare” era detta l’operazione, alla quale i fermati si sottoponevano tanto meno volentieri quanto più sapevano di essere in difetto. Al fermo seguiva la traduzione nel carcere in Palazzo e il rilascio contro pagamento di una multa di 300 scudi per l’arma da fuoco e 200 per l’arma da taglio: somme corrispondenti all’epoca rispettivamente a circa 1200 e 800 lire genovine, dunque piuttosto rilevanti[125]. Ma la frequenza dei disordini avendo sollecitato un inasprimento delle pene, nel 1587 il figlio di Giambattista Spinola Valenza, ricchissimo finanziere e influente politico[126], paga il porto di una piccola pistola con la pena più dura che il governo abbia deliberato: dieci anni di relegazione in Sardegna[127]. Va notato che l’operazione della perquisizione, che inizia con l’identificazione del fermato mediante avvicinamento di una lanterna al volto, è un momento critico perché sollecita la reazione del nobile offeso nell’onore dal comportamento ritenuto sconveniente e sprezzante del bargello[128]. Di lì gli incidenti immediati, oppure le rappresaglie attuate in un secondo momento con attentati notturni a birri e bargelli, a loro volta spesso disinvolti nell’interpretare il proprio ruolo[129]. Il ferimento Un episodio del luglio 1585, l’agguato a due birri del Magistrato delle pompe, feriti a coltellate, viene riferito dal diarista con malcelata approvazione, “l’insolenza di questi birri di Pompe havendo trapassato l’ordine per il comportarsi”[130]. Pallavicino riporta notizia di uccisioni accidentali di persone fuggite davanti al bargello (ma nessuna è nobile) e viceversa di birri e bargelli feriti o uccisi (e in questo caso si trovano segnalate le responsabilità dei patrizi).
Non manca un delitto d’onore dai colori scespiriani: Cattaneo Vivaldi sorprende la moglie in villa in flagranza di tradimento; non la uccide subito ma l’indomani, su incitamento di un amico che lo sfida a lavare un’onta divenuta pubblica e alla presenza di otto compagni, quattro dei quali partecipano con lui all’assassinio della donna mediante 35 pugnalate[131]. Quattro anni dopo ritroviamo Vivaldi, in esilio in Spagna, vittima a sua volta di un’aggressione da parte di altri due genovesi espatriati: e di nuovo per una donna, condivisa a sua insaputa con i due compatrioti. (Ma sia lecito dubitare che sia morto per aver voluto troppo presto “far disordini con questa donna”; una diagnosi più sofisticata suggerirebbe piuttosto di attribuire il decesso alle conseguenze di una commozione cerebrale, essendo stato Vivaldi ferito alla testa)[132].
La sola vicenda confrontabile a quelle dei gentiluomini banditi di altre realtà di antico regime ricordata da Pallavicino vede protagonisti Nicolò Salvago e Aurelio Cattaneo, e si snoda per due anni, dal 1583 al 1585, pur essendo stata originata da una precedente questione di donne che aveva opposto il Salvago al cavaliere Clavesana, patrizio genovese di famiglia feudale. Condannato alla pena capitale per duello, Salvago evade dalle carceri nel giugno 1583 e comincia a compiere scorrerie nelle podesterie vicine a Genova: comportamento anomalo, dal momento che invece di mettersi al sicuro all’estero resta a portata delle forze di polizia della Repubblica. Nel settembre dello stesso anno entra in una chiesa di Sampierdarena (allora la principale località di villeggiatura lungo la costa a ponente della città) con sei complici armati per uccidere Francesco Lercaro, ma abbandona l’intento. Un mese dopo viene di nuovo avvistato a Sampierdarena e quasi catturato: ma una volta appresa la sua identità i cittadini si scusano e “gli chiederno gratia non lo volessi haver per male”. La sua vicenda si conclude tragicamente tra l’estate e l’autunno del 1585. Cerca di sequestrare un gruppo di patrizi in villa ad Albaro (allora una delle più amene località di villeggiatura e di campagna a oriente della città), e si dà alla montagna con quattro prigionieri, che però non riescono a camminare e vengono liberati. Braccato dalle forze spedite in fretta e furia dal governo, passa la frontiera e si aggira per i feudi del Monferrato, finendo catturato dagli uomini dei Doria di Montaldeo; incarcerato ad Alessandria, viene subito estradato a Genova. Sottoposto a tortura non rivela il nome di alcun complice (un patrizio arrestato come sospetto di avergli fatto da informatore in città dev’essere pertanto rilasciato) e muore coraggiosamente sul patibolo assieme al giovane compagno di avventura e sventura Aurelio Cattaneo[133].
Un altro protagonista dei disordini cittadini, Cosmo Gentile, è menzionato ripetutamente da Pallavicino: arrestato per porto d’arme proibita, coinvolto in una rissa nata per una volta non da rivalità private ma da una discussione su questioni di politica internazionale (le “cose di Portigalo”), forse mandante e forse autore dell’omicidio di Giovanni Fieschi nel 1584, cinque anni dopo uccide in duello a Milano un cavaliere di Malta che è per sua disgrazia figlio del governatore, duca di Terranova. Rifugiatosi in chiesa, ne viene tratto fuori senza troppi riguardi ed è consegnato alla mannaia del boia nel giro di due settimane[134].
I duelli occupano uno spazio apparentemente secondario nel comportamento patrizio[135]. Sono ovviamente proibiti, ma avvengono, anche se risultano poco corrispondenti ai canoni della scienza cavalleresca. Nel dicembre 1583 Camillo Salvago e Aurelio Crespo danno seguito a una lite per questioni di gioco affrontandosi in Strada Nuova sotto la pioggia sino a essere separati dall’inquilino di uno dei fastosi palazzi vicini, Giulio Spinola: ma a colpire Pallavicino è la circostanza che le condizioni atmosferiche rischiano di far passare inosservato lo scontro, in modo che nessuno si fa subito avanti a separare i contendenti[136]. L’anno dopo Cattaneo Vivaldo (sempre lui!) e Niccolò Doria si sfidano a “spada e capa” dopo una lite scoppiata nel corso di un banchetto in casa Pallavicino; ma la sfida è prevenuta da un intervento del principe di Piombino (protagonista a sua volta di numerosi episodi di violenza di strada, e protettore di bravi), che convince il doge a far mettere i contendenti agli arresti domiciliari in attesa della pace[137]. Nel maggio 1585 Gio. Geronimo Doria, dopo un litigio con Antoniotto Centurione e una serie di smentite, va sotto casa del contendente e lo sfida a combattere: ma questi non risponde e non scende a duellare[138]. Nell’agosto 1585 Camillo e Ottavio Salvago si battono in un altro dei luoghi canonici della socialità nobiliare, ma riserva della nobiltà “vecchia” alla quale infatti appartengono entrambi, la piazza di San Siro. Si dividono senza spargimento di sangue, ma vengono denunciati e ricercati dalla Rota[139]. Sfida evitata anche quella tra Gian Francesco Grimaldi Ceva e il marchese di Edifici nel giugno 1587[140]. Nell’agosto 1589 invece il duello ha luogo davvero tra Vincenzo Doria e Giuliano Di Negro, in lite per questione di denaro. Doria, schiaffeggiato, si presenta alla porta del Di Negro “per farli conoscere con una spada e cappa, ch’era Cavagliere e Gentilomo” e duellano alla spada. Pallavicino commenta: “si tirorno molti colpi, ma essendo ambi armati niuno hebbe male, dicesi sia cosa fatta a posta, ma perché a far duello vi sono pene grandi, hanno pigliato questi termine per schiffare ogni fastidio, han di subito fatto pace”[141]. Un duello simulato, insomma, per soddisfare il codice d’onore e schivare i rigori della legge nello stesso tempo. Il mese seguente ha luogo il duello più anomalo: i fratelli Carbonara (nobili “nuovi” e di non grande rilievo) si sfidano sul ponte sul Bisagno e si feriscono: il duello attira l’attenzione del diarista soprattutto per il suo connotato fratricida, ma se ebbe conseguenze Pallavicino non mostra di interessarsene[142].
Il quadro che esce dal diario di Giulio Pallavicino è pertanto quello di una violenza nobiliare controllata dal governo in maniera piuttosto blanda e soprattutto discontinua. La risoluzione dei conflitti resta affidata in larga misura alla composizione privata delle paci e degli accordi extragiudiziali. I nomi dei mandanti degli omicidi su commissione sono sussurrati e noti a tutti. La lama della giustizia colpisce i casi estremi come quello di Nicolò Salvago: e anche in questa circostanza sia l’atteggiamento del Pallavicino sia ancor più il commento di un personaggio dai connotati sociali assai lontani dai magnifici malfattori di antico blasone come Antonio Roccatagliata, nobile ‘nuovo’, ex notaio, cancelliere del Senato e annalista ufficiale della Repubblica, lasciano sospettare da parte del governo un rigore eccessivo e non proporzionato all’effettiva gravità e straordinarietà dei reati commessi[143]. Più spesso però la fuga e l’autoesilio mettono al riparo dalle conseguenze di azioni anche efferate.
L’apparato di giustizia si presenta difettoso: le evasioni dalle carceri non sono rare, complici la corruttibilità dei guardiani e il denaro dei parenti dei prigionieri. Ma evadono con facilità anche personaggi ambigui come il bandito Pantalino Massa, che con la fuga si sottrae in extremis all’esecuzione, diventa poi collaboratore di giustizia permettendo al commissario contro i banditi di tendere un’imboscata a una banda di 40 uomini, salvo compiere subito dopo un efferato massacro che Pallavicino riferisce senza troppa indignazione, forse perché ha luogo fuori dei confini della Repubblica, in quei feudi imperiali nei quali le faide assumono spesso il carattere di guerriglie annose e sanguinose[144].
- Il diario degli anni 1600-1610 reca, per le ragioni che si sono segnalate, pochissime informazioni sulla violenza nobiliare, benché non manchi la notizia di alcuni omicidi, verosimilmente i più clamorosi. Così ad esempio si annota l’uccisione di Gio. Batta Grimaldi da parte di Agostino Centurione “per conto di gioco”[145]; l’assassinio ad archibugiate di Bernardo Senarega (il principale sospetto, Leonardo De Franchi, se la cava con due anni di esilio)[146]; la morte cercata di Leonardo Grillo, pugnalato dal marito di una donna che il giovane patrizio ha ripetutamente molestato con pesanti apprezzamenti, “credendola per donna da partito”[147]; la proditoria uccisione in chiesa di Domenico De Franchi Luxardo per mano di un nipote “per qualche dispareri tra loro”[148]. Viene da sospettare che se Pallavicino avesse dato a questo secondo diario lo stesso carattere del precedente la cronaca nera genovese ne sarebbe uscita altrettanto fitta di episodi. Accontentiamoci di ritenere che tra i due periodi in esame non si riscontri una significativa differenza nella qualità e nelle motivazioni della violenza nobiliare.
In compenso è proprio nel primo decennio del Seicento, per la precisione nel 1607, che il governo introduce la legge dei biglietti (“Bilietorum, seu relegandi per bilieta lex”) o “legge dell’ostracismo”, come venne presto definita: vale a dire un modo di punire al di fuori dei canali della Rota e sulla base del solo giudizio dell’opinione patrizia i personaggi turbolenti[149]. La legge mira a individuare e colpire chi “possi essere riputato d’animo meno riposato di quello che alla quiete publica et al viver civile si conviene”. Due anni di esilio in stati esteri indicati dagli stessi Collegi erano una misura per un verso assai più lieve di quanto non meritassero i comportamenti dei quali erano accusati, ma senza prove certe, i personaggi denunciati; per un altro verso si trattava comunque una sanzione immediatamente efficace, che metteva fuori gioco persone sgradite. Ma va avvertito che solo alcuni dei menzionati venivano messi ai voti: occorreva aver ricevuto almeno quattro nomine. Inoltre non necessariamente chi era posto sotto i voti veniva poi condannato all’esilio da un voto dei due terzi del Consiglietto: al contrario, solo una minoranza dei designati veniva effettivamente sanzionata. La scelta della località d’esilio era a sua volta oggetto di patteggiamenti più o meno coperti: non era insolita la richiesta, da parte del condannato, di commutare la destinazione prevista con un’altra nella quale potesse, ad esempio, curare i propri interessi. Dopo un anno, infine, l’esiliato poteva chiedere la grazia di metà della pena: e la domanda trovava spesso orecchie (e voti) favorevoli. Da Andrea Spinola, severo censore delle intemperanze giovanili nobiliari, apprendiamo alcuni dettagli ulteriori sull’applicazione pratica della legge: e si tratta di notazioni stese negli anni ‘10 e nei primi anni ‘20, dunque nel periodo di prima applicazione della legge[150]. Chi disponeva di parentele influenti in Consiglietto correva meno rischi. E non era raro che i parenti di più personaggi in pericolo di condanna formassero un cartello per salvarli tutti, con uno scambio reciproco di voti negativi. Chi non voleva passare per intransigente delatore, magari perché prevedeva di dover chiedere a sua volta voti per essere eletto a qualche carica, consegnava il proprio biglietto ostentatamente aperto e bianco[151].
Tutto questo premesso, l’analisi del primo gruppo di condannati ai sensi della legge dell’ostracismo condotta da Rodolfo Savelli mostra la presenza di personaggi di qualche peso, ma in un certo senso marginali. Il caso più clamoroso è quello di Claudio De Marini, ricco ma marginale e sospetto per molti riguardi: illegittimo, ostentatamente filofrancese anche nell’abbigliamento e nel taglio della barba, e per giunta incline a tessere trame politiche[152].
Appena a ridosso del periodo coperto dal diario del Pallavicino viene promulgata un’altra legge intesa a fronteggiare il disordine urbano, quella della “Pubblica voce e fama” (“Publicae vocis et famae lex”), che consente di arrestare e far perseguire dalla Rota criminale chi, senza prove ma sulla base dell’opinione corrente, di fatto quella prevalente nell’élite di governo cittadina, è incolpato di un delitto attraverso denunce anonime. La legge non riguarda per altro soltanto i reati di sangue e i comportamenti violenti, perché anche la frode alla gabelle sarà inclusa nei capi di imputazione denunciabili e perseguibili per questa strada[153].
La genesi della legge dei biglietti è già stata illustrata da Rodolfo Savelli. Il disordine e la violenza che caratterizzano il comportamento nobiliare, soprattutto quello giovanile, si trovano segnalati e stigmatizzati in tutte le fonti narrative dell’epoca, dai citati Annali di Antonio Roccatagliata agli scritti di Andrea Spinola. E non è difficile mettere in collegamento la percezione del diffondersi di una serie di pratiche che gli osservatori pretendono inedite con i mutamenti culturali in corso nella casa patrizia. La gioventù nobile è “otiosa” e dedita ai divertimenti perché il costume nobiliare si è andato trasformando sull’onda dell’arricchimento del patriziato e dell’adozione di modelli culturali lontani da quelli del patrizio-mercante tradizionale, in presenza per giunta di un certo allentamento del potere del capofamiglia sui figli e sulle mogli. Il fenomeno è per certi aspetti reale, anche se vorremmo conoscerne più precisamente i contorni. La sua presentazione in chiave critica e moralistica da parte dei commentatori è anch’essa innegabile: ma notiamo che mentre Pallavicino registra impassibilmente i fatti di cronaca (dei quali è del resto, come si è detto, talvolta un protagonista e talvolta un osservatore compiaciuto: trasparente risulta, ad esempio, il giudizio di venialità portato sulle prevaricazioni inflitte ai non nobili), in Roccatagliata e nello Spinola non manca la laudatio temporis acti: un tempo di padri oculati, figli obbedienti e alieni dal tavolo da gioco e dalle risse, donne modeste, pudiche e senza pretese. In realtà non sappiamo molto di quel prima, vale a dire delle forme e dei livelli di violenza della Genova quattrocentesca e primocinquecentesca. E’ possibile che una violenza allora incanalata nella lotta aperta tra le fazioni si sia circoscritta in seguito alle pratiche di socialità e ai comportamenti quotidiani all’interno del ceto patrizio e tra questo e i ceti popolari, proprio perché era venuta a mancare ogni motivazione e dimensione militante e scopertamente faziosa.
La riflessione sulle manifestazioni del disordine si intreccia con la proposta di modelli giudiziari nuovi, vuoi da ricercare nella tradizione locale (il dibattito verte soprattutto sull’opportunità di mantenere una Rota criminale di giudici forestieri come era stata introdotta con le Leggi nuove del 1576, oppure di tornare ad attribuire l’azione penale a tribunali di cittadini, patrizi s’intende) vuoi da individuare in un modello estero di successo: il riferimento più frequente è a Venezia e al Consiglio dei Dieci, citato verosimilmente non del tutto a proposito. Ma il precedente più simile e più noto della legge dei biglietti è la legge lucchese del discolato (1482), che poteva esser nota sia per conoscenza delle fonti normative lucchesi sia attraverso la lettura di alcuni riferimenti ad essa nell’opera di Machiavelli. Rinvio allo studio di Savelli per l’analisi di questi dibattiti di fine ‘500. Dai quali scaturiva la consapevolezza di dover disciplinare le turbolenze dei membri del ceto di governo, specie giovani, e dei loro bravi o “scavizzi” (quetso il sinonimo di bravo usato spesso a Genova), quindi di bande armate di ambito urbano; e nel contempo di supplire ai difetti inerenti alla ordinaria procedura penale: la Rota non poteva non pubblicare i nomi degli accusati e dei testimoni; e questo già bastava a rendere l’azione del tribunale ordinario poco incisiva, anche a non voler menzionare l’inevitabile sudditanza psicologica dei giudici nei confronti di personaggi influenti della città, gli stessi talvolta ai quali si era chiesta o si sarebbe chiesta una raccomandazione per avere il posto a Genova o per ottenere buone referenze per la successiva tappa della carriera. L’introduzione della legge del 1607, dopo una fase preparatoria piuttosto lunga, fu repentina e radicale: in quell’anno venne attuato un vero e proprio giro di vite, con l’esilio di alcune decine di persone, sia in applicazione della legge sia per provvedimento diretto dei Collegi.
Anche se la legge non limita la segnalazione dei colpevoli ai patrizi, sta di fatto che proprio questi, dalla prima applicazione del provvedimento in poi, costituiscono la stragrande maggioranza delle persone nominate e condannate all’esilio. Spinola, nel discutere l’efficacia dell’applicazione della legge, implicitamente la riferisce alla soluzione del problema della violenza nobiliare.
Savelli ha calcolato che dal 1607 al 1623, nel primo periodo di applicazione della legge (che nel 1624 non venne rinnovata; ma lo fu di nuovo in seguito), vengono comminate 65 relegazioni a 55 persone, dal momento che 6 furono relegate due volte e 2 tre volte. Dei 55 relegati solo 2 non sono nobili. E un’analisi del livello di ricchezza dei personaggi in questione mostra che si tratta prevalentemente di nobili “vecchi” e delle famiglie più ricche della città. Il campione (6 nobili e un non nobile) per il quale sempre Savelli ha tentato una storia giudiziaria mostra che tutti i relegati hanno già conti aperti con la giustizia, e qualche volta si trovano già in carcere al momento della condanna all’esilio. Né la relegazione pone fine alla loro carriera criminale. La relegazione sarebbe, secondo Savelli, un contrassegno di riprovazione sociale assai più marcato ed efficace che non la permanenza nel carcere, dal quale spesso l’accusato esce per mancanza di prove o perché la Rota viene opportunamente influenzata.
- Spostiamo ora l’attenzione a una fase successiva, il ventennio abbondante che va dal 1624 al 1647, letta attraverso un’altra fonte cronachistica. Le Memorie di Genova del benedettino Agostino Schiaffino riflettono un punto di vista esterno non solo al ceto patrizio, ma sotto un certo aspetto alla stessa metropoli: il cronista vive infatti a Pegli, un borgo della vicina riviera di ponente, ma luogo di insediamento di importanti famiglie patrizie, come i Lomellini e i Doria. Lo spettro delle informazioni fornite da Schiaffino è molto ampio, più di quello offerto dal più antico dei due diari del Pallavicino, e spazia dagli eventi politici alle curiosità locali alla cronaca nera; proprio per questo, e per la situazione sociale e abitativa del cronista, non possiamo attenderci un resoconto giorno per giorno della vita socialità nobiliare.
Gli episodi di criminalità nobiliare censiti sono meno di una trentina distribuiti su oltre vent’anni: ma va avvertito che dal 1625 al 1629/30 l’attenzione del cronista è attratta soprattutto dalle vicende della guerra contro il duca di Savoia e dalle sue conseguenze. La tipologia dei fatti di cronaca non è però molto diversa: risse e aggressioni, omicidi a sangue caldo, omicidi su commissione, duelli, sequestri di persona e carcerazioni private; ma Schiaffino menziona anche furti (un’organizzazione di ladri comprendente “qualche nobili”, viene sgominata nel novembre 1637, e un falso nobile, Rodrigo Passaggi, debitamente giustiziato[154]) e falsi monetieri: Agostino Calvo nel 1624[155], Franceschetto Cattaneo, Raffaele Vernazza e Gio. Batta Pallavicino nel 1647[156].
Il caso più clamoroso è forse quello della faida tra Tomaso Raggio e Felice Pallavicino, signore di Cabella. A fine maggio 1640 Raggio, senatore in carica, si allontana senza autorizzazione da Genova e si rifugia a Roma, colpito da bando per aver fatto incarcerare privatamente e torturare a morte un certo Caprile al quale voleva estorcere la confessione di essere un sicario di Felice Pallavicino. A sua volta questi, nel feudo di Cabella, dove vive circondato dai suoi bravi (due anni prima ha crivellato di pugnalate un segretario del Senato[157]), scopre un tentativo di avvelenamento organizzato ai suoi danni da Raggio. Qualche tempo dopo i due si sfidano a duello con un cartello affisso in piazza Banchi. Ma nell’aprile 1642 fanno la pace con la mediazione del cardinale Borghese. L’aspetto sconcertante della vicenda è la mescolanza di efferatezza e notorietà dei crimini, e la sostanziale impunità dei responsabili. Ma si comprende: Pallavicino è un personaggio ricco e influente; Raggio è un politico di primo piano, fratello per giunta di un cardinale molto potente in Curia, attivamente impegnato nell’organizzare l’esercito pontificio per la guerra di Castro[158].
Lo stesso anno Napoleone Spinola, altro personaggio ricco e potente, sequestra il suo debitore Giambattista Spinola, il quale cerca di resistere e viene ferito mortalmente[159]. L’episodio esemplifica un tipo di violenza, il sequestro di persona e il carcere privato, non necessariamente sanguinosa, ricorrente nei rapporti tra patrizi e tra questi e personaggi del mondo popolare. Il diario di Giulio Pallavicino riporta alcuni casi del genere[160]. E ricordiamo che Nicolò Salvago aveva cercato, nella sua ultima scorreria, di prendere degli ostaggi. Schiaffino riporta alcuni episodi clamorosi di questo genere: nel 1626 sono due Invrea a catturare in chiesa Geronimo Sauli “trafligato da debiti” e a farlo portare “in luogo di montagna ove si morì miseramente”[161]. L’anno dopo Francesco Serra è sequestrato da Gio. Stefano Doria (che passa per essere uno degli uomini più ricchi d’Italia e sarà doge nel 1634-1636) e dai suoi parenti, provocando l’intervento al soccorso del prigioniero di Gian Francesco Serra marchese di Strevi, stimato condottiero al servizio del re Cattolico e a sua volta personaggio doviziosissimo[162]. Qualche anno dopo, nel 1635, una “contesa di zenda” porta Francesco Della Torre a ferire mortalmente Pantaleo Monsa (invano rifugiatosi in chiesa per sfuggire ai creditori)[163]; ed è ancora “interesse di zenda” a spingere Gio. Batta Baldi ad assassinare nel cuore della città, a piazza Banchi, Andrea Lomellini che ha appena dismesso la toga senatoria. All’omicida non vale cercare scampo in chiesa, dove viene raggiunto e abbattuto dagli inseguitori[164].
Dai non molti fatti riportati da Schiaffino resta in ogni caso ribadito che la criminalità patrizia è un fatto dell’élite, non della plebe nobiliare. Si può pensare che, per un verso, le notizia che riguardavano i patrizi più noti e potenti giungessero più facilmente a Schiaffino e attirassero maggiormente l’attenzione; e che, per un altro verso, la criminalità piccolo-nobiliare fosse assai più banale e oscura: malversazioni nel corso dei comandi civili o militari nel dominio e in Corsica oppure delle galee della flotta pubblica; coinvolgimento nella gestione di locande di dubbia reputazione. Inoltre quasi tutti i personaggi citati appartengono alla nobiltà “vecchia”: e su questo torneremo tra poco. Non si tratta invece sempre di ‘giovani’, né in senso anagrafico né in senso socio-culturale: vale a dire maschi non coniugati. Il caso di Raggio e Pallavicino non è anomalo: si tratta di personaggi ultraquarantenni; ma tali sono anche i patrizi duellanti o sequestratori di creditori.
- Cerchiamo un riscontro alle impressioni ricavate dalle fonti memorialistiche nelle fonti documentarie. Gli elenchi di personaggi nominati in occasione della mensile applicazione della legge dei biglietti negli anni 1643-1655 contengono una maggioranza di nobili “vecchi”[165]. Gli elenchi recano nota dei motivi per i quali i personaggi sono stati nominati: “insolenza e mali termini” è il più frequente; ma si trovano “pistolle e aiutar furbi”, “protettori de tristi”, e la frode di gabelle. Notiamo che i non nobili scompaiono dagli elenchi, a meno che non si tratti di menzionare complici in delitti: di fatto chi interessa segnalare ed eventualmente sanzionare sono i membri del ceto di governo; per gli altri basta evidentemente la Rota criminale. Il quadro non è diverso per l’applicazione della legge della pubblica voce e fama, susseguente di norma a casi di omicidio o di aggressione grave. Anche in questo caso i nominati sono di regola patrizi, e per la maggior parte di nobiltà “vecchia”. Il connotato fazioso dei nominati è tuttavia meno marcato che nel periodo studiato da Savelli. Negli anni ‘40-’50 Raggio, Basadonne, Garbarino, Odone, Garibaldi, Durazzo, Brignole, Balbi (tutte casate “nuove”) vengono ripetutamente nominati. Va però osservato che si tratta di non molte persone, spesso reiteratamente candidate all’esilio ma regolarmente andate esenti dalla sanzione: tra queste un paio di futuri dogi, Giannettino Odone e Stefano Onorato Ferretto, il figlio del doge Luca Giustiniani, il nipote di un altro doge, Matteo Senarega, l’ex eroe di guerra del 1625 e plurisenatore Gio. Antonio Sauli. E poi l’inclusione del reato di frode alle gabelle scatena le segnalazioni invidiose, giustificate d’altronde dal fatto che il reato presuppone una rete di servitori e complici, e una capacità logistica non indifferente: si tratta di contrabbandare carichi voluminosi, di mobilitare facchini, mulattieri e marinai, e di disporre di nascondigli sicuri. Nel maggio 1646 gli stessi Protettori di San Giorgio prendono atto che Gio. Antonio Sauli è accusato di contrabbandare vino, Gian Giacomo Grimaldi olio, Carlo Centurione riso, Alessandro Gentile sete[166]. Tre anni più tardi, in piena crisi di sussistenza, sono denunciati come speculatori sul grano Francesco Maria Balbi, suo cognato Airolo e parecchi altri[167]. Ma in entrambe le occasioni i chiamati in causa esibiscono giustificazioni che suonano poco plausibili (i contrabbandi sarebbero opera di lettighieri e mulattieri all’insaputa dei magnifici!) ma bastano a convincere i consorti. I procedimenti restano senza seguito.
- Non si può non toccare il tema delle forze di polizia impegnate nella repressione della criminalità nobiliare. Le leggi dei biglietti e della pubblica voce e fama permettono di aggirare la procedure ordinaria e si basano sulla delazione. Ma i fatti di cronaca nera che si svolgono sul terreno vedono spesso come comprimari i bargelli (che sono uno per quartiere) e i birri. Della polizia della Repubblica conosciamo davvero poco: nemmeno le dimensioni degli organici e la dinamica dell’organizzazione. Devono essere esistite delle dinastie di professionisti dell’ordine pubblico: troviamo un Genesio Noceto bargello a fine Cinquecento e un omonimo bargello verso metà Settecento[168]: un caso? Ma le omonimie suggeriscono anche scambi di ruolo più sorprendenti. Abbiamo menzionato il feroce bandito Pantalino Massa, all’opera negli anni ‘80 del Cinquecento. Circa sessant’anni dopo un Pantalino Massa è bargello: per altro vittima di un attentato commesso, vogliono la pubblica voce e fama, da un gruppo di patrizi[169]. Eppure, bargelli e birri fanno da cuscinetto tra il ceto dirigente patrizio che reclama ordine in città e contenimento della violenza giovanile (e non solo) e i protagonisti del disordine e della violenza, patrizi anch’essi, spesso, come abbiamo visto, rampolli del ceto di governo e futuri governanti, e in quanto tali controllori dell’apparato poliziesco. La resistenza alla perquisizione è un topico ricorrente: i giovani nobili, talvolta minori di diciotto anni (e per questo immediatamente liberati se tradotti in Palazzo), lamentano sovente di essere “attastati” con insolenza, da bargelli arroganti e occasionalmente ubriachi[170]. Non mancano mai i testimoni a discarico, cioè altri patrizi solidali col fermato. Il governo punisce gli eccessi delle forze dell’ordine: l’uccisione accidentale di alcuni marinai incolpevoli provoca il momentaneo arresto del bargello Orso, nel 1583[171]. Ma Orso riprende ben presto a mantenere legge e ordine nelle strade di Genova. Salvo essere nuovamente arrestato, due anni dopo, assieme a tre altri bargelli per ragioni che Pallavicino non chiarisce[172]. Peggio va, negli stessi anni, a un birro reo di un omicidio e dell’evirazione del marito di una donna con la quale intrattiene rapporti: lascia la testa sul patibolo[173]. Per contro, nel 1655 Gio. Giacomo Brignole, parentela dogale e famiglia doviziosa, convinto dell’omicidio di un bargello, compra la pace dai parenti della vittima, ottiene la grazia dal Senato e torna liberamente in città[174]. Ma i documenti segnalano, almeno per gli anni ‘40-’50, un rapporto tra nobili delinquenti e apparato di polizia un rapporto più complesso e ambiguo della semplice contrapposizione. A più riprese viene denunciata la complicità di alcuni bargelli, se non di tutti in generale, con patrizi detentori di armi proibite. Il circuito è questo: il patrizio paga il bargello perché lasci immune da perquisizioni lui e il suo seguito; poi lo stesso patrizio fa pagare a plebei che lo accompagnano, o anche a terzi che gliene facciano richiesta, la copertura presso le forze dell’ordine: così Lorenzo Cattaneo nel 1646[175]; così un gruppo di magnifici (Barnaba Centurione, Paolo Basadonne, un Adorno e un Garbarino) nel 1648[176]. A riprova, ma dal versante opposto, nel luglio 1654 quattro bargelli e un luogotenente si rifugiano all’improvviso in luogo sacro per scampare all’arresto; poi due di loro prendono l’impunità e denunciano un giro di tangenti e di protezioni che chiama in causa anche dei nobili[177]. Un anonimo, scrivendo nel 1649, all’indomani per l’appunto dell’attentato a un bargello[178], ripercorre i precedenti, tracciando una sorta di sommario della criminalità nobiliare fra Cinque e Seicento. E’ un documento che val la pena di leggere per esteso. “S[ignori] Ser[enissi]mi, E gran cosa veramente che non si trovi rimedio alla guerra civile fra la nobilta giovane et i birri; al certo è male molto invechiato. Mi racordo sin dal tempo di Ferisino, et l’Orso bargelli che ci era questo disordine, e fu fatta la cansone va in Gallera Ferisin, che Giromo de Marin etc. pare che dica burla ma ha senso. Voglio dire che si doverebbe procurare rimedio a questo disordine tanto antico e che tuttavia cresce. In quel tempo pochi portavano armi, vi erano certi caporioni come Orrigo Salvago, Giulio Spinola, li Nantes Raffael Garba[rino] ottimo cittadino Gio. Filippo Raggio, et simili, che si prevalevano, ma che? di portare spada manopola giacchi et simili; poi si è andato introducendo con l’essempio delli m[agnifi]ci Gio. Antonio Sp[ino]la, Ottavio Saluzzo Claudio Marini, la felice memoria di Gio. Batta Airolo che divento buono, et di altri licentia maggiore et hora non vi è alcuno che non voglia portare armi. Questa aversione alli birri si porta dal latte delle madri, e l’abuso introdotto non è possibile levare a fatto. Che conviene donque? lasciar correre il disordine? non certo. Io loderei S[ignori] Ser[enissi]mi mitigare quel male che non si può estirpare. La forma direi che fosse far elett[ion]e de bargelli, di persone di piu portata che birri semplici che ben spesso arrivano al Grado con qualche presenti che fanno alli ser[vito]ri di V[ostre] S[ignorie] Ser[enissi]me, che non s’inghetesse [?] tanto da S[igno]ri di casa o altro ad inquirire pugnaletti; Che finalm[en]te da che la gioventù porti simili arma, non ne puo venire tanto male, come forsi altri crede. Che si procurassi che la nobilta non fosse strapassata da bargelli et forsi che il permettere la licenza mediante un tanto pagam[en]to non sarebbe desacertato. Conosco che vi sono molte considerat[io]ne in contrario. Ma si potrebbe provare per qualche tempo: si potrebbe escludere da detta licenza li licentiosi di cattura netta [?] sicarij e simile, con che chi vuol licenza andasse sotto aprovatt[io]ne, o in altra forma che paresse piu acertata mentre fusse stimato bene aplicare l’animo al concetto che forse non è del tutto spresabile massime se fusse ripollito, ch’io lo dico cosi di grosso. In somma S[igno]ri S[erenissi]mi qualche rimedio ci vuole perche la giustitia avillita puo aportare danno estremi; il perseguitare di continuo la gioventu per pugnaletti, o altre cose frivole non è di uttile; l’aversione al birro per detta causa e Generale di S. Pietro, di S. Paolo, et di tutti i santi. Nelle altre città forsi perche non vi e simili occasione non e tal peste. Dio inspiri V[ostre] S[ignorie] Ser[enissi]me al rimedio oportuno secondo il bisogno”[179].
L’anonimo cede alla tentazione di contrapporre un passato più pacifico a un presente sempre più turbolento: il diario di Giulio Pallavicino lo smentisce. La forza dell’argomentazione sta nel collegare a una classe di età la turbolenza cittadina: si tratterebbe di un fenomeno giovanile; e questo sembra confermato dalla cronaca degli anni ‘80 del Cinquecento, ma assai meno da quella degli anni ‘30-’40 del Seicento. Un altro anonimo che interviene sullo stesso episodio insiste piuttosto sull’intento sopraffattorio di “alcuni della nobilta che inquietano li altri, quali ogn’uno li conosce, volendo star sopra il compagno”; ma aggiunge all’elenco delle categorie da tenere sotto osservazione i capitani degli scelti (cioè delle milizie: plebei dunque, ma con porto d’armi) e alcuni ecclesiastici di mera convenienza. Il rimedio secondo questo secondo anonimo stava nell’esiliare i nobili con i biglietti, nell’allontanare i preti indegni, e nel disarmare i capitani degli scelti[180]. La pars construens dell’altro breve scritto che abbiamo citato punta invece a migliorare la qualità delle forze dell’ordine e nel contempo a depenalizzare il reato più diffuso e più facilmente occasione di scontro. Una relazione degli Inquisitori di Stato di un paio d’anni più tardi puntò anch’essa a riformare il personale di polizia: ma nel senso di arruolare 25 birri forestieri, romani per l’esattezza, e arruolare una dozzina di spie (3 per quartiere) da porre agli ordini degli Inuqisitori di Stato; tra le altre proposte la costruzione di un carcere apposito, la modifica della legge sulla pubblica voce e fama e dello statuto “De premio occidentis rebellem”, nel senso di rendere più difficili le remissioni di pena, un maggior controllo dell’osservanza della relegazione in Corsica. Anche in quel caso si propose di inasprire la pena, cambiando il bando biennale con un periodo di carcere[181]. Proposte cadute nel vuoto. La legge dei biglietti restò in vigore così com’era.
- L’ultimo caso clamoroso, ricordato persino negli annali di Filippo Casoni, fu la decapitazione, nel 1651, di Gio. Francesco Cattaneo e Nicolò Adorno, rei di omicidio, ma vittime, secondo un polemista coevo a sua volta implicato in un complicato caso di pirateria voltato in cospirazione politica, Gaspare Squarciafico, di una vendetta politica. Non che fosse innocente dei reati imputatigli: semplicemente non meritava la morte. Cattaneo era stato ripetutamente nominato nei biglietti di ‘pubblica voce e fama’ a proposito di casi di cronaca nera degli anni precedenti e candidato all’esilio in base alla legge dei biglietti[182]. E’ l’ultimo caso clamoroso di patrizio assassino giustiziato, come Nicolò Salvago settant’anni prima, in compagnia di un complice dal profilo nettamente meno rilevante.
Per un confronto, facciamo un salto nel tempo, sino alla fine dell’antico regime. Nel 1792 il parricida per interesse Stefano Durazzo (un omicidio premeditato, con il disegno di indirizzare i sospetti su un servitore e il tentativo in extremis di attribuire un movente alla giovane matrigna) finirà all’ergastolo in Torre[183]. L’esecuzione di Cattaneo, nel precede di pochi anni la famosa peste del 1656/1657, che sotto molti aspetti rappresenta uno spartiacque nella vita genovese. Cambia faccia dopo di allora la criminalità patrizia? Nel 1750 Gio. Francesco Doria sottolinea in un suo trattato per l’educazione della gioventù nobile l’equivalenza tra patrizio povero e patrizio malfattore: ozioso, scorridore di locande, immischiato con donne di malaffare, corrotto[184]. Come dire che il comportamento eventualmente criminale e generalmente riprovevole dei patrizi ha cessato di essere un connotato di gruppo di età per diventare un connotato di strato sociale. Un rapido esame dei biglietti anonimi che denunciano i comportamenti devianti sembrerebbe confermarlo[185]. Ma tempi e modi di questa trasformazione, che non può ovviamente essere stabilita su una base così impressionistica, e che suggerirebbero il combinarsi degli effetti della forte mortalità patrizia in tempo di peste (quasi 300 maschi) con l’affermarsi di nuovi modelli culturali, sono tutti da ricostruire.
Il governo genovese e Savona nell’età di Chiabrera.
appunti di ricerca[186]
- Uno dei problemi fondamentali della storia politica della Repubblica di Genova è quello della costruzione dello stato territoriale e del rapporto tra l’oligarchia metropolitana e i patriziati rivieraschi[187]. Savona era stata a lungo per Genova una rivale effettiva o potenziale. La nascita della Repubblica di Genova nel 1528 era stata precipitata, com’è noto, anche dal timore che i francesi giocassero sulla rivalità tra i due centri liguri, utilizzando e rafforzando strumentalmente Savona in funzione antigenovese. Fra le prime conseguenze del cambiamento istituzionale e di schieramento internazionale di Genova, nel 1528, fu perciò la punizione di Savona, occupata militarmente e privata del suo porto, che venne interrato[188], e successivamente munita di nuove fortificazioni. Savona sottomessa rimase comunque un motivo di preoccupazione per il governo genovese: la sicurezza della città da attacchi esterni o da sollevazioni interne fu l’obiettivo di misure difensive ripetutamente discusse e modificate. Savona, ammonivano le istruzioni date dal governo ai comandanti delle sue fortezze era “l’occhio dritto della Repubblica nostra”[189]. Al tempo stesso, la classe dirigente savonese, della quale Chiabrera era rappresentante, fu con successo integrata, in subordine, nella Repubblica. Ma il successo genovese, che del resto si accompagnava all’effettiva perdita di peso della città rivierasca, né eliminò l’inquietudine del governo, né impedì la tendenziale estraniazione dell’élite savonese, testimoniata per certi versi proprio dalla parabola biografica del poeta.
- A tracciare alcune semplici coordinate cronologiche che prendano come punto di riferimento la scena genovese, Chiabrera risulta anagraficamente fratello maggiore di alcuni tra i più noti e importanti intellettuali-politici genovesi di fine ‘500-primo ‘600, Andrea Spinola e Ansaldo Cebà, dei quali fu nel contempo più anziano, rispettivamente, di dieci e tredici anni, essendo nato nel 1552, e più longevo, essendo morto nel 1638, quando Spinola era nella tomba da sette anni e Cebà da sedici[190]. La sua parabola biografica rassomigliò a quella di un altro patrizio intellettuale: Giulio Pallavicino, nato presumibilmente nel 1558 e morto nel 1635[191]. Anagraficamente all’avanguardia della pattuglia di protagonisti della vita culturale genovese di fine ‘500 e di primo ‘600, Chiabrera era già adulto al momento della cesura politica fondamentale della Genova moderna, la guerra civile del 1575 e il dibattito sulle Leges Novae del 1576[192]. Visse, d’altra parte, abbastanza a lungo da vedere non solo le guerre del Monferrato e quella del 1625 (conflitti che contrapponevano alcuni dei suoi protettori passati o presenti), ma addirittura il profilarsi della rottura tra la Repubblica di Genova e l’antico protettore spagnolo.
Il savonese Chiabrera si formò a Roma, dai nove ai ventitré anni, e nonostante la successiva, lunga permanenza nella città natale e i soggiorni genovesi ebbe come riferimenti culturali e come approdi mecenatizi Firenze, Torino, Mantova e Roma. Sicché da un lato era un patrizio savonese, legato da vincoli molteplici al ceto dirigente della sua città (parenti e ascedenti Fea, Murassana, Gavotti, Pavese; avversari Multedo) e in contatto con gli ambienti culturali genovesi; dall’altra era un letterato attirato dal patronato cortigiano, e di più patroni contemporaneamente. Il più illustre savonese di fine ‘500-inizio ‘600, e il più illustre letterato ligure dell’epoca, era insomma collegato piuttosto marginalmente ai problemi della città e dello stato nei quali viveva, se non proprio limitatamente alle più semplici questioni di interesse, tra eredità romane, compravendite e attività edilizie savonesi, calcoli di pensioni gonzaghesche, sabaude, medicee e cardinalizie. Nulla di eccezionale, per la verità, in questo. Anche a non ricordare la fortuna dei cardinali savonesi divenuti papi, e la diaspora savonese seguita alla sottomissione a Genova del 1528, la presenza romana dello zio era in linea con la tendenza, evidente nella seconda metà del ‘500, della finanza non soltanto genovese, ma più generalmente ligure, a inserirsi nei gangli della tesoreria e dell’amministrazione camerale pontificie[193]. Del resto, il soggiorno più o meno lungo in altre contrade (che per qualcuno diventava definitivo espatrio), era un tratto frequente nelle biografie dei patrizi genovesi. Fuori Genova venivano spesso compiuti gli studi superiori, dal momento che la città non si era dotata, né si dotò mai, di un vero “studio” universitario (tanto il collegio dei Gesuiti, quanto quelli professionali dei giureconsulti e dei medici, erano altra cosa da uno studio[194]); fuori Genova soggiornavano o si trasferivano spesso e volentieri mercanti e finanzieri.
- Nell’arco della vita di Chiabrera la Repubblica realizzò, nel 1576, l’assetto istituzionale che l’avrebbe retta nei due secoli successivi. Entro il primo decennio del Seicento il meccanismo politico fissato dalle Leges Novae, o Leggi di Casale, venne perfezionato, con la definizione dell’ordinamento giudiziario, la liquidazione dell’annosa questione delle arti meccaniche, il riassetto amministrativo del Dominio di Terraferma, realizzato quest’ultimo tra il 1606 e il 1609[195]. Anche se in seguito venne modificato il funzionamento di alcune istituzioni e nuove magistrature si aggiunsero a quelle esistenti a fine Cinquecento, nel complesso la ‘norma costituzionale’ genovese rimase stabile sino alla fine dell’Antico regime (il che non toglie che la ‘costituzione materiale’ della Repubblica subisse trasformazioni anche incisive[196]).
Proprio nel 1606 Savona, da sempre una delle principali sedi amministrative della Repubblica, venne elevata a governatorato. Ma se le leggi del 1576 avevano previsto nella Terraferma soltanto quattro sedi riservate a nobili genovesi (le podestarie di Savona, Chiavari, La Spezia e Sarzana), nel 1606-1609, in tre tappe, il Dominio fu riorganizzato su dieci uffici maggiori, aggiungendo ai quattro preesistenti i capitanati di Polcevera, Bisagno, Sestri, Rapallo, Recco e Novi[197]. Lasciando da parte le distinzioni terminologiche (il giusdicente di Savona era chiamato governatore, quello di Sarzana commissario e governatore, gli altri capitani), nella sostanza il patriziato metropolitano assumeva in misura maggiore e meglio articolata l’amministrazione del territorio, avviando una tendenza che venne accentuata nel corso del Sei-Settecento. Nel 1623 l’istituzione del Magistrato delle Comunità estese il controllo centrale alla finanza delle comunità locali, senza per altro espropriare i gruppi dirigenti periferici dei loro micropoteri. Uno dei fondamenti della longevità dell’amministrazione patrizia genovese fu, anzi, l’attribuzione ai notabilati locali di una buona misura di controllo sugli affari comunitari: ciò che faceva del governo metropolitano più l’arbitro che il controllore dei conflitti locali[198].
- Nel 1587 fu istituita, in sordina, la prima delle Giunte permanenti che all’interno dell’esecutivo genovese avevano il compito di provvedere a settori specifici dell’attività di governo: la Giunta dei Confini. Le competenze dell’organo comprendevano la politica estera della Repubblica in quanto riguardava le controversie di confine con gli stati e i feudatari limitrofi[199]. Alla documentazione della Giunta risultano però annesse pratiche risalenti al decennio precedente: la definizione dei confini di Pornassio e la questione di Oneglia, venduta nel 1576 dal suo signore, Gian Gerolamo Doria, al duca di Savoia. L’attività della Giunta, almeno per la prima fase della sua esistenza, riguarda, non a caso, prevalentemente il Ponente, all’epoca (ma di fatto per tutta l’età moderna) la frontiera più delicata della Repubblica. Nell’Oltregiogo, lungo l’arco appenninico e in Lunigiana ai confini genovesi non c’erano potenze ostili. Oltre Savona la continuità territoriale del dominio genovese era invece interrotta dal marchesato del Finale, che nel 1598 cadde in mano agli spagnoli e costituì un’enclave fastidiosa quando, dagli anni Trenta del Seicento in poi, il Tirreno ridivenne teatro di guerriglie navali e i rapporti tra Genova e la Spagna si allentarono[200]. Più lontano, Loano apparteneva al principe Doria; ma soprattutto, nel Ponente, l’acquisto di Oneglia e delle sue valli aveva portato i Savoia ad incunearsi nel dominio genovese proprio dove esso era più sfilacciato dalla persistenza di feudi Doria, Clavesana, Lengueglia. Verso monte, del resto, dal Sassello all’immediato retroterra di Albenga, con Zuccarello, il territorio della Repubblica era premuto da una costellazione di feudi che dovettero essere acquistati a pezzi e bocconi, in concorrenza con Carlo Emanuele I di Savoia. Sul piano della compattezza territoriale e della sicurezza militare, insomma, la Repubblica era nettamente sbilanciata a levante. Savona e Vado rappresentavano la frontiera del dominio difendibile: nel 1625 il Ponente sino ad Albenga cadde provvisoriamente (e senza molta resistenza) nelle mani del principe Vittorio Amedeo. Come è noto, la stessa natura dei rapporti tra metropoli e dominio era, almeno in via di principio, assai diversa nel Levante, sin dalla conquista genovese nel Medioevo direttamente soggetto alla metropoli, e nel Ponente delle comunità convenzionate, finito di sottomettere (è il caso di Savona) soltanto all’aprirsi dell’età doriana.
Tra i governanti genovesi esistettero concezioni diverse dell’organizzazione statale, che, a costo di schematizzare un po’, si possono ricondurre a due tendenze. Di una, che accettava la natura elastica, multiforme e un po’ slegata della Repubblica, nell’età chiabreriana si fece interprete Andrea Spinola, difensore del rispetto delle convenzioni stipulate con le località rivierasche, tutte ponentine; e ancora nel ‘700, alla vigilia della guerra di Successione spagnola, in altro contesto e di fronte ad altri problemi, ci fu chi difese questo governo ‘debole’ e prestò ascolto alle lamentele dei ‘popoli’. L’altra concezione tendeva al contrario a realizzare una misura di controllo e di uniformazione del dominio in grado di rafforzare le strutture statali della Repubblica. Era la spinta a lungo andare prevalente: ma più nelle aspirazioni e nelle dichiarazioni di intenti che nella sostanza. Emersa nettamente alla luce nella prima metà del ‘700 come ambizione di un modello ‘forte’ di stato, fu subito messa in scacco e ridimensionata dalla sconfitta militare nella guerra di Successione austriaca e dalla rivolta corsa[201].
- La Repubblica traeva la sua sostanziale[202] solidità dall’accettazione del predominio metropolitano da parte dei patriziati o notabilati locali. Savona non faceva eccezione. Anzi, la realtà di fatto della durevole e indiscussa sottomissione della città rivierasca contrasta singolarmente con l’ossessione dei governanti genovesi per la sua sicurezza. Ritenuta soggetta a minacce spagnole alla fine degli anni ‘70 del Cinquecento, e piemontesi (forse aiutate da complicità locali) in seguito, la città non fu mai ribelle e mai in pericolo (sino alla guerra di Successione austriaca, quando fu occupata dai piemontesi). Genova ebbe a fronteggiare malumori ad Albenga all’inizio del ‘600; nel secolo successivo conobbe il risentimento dei finalini e quello dei sanremaschi (sempre senza parlare dei corsi): mai quello dei savonesi. Anche durante i torbidi genovesi del 1575 Savona aveva osservato un’attitudine lealista nei confronti del governo metropolitano: gli abitanti non cercarono di profittare della scissione nel patriziato genovese. Appena quattro anni prima, anzi, Savona aveva anticipato lo scontro in atto a Genova tra nobiltà “vecchia” e “nuova” nella forma del dissidio tra nobili da una parte, e mercanti e artefici dall’altra. Il successo savonese dei secondi anticipò in un certo senso l’esito del conflitto genovese[203]. In età risorgimentale Torteroli fece un’osservazione acuta e solo in parte ovvia, a proposito della fine della libertà savonese nel 1528: che i più inclini alla sottomissione a Genova erano stati i patrizi e i più decisi a resistere i popolari[204]. Certo è che il patriziato savonese, arroccato attorno al proprio libro d’oro, poté scegliere la via dell’estraniamento dalla Repubblica genovese per la repubblica delle lettere, come per un verso fu il caso di Chiabrera; ma in quanto partecipò alla gestione del potere su scala locale lo fece senza deflettere dall’accet-tazione del predominio genovese e dalla difesa delle proprie prerogative cetuali nei confronti di mercanti e artigiani.
- Assai modeste, come è noto, erano le dimensioni demografiche della Savona chiabreriana. I dati più recenti, forniti da Nello Cerisola[205], le attribuiscono 10.000 abitanti circa nel 1570, e 9.000 nel 1594; il rilevamento dei fuochi e delle anime del 1608 dà per la circoscrizione di Savona 3395 fuochi e 15.051 anime, con un trend in ascesa rispetto ai dati del 1535, per altro relativi soltanto ai fuochi[206]. Savona era certamente in stagnazione demografica, se non in vero e proprio declino; ma i dintorni sembrano passarsela meglio. Nel 1608 (dunque nel pieno della riorganizzazione amministrativa del Dominio) il dato della circoscrizione di Savona pareggiava quello del capitanato di Voltri, e restava ben al di sotto delle cifre dei capitanati suburbani di Polcevera e Bisagno. Del resto, a quella data Genova da sola rappresentava un quinto della popolazione ligure: 68.000 anime contro le circa 300.000 di tutta la Terraferma; ma se alla città si sommano le podesterie suburbane di Polcevera e Bisagno si sale a 115.000 abitanti ufficialmente censiti. A paragone della metropoli i centri soggetti, anche uno illustre come Savona, scomparivano; e le dimensioni reali della metropoli, quelle percepite e ripetute dagli osservatori contemporanei, Andrea Spinola in testa, salivano forse alle 100.000 anime. Queste considerazioni quantitative servono a misurare l’incidenza del patriziato nelle due realtà: a Genova nell’ultimo scorcio del ‘500 forse 400 famiglie; a Savona una sessantina originarie, arricchite dalle immissioni cinquecentesche sino a 120 circa. Un raffronto puntuale è impossibile, perché il patriziato savonese attende ancora un moderno prosopografo[207]; indiscutibilmente, però, l’incidenza demografica del ceto patrizio appare proporzionalmente maggiore nella stagnante città rivierasca che nella attiva metropoli. Una precoce conversione alla rendita e allo sciupio vistoso? Una dislocazione sociale? Certo, la sottomissione della città passò anche per la trasformazione, e di fatto l’impoverimento, della sua vitalità economica; passò anche per il ripiegamento sulle lettere e sugli studi di taluni degli ingegni più brillanti espressi da un ceto dirigente la cui dimensione politica si era fatta più che mai ristretta: si pensi non soltanto a Chiabrera, ma a Paolo Pozzobonelli, corrispondente di Galileo. Ma, significativamente, l’orizzonte di entrambi non era affatto esclusivamente ligure, bensì aperto verso le corti italiane.
- Almeno una delle grandi famiglie savonesi era da tempo inserita nel patriziato genovese: i Della Rovere. Dopo il 1576 altre casate chiesero l’ascrizione al Libro d’oro della dominante[208]. Nel 1576, nell’infornata seguita alla guerra civile, fu ascritto Nicolò Pavese; nel 1612 fu la volta di Bartolomeo Riario; nel 1626 di Nicolò Gavotto (altri Gavotto seguirono nel 1629 e nel 1659); nel 1647 di Giambattista Grasso; nel 1673 di Lorenzo Ferrero (seguito nel 1698 da un altro Ferrero). Questo per limitarci al Seicento. Il Riario, il Grasso e il Ferrero non ebbero discendenti e l’ultima ascrizione di un Pavese al “Liber nobilitatis” genovese ebbe luogo nel 1670; il più significativo innesto di savonesi nel ceto di governo genovese fu dunque quello dei Gavotto. Come è noto, era facoltà dei Consigli della Repubblica ascrivere al patriziato genovese sino a dieci famiglie per anno, tre delle quali delle riviere. Le ascrizioni furono però assai meno frequenti e numerose del consentito e complessivamente centri ponentini come Taggia, e levantini come Chiavari, Spezia o Sarzana, furono rappresentati più di Savona sia nelle rose dei candidati all’ascrizione, sia fra gli eletti. Nel 1612, quando venne ascritto Bartolomeo Riario, tra i 141 candidati alla nobilitazione i savonesi non erano più di sette: oltre al Riario, un Pavese, un Ferrero, un Gavotto, un Feo Raimondo, il giureconsulto Giulio Bosco, uno Spinola[209]. Questo però non sembra aver suscitato alcuno spirito di fronda nell’élite savonese rispetto al governo genovese. Nel patriziato savonese, del resto, erano compresi rami di famiglie genovesi, come i Giustiniani e gli Spinola. Alcune casate savonesi, si può ipotizzare, svolsero un ruolo intermediario tra il notabilato locale e il governo genovese; inversamente, sarebbe da indagare la presenza dei genovesi nella vita savonese, attraverso l’insediamento di singoli personaggi e la residenza di villeggiatura.
- Priva di autonomia politica, impegnata nella gestione delle proprie magistrature cittadine, l’élite savonese era nondimeno attenta a marcare le differenze e stratificazioni interne. Un quadro del governo di Savona alla fine del Cinquecento è offerto dai dispacci che il podestà Marc’Aurelio Lomellino inviò al governo genovese a proposito del progetto di promuovere alcuni appartenenti al bussolo dei mercanti in quello dei nobili, altri dagli artigiani ai mercanti, e di imbussolare tra gli artigiani alcuni personaggi doviziosi sino a quel momento esclusi da ogni partecipazione alle cariche cittadine. Lomellino notava come non esistesse solidarietà tra mercanti e artigiani in contrapposizione ai nobili, così che questi esercitavano un’egemonia incontrastata nella vita savonese; aggiungeva che la mobilità da un bussolo all’altro, che aveva l’aspetto di una promozione di rango, non era neppure troppo ricercata da alcuni dei mercanti e artigiani più ricchi: la distinzione di ordini non avrebbe dunque ricalcato affatto una gerarchia di fortune. I candidati all’ingresso nel bussolo degli artigiani risultano però, proprio dalle note informative redatte dal Lomellino, sensibilmente meno ricchi di quelli che cercavano di ascendere al bussolo dei nobili. Gli anziani di Savona scrissero al governo, pochi giorni dopo l’invio della relazione del Lomellino: negavano che il primo bussolo fosse “scarso de cittadini per occuparsi negli ufficii” ed avvertivano:
quando se havesse a reempire, vi sono da diece in dodece cittadini che se possono inbussolare in essa di ragione senza alteratione degli ordini, a’ quali Vostre Signorie Serenissime hanno sempre havuto riguardo per quiete di questa loro fidelissima città[210].
Una delegazione di nobili savonesi, del resto, manifestò chiaramente il malcontento dell’ordine cui appartenevano per l’intervento del governo genovese nel flusso da un bussolo all’altro: colpiva il podestà Lomellino “l’ansia grande che ha questo primo bussolo che non sia fatta alcuna proviggione da Vostre Signorie Serenissime che gli levi la tottale autorità che sin qui han havuto in questo governo”. Così facendo, però, i nobili sollevavano il risentimento degli altri due ordini, “parendoli che non solo han procurato che nel bussolo loro primo non sia messo alcuno, ma che nel mettersi nell’altri bussoli ogni cosa debba dipendere da loro”. La sibillina e minacciosa osservazione di uno dei nobili manifestanti al podestà (“che dubitavano di qualche ruina da Genova”) stimolò la dura riflessione del Lomellino:
che convenga che l’altri bussoli che s’apoggiano per esser protetti si debban per buona raggione prottegere, et che stia bene a la Republica che questa falange si moderi, e fra essi siano conumerati amorevoli e dependenti da la Republica[211].
Le operazioni di imbussolamento occuparono i mesi di luglio e agosto, perché il consiglio degli Anziani di Savona procrastinò per quanto poté l’esecuzione dell’ordine del governo genovese di immettere nuovi nomi in ciascun bussolo. Né, al momento di proporre i nomi da promuovere o imbussolare ex novo, gli Anziani tennero del tutto conto delle indicazioni espresse nella relazione del podestà Lomellino al governo genovese: anzi, nessuno dei personaggi ventilati dal Lomellino per il primo bussolo, quello dei nobili, fu preso inizialmente in considerazione[212]. I risultati dell’operazione, che portò all’imbussolamento di tre nuovi nobili, non mancarono di suscitare dimostrazioni aperte di scherno. Uno degli anziani, Giorgio Crema, fu fatto segno al lancio di “un’amola d’immonditie” e quanto a Giambattista Castello, imbussolato tra i nobili secondo l’auspicio del podestà Lomellino, i suoi nuovi colleghi del primo bussolo lo accolsero a motteggi e fischi quando comparve sulla piazza della Maddalena[213].
L’episodio del 1599 dimostrava quanto sensibile fosse il patriziato savonese alla difesa dei propri innocui privilegi di casta; e quanto, in definitiva, fosse impotente nei confronti del governo genovese. Le resistenze e le ripicche che gli Anziani e i loro più giovani parenti mettevano in atto non scalfivano l’autorità della Repubblica, ma sollecitavano all’occasione i rappresentanti del patriziato metropolitano, come il Lomellino, a raccomandare un più attento controllo sui rapporti tra i ceti della città rivierasca e principalmente sul primo ordine.
- Ogni anno un patrizio genovese andava a governare Savona: fino al 1606 col titolo di podestà, successivamente con quello di governatore[214]; ogni tre mesi due altri patrizi assumevano il comando delle due fortezze di Savona: il maschio e la cittadella. Nell’estate 1599 la carica di commissario fu ricoperta da Ansaldo Cebà, insieme a Lazzaro Pichenotto. Una controversia piuttosto banale fra i due commissari e il podestà allora in carica su chi avesse la competenza di punire un soldato del presidio, controversia risolta dal governo genovese a favore del podestà, prese una piega imprevista quando i commissari rifiutarono di ottemperare all’ordine di consegnare il soldato al podestà inviato dal solo Senato anziché dai due Collegi (Senato e Camera) unitamente. Ad un secondo ordine ineccepibile nella forma seguì una dura reprimenda del governo, e una breve carcerazione dei commissari al loro ritorno a Genova. L’incidente fu insomma lo spunto per un contrasto di principio nel quale il letterato (la tentazione di attribuire al Cebà la paternità dell’iniziativa dei commissari è irresistibile) ebbe modo di esibire il proprio rigoroso rispetto delle leggi fondamentali della Repubblica e il rifiuto della prassi che attribuiva al Senato un ruolo motore, e di fatto un primato, nel sistema politico genovese[215]. La vicenda aveva un risvolto paradossale nel fatto che il podestà al quale i commissari contendevano l’autorità era Marc’Aurelio Lomellino, di lì a poco eloquente portavoce in Consiglietto della nobiltà minore e a suo modo critico del governo, e in particolare del Senato, fino ad essere a sua volta incarcerato.
La carica di commissario della fortezza suscitava in genere poco entusiasmo tra i magnifici; i certificati medici e le richieste di esonero, anche dietro pagamento della penale, furono sempre numerosi. Si trattava di un incarico al tempo stesso delicato e gravoso, perché comportava la residenza continua nella fortezza stessa. Già nel 1573 l’oligarca Marco Gentile osservò che nella fortezza di Savona “gli ricchi non vogliono andare, e quelli che non sono ricchi, oltre esser pericoloso, s’accomodino del robbe del publico e niuna punitione né riprehensione n’hanno”[216]. Si prospettava insomma un dilemma che si sarebbe in seguito applicato un po’ a tutti gli incarichi di giusdicente nel Dominio, e che il governo genovese avrebbe finito col considerare scontato: rischiare di affidare un incarico strategico ad un nobile potenzialmente corruttibile e malversatore, o trovare il modo di invogliare l’élite del patriziato ad assumere la carica. Col tempo il governo cercò di ovviare alla renitenza degli eletti prolungando la durata della carica a sei mesi, e più tardi a un anno, con lunghe vacanze dalla possibilità di rielezione. Quanto alla carica di governatore, trattandosi di uno dei più prestigiosi incarichi di giusdicente (nell’ordine di elezione degli uffici maggiori, seguiva solamente il commissario e governatore di Sarzana), spettava ordinariamente a personaggi di rilievo. La carica compare nel cursus honorum di futuri dogi come Leonardo Della Torre, Giacomo De Franchi, Cesare Durazzo, e di personaggi influenti nella politica genovese come Manfredo Ravaschiero, Marco Antonio Doria, Federico Imperiale, Gio.Bernardo Veneroso (per restare alla prima metà del Seicento)[217]. Nelle intenzioni dei legislatori genovesi il giusdicente doveva essere per quanto possibile estraneo alla vita della località che andava ad amministrare. Ma sorge il dubbio che in realtà un modo per incoraggiare i patrizi della metropoli ad accettare una trasferta di un intero anno nel Dominio consistesse nell’eleggerli dove potevano seguire i propri interessi. Questa è l’impressione suscitata dallo spoglio degli eletti settecenteschi[218], che si può forse assumere come ipotesi di lavoro anche per il secolo precedente. Le denunce dei sudditi ai Sindicatori o al Senato attestano talvolta esattamente questo fenomeno. Una verifica da tentare, sui documenti tanto savonesi quanto genovesi, può dunque riguardare proprio l’estensione della proprietà genovese (patrizia, anzitutto) a Savona e nel suo circondario. Né va trascurata la miniera di notizie sulla situazione savonese rappresentata dalla corrispondenza dei giusdicenti genovesi con il Senato e dagli atti dei Sindicatori di riviera.
- Sulle condizioni delle fortezze di Savona esiste a Genova un discreto materiale. Ma alla preoccupazione ricorrente e quasi ossessiva del governo per la sicurezza della città faceva riscontro uno stato di cose sovente lamentevole. Un documento del 1593 suggerisce come dovevano andare le cose: “notabil disordine nelle guardie della notte”; presenza nella guarnigione di “soldati maritati a Savona”; bombardieri non molto esperti (se si sentiva il bisogno di richiederne di “prattichi”); soldati nativi di Savona; e via dicendo[219]. Lamentele analoghe circolavano con frequenza anche a proposito delle piazzeforti genovesi in Corsica.
Nel febbraio 1605 vennero raccolti dal governo i suggerimenti per modificare le istruzioni del commissario delle fortezze: tra gli altri, fu proposto “per sollevare più che si può li cittadini che vanno commissarii in quella fortezza dal’incomodo”, di concedere loro di portare con sé la moglie e i figli, sia pure con l’obbligo di non uscire dalla fortezza senza permesso del Senato. Ma gli “incomodi” per i soldati erano anche più minuti e sorprendenti: per le loro “necessità” dovevano uscire dalle fortezze, nelle quali poi rientravano senza usare parola d’ordine, disattendendo così le formalità puntigliosamente prescritte dal governo. Né i turni di guardia sembravano sufficienti, se veniva proposto nel contempo l’aumento della guarnigione della rocca da 66 a 78 unità, e di quella della cittadella da 88 a 96 unità[220]. Ma nonostante la preoccupazione per il buon stato delle difese, il suggerimento avanzato da qualcuno di aumentare la paga ai soldati italiani venne accantonato, per non dover poi estendere il provvedimento a tutti gli altri presidi. Nell’aprile 1610 l’ex Doge Gerolamo Assereto e Giobatta Doria, inviati in missione per rivedere lo stato delle difese savonesi, rilevarono manchevolezze nella tenuta dei materiali di magazzino e degli approvvigionamenti alimentari, che vennero fatti rinnovare, e sostituirono i soldati ammogliati a Savona o inabili al servizio, alcuni perché “fastidiosi e difficili” (il cambio riguardò una trentina su sessantotto nomi elencati), attingendo provvisoriamente ai miliziani di Quiliano e Stella “come più affettionati e pronti”: un avvicendamento sufficiente a far “riposare nella sicurezza”[221]. Ma in generale i savonesi mostrarono spontaneamente e ripetutamente uno zelo lealista del tutto rassicurante per il governo genovese: sia nel 1613 sia nel 1617, in occasione delle guerre del Monferrato che interessarono marginalmente la Repubblica per il passaggio di truppe spagnole dirette all’occupazione della sabauda Oneglia, Savona offrì contingenti armati di 500 uomini; nel 1625 contribuì alla difesa della Repubblica con uomini e denari e con l’accettazione dell’alloggiamento di un forte contingente armato (125 compagnie); più tardi, nel 1642, nella stagione del risveglio navalista genovese, avrebbe contribuito al riarmo allestendo due galee. Non senza ragione, perciò, l’8 maggio 1626 il governo genovese insignì Savona del titolo di “Fedelissima”: l’occasione fu il ringraziamento degli Anziani savonesi perché la Repubblica aveva concesso alcuni lavori al molo della città. Latore del ringraziamento savonese e del riconoscimento genovese un singolare portavoce: Gabriello Chiabrera[222].
Appendici
- La relazione di Marc’Aurelio Lomellini sui bussoli di Savona, 1599
Si pubblica la relazione sul sistema politico savonese redatta nel 1599 dal podestà Marc’Aurelio Lomellino, in seguito alle controversie insorte per la promozione di alcuni personaggi da un bussolo all’altro. La relazione, accompagnata da una lettera di trasmissione del podestà del 19-22 maggio 1599 (il testo venne preparato entro il 19 e la lettera di trasmissione portava quella data; non spedita per il sopraggiungere di una missiva del governo genovese, venne inoltrata il 22), che si omette, si trova in ASGe, Senato, Litterarum 577. Le abbreviazioni sono state sciolte; la maiuscolazione normalizzata e la punteggiatura ritoccata dove necessario per l’intelligenza del testo. Sono state invece mantenute, anche nei cognomi, le oscillazioni grafiche. Gli asterischi che contrassegnano alcuni nomi negli elenchi sono giustificati dal Lomellino nella sua relazione preliminare: indicano i personaggi imbussolati nella tornata immediatamente precedente.
Serenissimo et eccellentissimi Signori Padroni osservandissimi.
Questa città di Savona, che sotto il dominio della serenissima Republica quietissimamente vive, ritiene in sé un modo di governo con certe regole descritte in un volume detto Pollitico, confirmato dalle signorie vostre serenissime in più tempi, et ultimamente con certe additioni e rifformationi sotto il de 27 d’ottobre 1598; et ha fra l’altre questa massima, che non è admesso ad alcun magistrato alcuno che non sia in uno di tre bussoli, sì como tre sono gl’ordini o colori di quelli a’quali spetta l’administratione: il primo de quali bussoli è di nobili, il secondo di mercadanti, il terzo d’artegiani.
Non ritrovo che sie stato alcun certo o prescritto numero statuito per alcun di detti bussoli, ma solamente ritrovo provisto circa l’imbussolatione da farsi ogn’anno in l’infrascritto capitolo sub rubrica “De potestate Dominorum Antianorum”, il § apresso si mette copia perché serve a conoscere il disordine seguito, e quello che si potria considerare e correggere.
Possintque et valeant dicti domini Antiani et Magistri Rationales, omni singulo anno inter se ipsos et eorum magnifica officia, proponere usque in novem cives Saone, videlicet tres de omni gradu, et etiam plures si opus esset, pro supplendis publicis officiis dicti communis, servata tamen semper paritate et distinctione graduum ut supra, et qui videantur apti idonei et sufficientes ad administrandum et exercendum officia publica dicti communis, doctoribus et medicis etiam comprehensis, et qui propositi fuerint debeant poni ad calculos, et qui obtinuerint duas tertias partes calculorum alborum possint et valeant per dicta duo magnifica Collegia imbussolari in bussolis officiorum et officialium dicti Communis, et consequi et obtinere dicta publica officia; non possint tamen nec valeant mutare seu variare gradus civium Saone cum id spectet et pertineat ad magnificum Magnum Consilium.
E nell’ultime additioni v’è l’infrascritta videlicet.
Ad capitulum sub rubrica ‘De officio et potestate Dominorum Antianorum’ in § incipientem ‘possint et valeant’ <… > ante verba ‘civis Saone’ et post verba ‘videlicet tres’ posuerunt et addiderunt hec verba: ‘saltem aetatis annorum viginti’.
Questo è il tenore di detto Pollitico toccante il fatto dell’imbussolationi.
Hora quest’anno essendo qui l’Illustrissimo Signor Pietro Battista Cattaneo, fu fatta imbussolatione prima di numero dispare, como si può vedere dalla lista che segue dell’imbussolati, perché a quelli che si imbussolorno ultimamente si è fatto un segno * da capo, e doppo la partenza del detto Signor Pietro Battista fu passata un’altra imbussolatione, in quale v’erano delli minori d’ettà, ma non furono messi in bussola, vedendo li ressentimenti e per non aggiongere errore ad errore.
Però in l’avenire si doveria provedere accioché non si facessero né si potessero fare queste transgressioni.
Io crederei, sotto correttione sempre, che stiano meglio provedere al numero delli imbussolati per ciascuna di esse bussole respettivamente; non dico che ogn’una havessi un determinato numero, ma che fra di loro dette bussole havessero il numero proportionato, come saria a dire per ogni cinque che havessi il bussolo de mercanti o quel de l’artisti vi fossero sei del bussolo de nobili, talché il bussolo de nobili avanzassi d’un sesto più di numero l’altri doi, e poi dal più al meno per tutti detti bussoli si vedesse quel che si può fare, havuto risguardo al numero delle persone d’ogni ordine.
Si dice che il bussolo de i nobili ecceda di numero del sesto più l’altri doi bussoli, perché è necessario di maggiore estrattione alli magistrati per il detto sesto più: perché essendovene quatro magistrati nelli quali eccedeno li nobili d’uno più che ogn’uno dell’alri doi, così deve esser il numero de gl’imbussolati proportionato a quelli che si estraheno al servitio de magistrati. [c 1v] Nel magistrato de Signori Antiani e doi de l’altri bussoli per uno; nel magistrato de Signori Maestri Rationali, Signori Maestrali, Offitio d’Abondanza vi sono doi nobili et uno d’ogn’altro bussolo.
In tutti li altri magistrati vanno di pari numero; e così avanzano li nobili delli magistrati di un sesto più ogn’uno de l’altri bussoli, essendo in quattordeci magistrati vintitré nobili e diecinove d’ogn’altro bussolo, non contando li quattro capitani che non è magistrato.
È ben vero che nel conseglio maggiore della città, che è di 42 oltre l’Antiani e Maestri Rationali, se ben alcuni delli detti 42 sono alle volte di detti doi collegi per il modo dell’ellettione che s’usa che potria corregiersi, vi sono 18 di nobili e 12 di l’altri, questo avantaggio de nobili in conseglio non ocupa più citadini in magistrati, né merita altra consideratione, essendo nel conseglio li medesmi delli magistrati onde per questo non si deve far augumento del bussolo de nobili da gl’altri.
Al presente vi sono di nobili nel bussolo 60 e nell’altri 50 per ogn’uno, numero a ponto como si desidera; e perciò si potria nel imbussolatione da farsi a la giornata haver risguardo alli deffonti et inabili, et a quelli suplire prims, e poi augumentare se paresse proportionalmente o con l’escusar de gl’altri bussoli, o aspettar che mancassero secondo più o meno crescerà o minuirà il numero delli cittadini.
E perché il numero si vadi equiparando, e de nobili e de gl’altri, saria raggionevole ogn’anno netegiare detti bussoli, levandone li deffonti e fatti ecclesiastici, inhabili e privilegiati, et haversi poi dalli collegi di Antiani e Maestri Rationali riguardo se vi sono persone meritevoli per passarsi da un bussolo all’altro, e da sé ex offitio li detti doi collegi proponerne al maggior conseglio tanto numero per farne da esso conseglio l’ellettione, la quale anco dovessi haver proportione, perché si trattaria solamente di passar dal primo al secondo, e da l’uno o l’altro al terzo.
Al presente questa passata da bussolo a bussolo non si fa se non è ricercata da chi la pretenda, e molti sono che non vogliono metersi a cercarlo dubitando d’incontro; perché como è detto è bene poco vantaglio viene a portar ne l’altre cose l’esser nel primo o nel secondo, se quelli del terzo nel trattarsi, ne l’exercitio, e nelle sostanze eguagliano e molte volte avanzano quelli del secondo et anco del primo.
Qui vi sono molti al presente che si possono raggionevolmente aggiongere al primo, molti al secondo e molti al terzo, como apresso si dirà.
E questa passata da bussolo a bussolo, se si facessi così ex offitio daria grandissima sodisfattione col tempo, et al stato aporteria grandissima consonanza, perché hoggi dì essendo il bussolo de mercadanti in grado che si sostiene senza intelligenza di quello de l’artegiani, ne ressulta che li nobili prevagliono in maniera che non v’è stato dove più prevagliano, né meno a Venetia dove li soli nobili hanno tanta authorità; e però con questa passata da bussolo a bussolo si temperaria questo humore: il secondo terria conto del terzo che saria di parte di loro, il primo de l’uno e l’altro per la medesima causa.
E quando per le passioni e la molta autorità e vantaglio che hanno li nobili ne li magistrati di Antiani e Maestri Rationali e conseglio, questa passata si difficultassi, si rissalvi il Serenissimo Senato di provedervi tanto ad instanza delli detti Antiani e Maestri Rationali, como anco di chi altro si voglia, secondo giudicassero loro Signorie Serenissime a proposito del ben publico, sì como [c 2r] al presente potriano fare di quelli che si nominassero quelli che loro parrà.
Questo è quanto mi soviene, scritto forsi diffusamente e confusamente, non sapendo altrimenti.
[c 3r] Lista de gl’imbussolati, in prima nobilium numero 60
magnifici
Paulus Marretus Io.Bapta Bava Sebastianus Niella Io.Bapta Puteobonellus Io.Iacobus Gentilis Ritius Io.Ludovicus Niccus Io.Iacobus de Furnariis Alexander Grassus Io.Thomas Grassus Hieronimus Iustinianus Iacobus Iustinianus Gabriel Chiabrera Georgius Nazellus Io.Franciscus Ferrerius Dominicus Chiabrera Alexander Raimondus Io.Franciscus Bernissonus Io.Bapta Gavotus Angelus Grassus
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Io.Bapta Baldanus
Paulus Spinola Io.Bapta Feus Io.Bapta Ferrerius q. domini Francisci Ambrosius Salinerius Nicolaus Grassus Antonius Sansonus Io.Antonius Saccus Laurentius Sansonus sp. Iulius Boscus Io.Hieronimus Nanus Io.Bapta Cauda Augustinus Cauda Laurentius Gavottus Hieronimus Gavottus sp. Galeatius Picus Iulius Vegerius Marcus Vegerius Iulius Bava Vincentius Niella
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Marcus Antonius Niella
Camillus Grassus Vincentius Nanus Iulius Castodengus Alexander Pavesius Alexander Ferrerius * Ambrosius Baldanus * Simon Rocca Philippus Rocca * Io.Ludovicus Gavottus * Angelus Gavottus * Io.Bapta Ferrerius q. I.F. Andreas Mulassana Io.Franciscus Ferrerius Alexander Niella Bonifatius Nazellus Vincentius Cuneus Camillus Gambarana Gaspar Gavottus Ambrosius Puteobonellus Io.Bapta Bocconus
In secunda mercatorum numero 50 magnifici Steffanus Marchianus Nicolaus Monleonus Nicolaus Bicius Io.Andrea Valdebella Gregorius Nattinus Io.Angelus Crema Ambrosius Crema Io.Bapta Crema Io.Antonius Capellus Bernardus Capellus Obertus Polerius Alexander Besius Steffanus Besius Antonius de Ghirardis Io.Bapta Natinus Paulus Monleonus Ioseph Niger Philippus Cassinus Ambrosius Sterlinus Franciscus Sterlinus Vincentius Boscus Nicolaus Curtinus Franciscus Gentilis Petrus Ioannis Bertius Georgius Crema Nicolaus Marretus Io.Iacobus de Honofriis Laurentius Crema Franciscus Plagia Franciscus Astulphus Nicolaus Agnesius Augustinus Besius Iulius Valdebella Iulius Scottus Octavianus Gallus Franciscus Speuturnus Carolus Belesius * Augustinus Bos Bartolumeus Surdus Paulus Delphinus
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Io.Andreas Gallus
Io.Antonius Gallus Michael Gallus Gaspar Baronus Alexander Natinus Io.Bapta Guarnerius Paulus Hieronimus Natinus Io.Antonius de Simonibus Io.Bapta Marchianus Petrus Gallus Augustinus Crema Ambrosius Sestri Nicolaus Rochetta Paulus Sterlinus * Iulius Gentilis et Bernardus Sterlinus
In tertia Artestarum numero 50 magnifici Ioannes Marchesius Ioseph Monleonus Gaspar Maleus Augustinus Gabbus Stephanus Faia Stephanus Isnardus Ioseph Chiarella Baptista Bozetus Io.Iacobus Sestri Bartolomeus Scarella Franciscus Berlingerius Sebastianus Spoturnus Sebastianus Berlengerius Bernardus Delfinus Paulus Marchianus Franciscus Podenzana Petrus Bapta Boconus Leonardus Abbas Iulius Polerius Augustinus Marchesius Augustinus Maleus Antonius Lambertus Hieronimus Mariconus Petrus Vincentius Mariconus Bapta Lambertus Bartolomeus Cazullus Io.Steffanus Monleonus Io.Franciscus Polerius Dominicus Vigertius Dominicus Chiaparinus Iulianus Fenogius Alexander de Fossatis Ioseph Alamanus Io.Andreas Speuturnus Stephanus Isnardus Octavianus Isnardus Iacobus Isnardus Camillus Maleus Christophorus Bozetus Vincentius Delphinus Franciscus Abbas Laurentius Petitus Antonius Marchesius et Augustinus Speuturnus
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[c 4r] Questi sono persone che ancora non sono imbussolati e si potria haver consideratione per metterli alla prima bussola
Gio.Paolo Delfino figlio del q. Gregorio Delfino medico, la madre fu di casa Conti nobile
Gio.Giacomo Besio figlio del fu Bernardo dottor di leggi, è di molta qualità la madre fu Grassa nobile sorella della moglie del magnifico Gio.Batta Gavotto
Aurelio Crespi figlio del dottor e fratello del dottor Crespi, ha per moglie una Guarnera nobile
Gio.Batta Castello genovese, ha per moglie la sorella del signor Gio.Batta Vivaldi q. Illustrissimi
Questi che seguono sono già in altri bussoli, e si potria haverne consideratione per il primo bussolo
- Lorenzo Besio dottor e cancelliero
Gregorio Nattino è di casa antica e sempre stimata in Saona, ha per moglie una Pavese sorella di Nicolò Pavese di Napoli [?] nobile
Gio.Batta Natino figlio di detto Gregorio, giovine di nobile presenza e costumi
Gio.Batta Valdebella è cugnato del magnifico Lorenzo Besio, huomo solo senza prole, di conveniente sostanza e buona stima
Paolo Monleone ha per moglie la sorella delli Nani Gio.Gerolamo e Vincenzo e vive nobilmente
Vincenzo Bosco fratello del sp. Giulio, che si tratta col fratello nobilmente, et sempre con nobili
Ambrosio Nano medico fratello di Gio.Gerolamo e Vincenzo sopradetti già nobili
Ambrosio e Paolo fratelli Sterlini figli del q. Vincenzo patrone di sua nave e d’una Grassa nobile, la sorella moglie di Giacomo Mulassana nobile, et è parente di questi fratelli Gavotti
Quelli della terza potriano trapassarsi alla seconda
Gio.Francesco Polero non fa arte ma negotia, ha di sostanza scudi 10.000 in circa, di buoni costumi e bell’animo
Giulio Polero fratello di Oberto che è in questa seconda bussola, ha scudi 10.000 senza carico, vive nobilmente
Vincenzo Verzelino non è in alcuna bussola, vive civilmente senza exercitio, ha di sostanza scudi 7 in 8.000, è solo
Bernardo Delfino ha di sostanza scudi 25.000, non fa più alcun exercitio e vive nobilmente
Leonardo Abbate ha similmente scudi 25.000 di sostanza, è solo con un fratello prete, haveva prima bottega di drappi di seta, è casa antica di Savona, suoi sempre hanno havuto donne nobili
Sebastiano Spotorno ha scudi 8 in 10.000 di sostanza, cosa [sic] antiqua, è stato drapero, vive civilmente et è assai aggradito nelli magistrati
Gio.Steffano Polero fratello di Oberto sopradetto e Giulio, è exento per i figli, et è exentione aggradita
Bartholomeo Scarella cugnato di Gio.Francesco Polero, che vive d’intrata
[c 4v] Quelli che potriano entrar nella terza e non vi sono
Claudio Porrasolo banco di drappi, ha scudi 5.000 di facultà
Francesco Boggia negotia, ha scudi 2.500 di sostanza
Battista Chiavarino fa cottonine, ha da scudi 2.500 di sostanza
Thomaso Bribo forestiero, negotia, ha da scudi 1.000 di sostanza
Luigi Gatto è figlio di remolaro, ha da scudi 10.000 di facultà
Battista Chiaparino untore, fratello de Domenico che dal Serenissimo Senato fu messo in bussolo, ha scudi 3.000 di sostanza
Alexandro Chiavello spetiaro, ha da scudi 2.500 di sostanza
Gregorio Verruta berretero padre di Gio.Maria scrivano, ha scudi 2.500 in circa
Gio. Cattaneo berettero, ha di valsuta di scudi 2.500 in circa
Georgio Bruno berretero, ha da scudi 1.500
Gio.Maria Boccalandra detto Gambarero, ha scudi 3.000 in circa
Pietro Gio. Boccalandra bancarotto, ha di scudi 3.000 in circa
Gioseppe Cella genero di Maggio, ha scudi 4.000
Francesco Bozolano fravego, scudi 2.500
Gio.Batta Martino è nipote di Bernardo Delfino che li sarà herede
Francesco Bozello è andato sempre con condotte di denari in Spagna in Italia
Nicolò Giachero fa cottonine
Lorenzo Giachero suo fratello.
- La lettera di Ansaldo Cebà e Lazzaro Pichenotti al Senato, 1599
Il documento che qui si pubblica è la lettera inviata al Doge e ai Collegi della Repubblica di Genova il 13 agosto 1599 dai commissari della fortezza di Savona Ansaldo Cebà e Lazzaro Pichenotti. La lettera tratta dell’episodio, ricordato da Andrea Spinola in un passo dei Ricordi, che costò al Cebà (e naturalmente anche al Pichenotti) una breve carcerazione in torre al loro ritorno a Genova, presto trasformata in arresti domiciliari, fino all’inevitabile reprimenda da parte del Doge. Il tenore della lettera, e la rivendicazione del rispetto scrupoloso delle forme di legge inteso come prassi ‘repubblicana’, fanno pensare che il suo ispiratore fosse proprio il Cebà, il quale infatti incluse la missiva nella raccolta di Lettere di Ansaldo Cebà, stampata da Pavoni nel 1622 e dedicata ad Agostino Pallavicini. Il testo edito differiva dall’originale nell’ortografia di alcune parole e nella punteggiatura; differiva però anche per la modifica o la soppressione sia di singole parole, sia, in qualche caso, di interi passi. Come risulta evidente dall’esame delle varianti, che si danno in nota, solo raramente esse furono motivate da esigenze stilistiche; in realtà Cebà tese coerentemente ad attenuare le espressioni di ossequio ai governanti, e sostituì sistematicamente il termine “Principe”, riferito al Senato, con l’anodino “superiore” o con altra espressione che non implicasse riconoscimento di un ruolo preminente al collegio dei Senatori. Nella chiusa della lettera il senso del testo veniva addirittura cambiato, enfatizzando nella carcerazione inflitta ai due commissari una possibile minaccia alla legalità repubblicana. Le parole espunte nel testo a stampa sono racchiuse tra parentesi quadre, le parole e i passi aggiunti o modificati sono racchiusi tra due asterischi. Le abbreviazioni sono state sciolte.
Al Serenissimo Duce, Eccellentissimi Governatori et Illustrissimi Procuratori della Republica di Genova.
Serenissimo Eccellentissimi et Illustrissimi Signori
Noi habbiamo esseguito l’ordine di Vostre Signorie Serenissime e sofferte le loro riprensioni con quella equità d’animo, che si conviene a *servi ubidienti verso i signori loro. E le*[223] minacce fattene sul finir della lor lettera *habbiam*[224] prese in luogo d’amorevoli, e di paterne ammonitioni. E ci *saressimo*[225] anche tacendo confessati [del tutto] colpevoli se la coscienza nostra, che *crede non haver fallito*[226], e la benignità loro, che non nega difesa [ad alcuno] non n’havesse dato speranza, ch’elle sieno per udir [anche] gratiosamente la nostra. La quale però non non intendiamo d’affermare né per vera, né per buona salvo se sarà stimata tale da Vostre Signorie Serenissime al cui buon giudicio non solo nelle cose *dubie*[227], ma ancora in quelle, che *appresso di noi son certissime*[228] ci vogliam sempre humilissimamente rimettere. E perché il farsi *un poco*[229] da principio può [forse] aiutar in qualche parte la causa nostra toccheremo brevemente alcune considerationi fatte da noi prima che s’havesse l’ordine del Serenissimo Senato, e poi verremo al punto della lettera *che scrissemo per li due del corrente*[230]. Noi negammo la prima volta di dar il soldato al [magnifico] Podestà di Savona, perché ci fu detto che l’uso era in contrario. E quest’uso ci parve fondato su qualche ragione. Prima, perché trattandosi di due magistrati che dipendono dal medesimo Principe non parea, c’havesse [c 1v] luogo quella consideratione, che’l delitto fosse seguito dove comanda il Podestà, ma solamente che fosse tra persone, che son comandate da Commissari: e che in tal caso, o per non haver loro ministri, o forse per non poter essercitar atto di giuridittione in casa altrui toccasse bene al Podestà far carcerar i delinquenti, e forse prendere *qualch’informationi*[231] del fatto, ma circa il finir del processo, et il venir a sentenza ciò *fusse*[232] ufficio [non suo, ma] de’ commissari. Oltre a ciò ne moveva, che’l diminuir l’autorità del Comissario in fin a quest’hora tanto temuta da’ soldati non vedevamo, che potesse giovare al buon governo di queste fortezze. Terzo ne dava noia una mala sodisfattione, che presentivamo generalmente ne’ soldati: parte per sofferir mal volentieri e recarsi quasi a dishonore l’esser *gastigati*[233] da altro giudice che dal suo proprio; e parte per temer grandemente di dover in qualche tempo esser sottoposti a due pene: a quella del Podestà, nella cui giuridittione fallissero; et a quella del Comissario nel poter del quale ritornassero. Perché se ben di ragione fatta l’essecutione dal Podestà il Comissario non se n’havrebbe più ad intramettere, tuttavia perché può avenir talvolta, che nel fallo commesso dal soldato delinquente il Comissario o per disubidienza o per altro si *tenga*[234] offeso, dubitano, per quanto crediamo, costoro, che non stando [c 2r] egli spetialmente a sindicato habbiano in qualche caso a sodisfar alla giustitia del Podestà et all’ira del Comissario. Et ultimamente ne parea di commetter troppo gran mancamento non contra noi particolari, a[lli] quali ogni poca autorità è soverchia, ma contra la persona che sosteniamo se potendo con ragione difendere la giuridittione ch’ella ha havuto in altri tempi havessimo al primo assalto abbandonata l’impresa. Queste brievemente son le ragioni, onde sul principio non ci parve bene di consentir al desiderio del Podestà di Savona. Le quali si dicono hora, non perché vogliamo perseverare in giudicarle buone, *perché*[235] son dannate da Vostre Signorie Serenissime, ma perché veggano, ch’a far quel che si fece forse ne può haver mosso cattiva ragione, ma non cattivo zelo.
Per quanto tocca poi alla seconda nostra lettera, la quale veggiamo con grandissimo nostro dolore haver tanto commosso gli animi di Vostre Signorie Serenissime, è vero, che noi forse come poco informati dell’autorità del [Serenissimo] Senato dubitammo se essendo chiamati a giurare, instrutti, mandati, e per così dire autorizzati da amendue i Serenissimi Collegi dovessimo nelle materie più gravi ammetter ciascun ordine d’un collegio solo. Ma questo dubio havrebbe fatto appresso di noi minor forza se non fosse stato sostenuto da quell’altro: che havendo noi dimandato ordine di dar il soldato a’ due Collegi et havutolo da un solo si potesse *forse*[236] dire, che dovevamo [c 2v] sospenderlo almeno *fin tanto*[237] che fossimo ammaestrati di costì, che etiamdio a così fatte lettere scritte a Vostre Signorie Serenissime in commune può il [Serenissimo] Senato solo rispondere, e provedere come gli pare. L’occasione dunque di dubitare c’era, se non siamo *errati*[238], assai apparente. Se i dubii poi fossero ragionevoli o no ce ne rimettiamo al [prudente] giudicio, *che n’han fatto Vostre Signorie Serenissime*[239] le quali circa il primo dannano del tutto l’opinione nostra, *e circa il*[240] secondo crederiamo anche che la riprovassero, se non fosse che l’ordine di dar il soldato non più da un solo, ma n’è venuto da amendue i [Serenissimi] Collegi; nella qual cosa *però come che possa esser fatta ad altro fine noi non facciamo fondamento niuno. Questo diciam bene*[241]: che parendo a noi d’haver buona causa circa il punto principale di difender l’autorità di questo magistrato per le ragioni sudette, vedendo, che’l privarci d’un soldato in tempo, che n’habbiamo tanta strettezza non potea essere senza pregiudicio della custodia di queste fortezze; e sapendo che simili dilationi di commissari non di quattro o sei giorni, ma d’un mese intiero e per dubii [forse] non più ragionevoli de’ nostri erano in altri tempi state sofferte senza sdegno *di chi sosteneva la persona del Principe*[242], non fecemo gran consideratione se *i dubii*[243] potessero sussistere, ma pensammo, che dovessero dar cagione a Vostre Signorie Serenissime di considerar la cosa in commune, [c 3r] e tempo a gl’Illustrissimi Procuratori di mandar il contro del soldato che si dimandava. Onde si potrebbe forse concludere, che *ancorché*[244] biasimevoli o in parte o in tutto fossero stati i nostri dubii, essendo lodevolissimo il fine che ne *sospinse*[245] a proporli, o niuna o pochissima colpa si sarebbe da noi potuta commettere. Ma, come s’è detto sul principio, noi non intendiamo d’affermar niuna cosa per vera senza il voto non pure d’amendue, ma anche del solo collegio de’ Serenissimi *Senatori*[246], la cui autorità e giudicio noi certamente habbiamo in molto maggior riverenza di quello che forse più per disgratia che per colpa nostra è stato creduto da loro. *Questo*[247] è quanto all’occasion del dubitare, et alla qualità de’dubii *mossi da noi*[248].
Resta hora a vedere, prima s’habbiamo errato a dubitar in genere dell’autorità del supremo magistrato: [il] che tocca a quella parte dell’imprudenza, onde piace a Vostre Signorie Serenissime di notarci; e poi se in far ciò habbiamo usato quel termine di parlare, che si conviene a gl’inferiori verso i superiori: [il] che appartiene all’altro vitio della immodestia, che con grandissimo *sentimento nostro*[249] habbiamo veduto esserne da loro attribuita; e diciamo con gran *sentimento*[250] perché l’essere chiamati ignoranti et imprudenti poco ne *stimola*[251], in quanto questi sono errori dell’intelletto, il quale non è *a*[252] man nostra fare, che vegga più inanzi di quel che vede; ma l’essere giudicati immodesti, et irreverenti verso *il nostro principe*[253] è [c 3v] vitio della volontà, la quale è in poter nostro regolare in modo che non passi i termini del convenevole. Onde non solamente ci siamo sentiti pungere da questo colpo, ma ferire, e trafiggere amaramente. Hora tornando al primo capo noi habbiamo creduto poter[254] dubitare senza commetter fallo dell’autorità del Serenissimo Senato; perché nelle città libere, dove etiamdio il supremo magistrato non può far niente più di quel, che gli permettono le leggi si può tal volta, se non c’inganniamo, per quel modo che si conviene metter in dubio, *se’l principe*[255] habbia potuto o non potuto fare, perché, come s’è detto, l’autorità di lui non dalla sua volontà, ma dipende da quel, c’han lasciato scritto i legislatori. Il che non *segue*[256] dove commanda un principe assoluto, perché non v’è legge niuna, che sia superiore alla sua volontà: e però *gravemente peccherebbe*[257] colui, che sotto simile governo volesse rivocar in dubio, se’l principe havesse havuto autorità di fare o di disfare[258]. Intorno poi al secondo punto se noi consideriamo la *devotissima*[259] inchinatione dell’animo nostro verso il Serenissimo Senato nostro *principe e padrone*[260], e pesiamo dall’altra parte le parole usate nella nostra lettera, non ci pare d’haver potuto parlare, né parlato dell’autorità di lui se non con ogni termine di modestia e di riverenza. Il che per far vedere più manifestamente sofferiscano per bontà loro Vostre Signorie Serenissime ch’andiam brevemente ponderando alcuni modi di parlare usati nella nostra [c 4r] lettera in questa materia. E prima, quando cominciamo a dubitare dell’autorità del Serenissimo Senato si dicono le seguenti parole: “la cui autorità se ben noi habbiamo in quella riverenza che si dee”. Secondo, quando diciamo che’l [Serenissimo] Senato ha dato quell’ordine si soggiungono quest’altre: “ma tenendo di poterlo fare”; per le quali si vede, che noi crediamo il Senato non far se non quelle cose, che stima poter fare di ragione. Terzo, quando tocchiamo che’l [Serenissimo] Senato non habbia potuto dar la provigione dimandata da noi ad amendue i Collegi, ciò non s’afferma assolutamente ma si dice “sotto sua benigna correttionne”, e s’aggiunge la dubitativa “forse”. Et ultimamente quando concludiamo, che s’esseguirà prontamente l’ordine di Vostre Signorie Serenissime si mostra d’haver tanta fidanza nella prudenza loro, che non ostante, che non vediam ragione di dar il soldato al Podestà in pregiudicio dell’autorità de’Commissari, e mala sodisfattione del presidio, tuttavia riguardando solamente che ciò si stima da loro ragionevole diciamo: “che ne parrà di far bene in esseguirlo”. Queste brievi ponderationi *crederiamo*[261] poter provare assai sufficientemente c[he noi] habbiamo parlato dell’autorità del nostro *Principe*[262] con quella modestia, e con quella riverenza, che si *dee*[263]. Tuttavia quando a loro paresse altrimente noi non possiamo, né vogliam contendere con chi sa e può più di noi. Questo vogliam ben affermare [c 4v]/in ogni miglior modo, che quando la penna a qualche piccolo fallo fosse trascorsa, la volontà nostra è tanto riverente al Serenissimo Senato, che niuna parola scritta da noi non ne può esser imputata *ad errore*[264], in quanto *errore*[265] può solamente addimandarsi quello che è [in]volontario. Hora da *quello*[266] che s’è detto fin qui potrebbe forse alcuno rammaricarsi della sorte nostra, c’havendo noi havuto sì buon zelo in fare quel che s’è fatto; havendo errato solamente in non saper tutta l’autorità del nostro *Principe*[267] (della qual *anche*[268] chi s’impaccia col publico più di noi non ha forse sempre piena notitia) et essendo non pur cittadini di Vostre Signorie Serenissime ma suoi commissari, habbiam meritato *non di sentirci ammonire o correggere, ma d’udirci riprendere, minacciare, e citar anche come rei dinanzi al loro tribunale. Ma noi*[269], che sappiamo niuna cosa farsi da loro se non con somma prudenza [et equità] non solamente prendiamo [volentieri] in grado il modo col quale è piacciuto lor di *trattarne*[270] , ma verremo anche *prontamente a presentarci a’piedi loro, e nelle loro prigioni, non per dir più di quel, c’habbiam detto in questa lettera, ma per ricever quel gastigo, che le parrà dritto di darne*[271]. Ben è vero, che mentre fin d’hora noi siam citati, veniamo per conseguenza ad essere rei: e l’essere rei e commissari in un tempo medesimo forse non può avenire senza dispregio *dell’ufficio*[272] che sosteniamo. E però più per zelo publico che per interesse nostro supplichiamo humilmente Vostre Signorie Serenissime [c 5r] che quando pure alla prudenza loro paia giusto, che noi patiamo qualche indignità, non comportino almeno che ne patisca *la persona publica in noi*[273]. Dalle fortezze di Savona li 13 d’agosto 1599.
Di Vostre Signorie Serenissime
humilissimi servitori
Lazaro Pichenotto, et Ansaldo Cebà Commissari
III. I governatori di Savona nella prima metà del Seicento
Si danno qui di seguito i nomi dei governatori di Savona dal 1606 al 1650, proseguendo l’elenco dei podestà pubblicato da Ottavio Varaldo. I nomi sono stati tratti dalla serie dei “Manuali dei decreti del Senato”, in ASGe, AS. Il governatore durava in carica dall’1 maggio al 30 aprile dell’anno successivo. Gli anni indicati nella colonna di sinistra si intendono perciò riferiti all’arco di tempo della carica.
1606-1607 Scipione Fieschi
1607-1608 Orazio Lercaro q. Sebastiano
1608-1609 Giulio Bona
1609-1610 Pietro Battista Cattaneo q. Filippo
1610-1611 Fabrizio Giustiniani q. Galeazzo
1611-1612 Giorgio Spinola q. Luciano
1612-1613 Gio. Francesco De Franceschi
1613-1614 Tommaso Di Negro q. Giovanni
1614-1615 Leonardo Della Torre
1615-1616 Giulio Pallavicino q. Gio.Batta
1616-1617 Manfredo Ravaschiero
1617-1618 Gio. Geronimo Di Negro q. Francesco
1618-1619 Francesco Calvi
1619-1620 Angelo Luigi Rivarola
1620-1621 Marco Antonio Doria
1621-1622 Giacomo Saluzzo
1622-1623 Gio. Batta Saluzzo
1623-1624 Luca Pallavicino q. Gio. Batta
1624-1625 Gio. Andrea De Franchi q. Stefano
1626-1627 Gio. Luca Spinola q. [Gio.Maria?]
1627-1628 Felice Spinola q. Agostino
1628-1629 Gio. Batta Baliani
1629-1630 Costantino Doria
1630-1631 Pietro Francesco Grimaldi
1631-1632 Giacomo De Franchi q. Ill.mo Federico
1632-1633 Gio. Batta Saluzzo
1633-1634 Filippo Pallavicino
1634-1635 Giovanni De Franchi
1635-1636 Gio. Giacomo Centurione
1636-1637 Bartolomeo Passano
1637-1638 Nicolò Lomellino dell’Ill.mo Giacomo
1638-1639 Cesare Durazzo
1639-1640 Geronimo Lercari
1640-1641 Federico Imperiale
1641-1642 Gio. Bernardo Veneroso
1642-1643 Luciano Spinola
1643-1644 Carlo Imperiale q. Michele
1644-1645 Paolo Maria De Marini
1645-1646 Bartolomeo Passano
1646-1647 Gio. Michele Zoagli
1647-1648 Gio. Batta Baliani
1648-1649 Felice De Mari
1649-1650 Gio. Tommaso Serra
- Le istruzioni ai commissari inviati nella fortezza di Savona, 1596
Il testo che qui si pubblica si trova in ASge, Manoscritti della Biblioteca 120, cc 248-251. È compreso nel primo di una serie di volumi dove Tommaso Franzone fece raccogliere, a metà Settecento, un buon numero di istruzioni a, e relazioni di, ambasciatori, commissari e inviati della Repubblica. Nella trascrizione sono stati rispettati i capoversi originali; le maiuscole sono state normalizzate all’uso attuale; la punteggiatura è stata modificata, aggiungendo qualche virgola e introducendo alcuni punti e virgola e punti fermi, solo dove necessario per la comprensione del testo; le abbreviazioni sono state sciolte; sono state mantenute le oscillazioni (per esempio: munitionero/monitionero); si sono invece uniformati, mantenendo la lezione più tradizionale, alcuni avverbi e preposizioni (qual si vogli, in oltre, ancor che, acciò che; ma si è preferito laonde a là onde e si è mantenuto tall’hora); alcune integrazioni ed emendazioni sono state segnalate tra parentesi quadre.
Instruttione data a Stefano Centurione q. Dominici q. Simonis, e Giulio Pallavicino q. Augustini q. Francisci Comissarii mandati nella fortezza di Savona l’anno 1596 a 2 d’agosto.
Magnifici Comissarii, voi sapete di quanto momento et importanza sia alla Republica nostra la rocca e cittadella di Saona, circa il che sarebbe di soverchio dilattarsi in parole con persone tali, quali sete voi così virtuosi, prudenti et amorevoli del publico; laonde potiamo restringerla in una parola, e dire che è l’ochio dritto della Republica nostra, talché è neccessario mettere ogni studio, cura e diligenza per ben custodirla con tutta gelosia, e darne carico, come si fa, a cittadini simili a voi interessati nel ben commune et amorevoli alla patria, e zelanti dell’honor proprio. Habbiam donque questa volta scelti voi magnifici Stefano Centurione q.Dominici e Giulio Pallavicino q.Illustrissimi Augustini fra li diece estratti a sorte in conformità della deliberatione novamente fatta intorno a questo particolare, alla cui fede commettiamo per doi mesi così importante officio, certi che dobbiate abondantemente corrispondere all’opinione che habbiamo di voi, sotto la cui cura e diligenza pare di poter riposare, se le fortezze debbano esser molto ben guardate e tenute sicure. Non bisognarebbe darvi altra instruttione, ma rimettere il tutto alla vostra prudenza e fede, solendosi dire: mitte sapientem, et nihil dices; pure non mancaremo per servar li ordini di darvi l’infrascritti capitoli i quali dovrete servare a pieno.
Vi si danno le vostre patenti in commune, però nel ripartire le vicende voi magnifico Stefano Centurione, come più provetto nell’età, sarete lo primo ad entrar nel maschio, et a voi si dà il contrasegno per dover esser amesso in esso, e consignato a voi la possessione della rocca, ricontrato [sic] il constrasegno vostro con quello che al presente ha il magnifico Giovanni Lomellino che trovarete in essa rocca, e presentate che havrete vostre patenti lettere.
Vi si dà un altro contrasegno per lo cui contro dovrete poi al suo tempo consignare le dette fortezze alli vostri successori sotto lo medesimo ordine e modo.
Starete voi detto magnifico Stefano in essa rocca comissario e castellano per un mese, e così fornito detto mese mutarete vicenda tra voi, ricevuto il maschio il magnifico Giulio vostro collega, quale sino a quel tempo sarà stato in cittadella, dove starete sino al fine del vostro ufficio nel modo che vi sarà stato detto vostro collega.
Quello che sarà nel maschio dovrà sempre haver la principalità, et havrà da esser [c 248v] superiore, et a lui quello della cittadella dovrà star ubidiente in quelle cose però che non repugnano alla presente instruttione e concernino alla salvezza, cautella e sigortà dell’un’e l’altra fortezza alla quale sete respettivamente esposti.
Nel scrivere, quando accaderà sottoscrivere le lettere, quel di maggior età per servar l’ordine solito harrà da sottoscriver primo, il che si dichiara acciò non resti differenza tra voi, com’è accaduto qualche volta, che quello della rocca voleva sottoscriver prima ancorché fosse più giovane, sì che resterà deciso che nella sottoscritione delle lettere missive preceda l’età.
Non deve né l’uno, né l’altro di voi uscir fuori delle fortezze che vi sono assignate, e date in custodia per qual si vogli accidente, né per quel tempo che li haverete a stare né l’uno né l’altro di voi tanto nella rocca, quanto nella cittadella dovrà intromettere respettivamente persona alcuna di fuori che non habbia l’ordine espresso per lettera de due Collegi sottoscritta per due cancellieri della Republica, che così se vi limita, divieta et ordina, essendo ciò passato per decreto solenne.
Si permetta però che lo cancelliero della cittadella, sempre che accaderà, possi solo entrare nella rocca per negotiare e raggionare con lo comissario della rocca di cose secondo occorreranno pertinenti e toccanti alla conservatione di esse fortezze, e così parimente senz’altro ordine o lettere si permette al podestà di detta città potervi entrare anch’egli accadendo il bisogno e neccessità di consigliare cosa così della terra, come delle fortezze, e voi sempre che vorrà entrare l’intrometterete senz’altro.
Potrà inoltre il comissario tanto del maschio quanto della cittadella introdurre in esse fortezze e ciascuna di esse per lo suo tempo accadendo qualche accidente o neccessità, così per lui come per li compagni di malatia, medici,barbieri, confessori et etiamdio lo sacerdote ordinario per la messa in feste di comandamento, e parimente lo lo deputato a provedere giorno per giorno alli bisogni così vostri, come delli compagni tanto del vivere, quanto d’altro, a cui dovrà esser libero potervi entrare, e ciascun di voi introdurlo, ma avertirete l’uno l’altro che quelli che vi entreranno anco con lettere et ordine di due Colleggi come sopra, o per vedere le fortezze o per altre caggioni, che alcuno non possi però dormire, né stare passata l’Ave Maria di notte.
Quello che sarà nel maschio per lo suo tempo non dovrà mai lasciare che le chiave si partino di mano sua, e sempre che si dovrà aprire le porte, o per intromettere o per mandar fuori persona o altro, egli personalmente aprirà la chiavatura della porta di dentro, et egli stesso metterà fuori di detta porta in detto spatio doi soldati con due armi d’asta, et indi tornerà a serrar la porta e chiavatura di dentro, poi per un buco che è in detta porta, per lo quale si può vedere serrare et aprire l’altra porta, porgerà a’ que due soldati che haverà messo fuori nel detto spatio le chiave dell’altra porta, e per lo medemo buco vederà chiavare et aprire la detta porta che va sul ponte de fuori, et introdotto e mandato fuori quel che bisogna vedrà riserrare e richiavare di [c 249r] nuovo la detta seconda porta dalli due soldati che saranno nel detto spatio, et aprirà la detta porta di dentro et introdurà detti due insieme con le persone e cose che haveranno da esser intromesse, et avertisca lo comissario della rocca sempre che si dovrà aprire haver da dieci o dodeci soldati che assistino con lui sempre pronti con l’armi in mano ad aprir la porta per ovviare e diffendere se alcuno li volesse forzare.
Non devono mai li soldati tanto del maschio quanto della cittadella uscir fuori delle fortezze respettivamente per qual si vogli accidente e raggione, e perciò si è deputato persona di fuora della rocca e cittadella che proveda alli bisogni dell’un’ e l’altra per le neccessità de comissarii e soldati continuamente, la qual persona, come si è detto, si permette che la possino introdure sempre che accaderà in l’una e l’altra fortezza, o ad esso de volersi [nel testo: valersi] entrare, o a comissarii di voler darli una cura più ch’un’altra.
Era permesso al comissario della cittadella prima lasciar uscir alcuno de soldati, ma poi meglio considerato il tutto, l’importanza di quelle fortezze e la qualità de tempi, si è ristretta questa licenza e si è vietato che parimente li soldati così della cittadella come del maschio non eschino mai fuori, e così si è provisto a tutte le loro neccessità per lo deputato per lo medemo modo che si è provisto a quello del maschio, e perché bisognano tall’hora i soldati di far lavare i suoi panni, in tal caso potranno domandare le loro lavandare, alle quali potranno fuori delle porte della cittadella morgere quei panni, che vorranno farsi lavare, e così quei del maschio per lo franco, e per tal modo li sarà commodità de poter provedere a loro bisogni, non volendo che donne et altri entrino in quelle fortezze in modo alcuno.
Era neccessario et ispediente per l’inanti che dalli comissarii ogni tre mesi si facesse l’inventario delle munitioni, armi, proviggioni et altre cose existenti nella rocca, ma essendoli da tempo in qua proposto un munitionario a cui tocca far questo inventario, tenere le cose ad ordine, e darne conto d’anno in anno, non accaderà che pigliate più detta fatica e carico; sarà ben parte vostra, massime di colui che haverà cura e carico del maschio, haver l’occhio che lo munitionero tenghi le cose bene acconcie et ordinate, talché se ne possa ben servire sempre con facilità, e sarà anche parte vostra andarle a rivedere, che vi sarà spatio per non star otiosi, e se sopra questo vi accaderà dare un racordo più che un altro lo potrete sempre fare.
Entrato che sarete nella rocca, e preso voi magnifico Stefano il possesso di quella, la prima cosa che farete, al che dovrete esser presenti ambi doi, farete leggere le vostre patenti in publico presenti tutti li soldati a’ quali darete giuramento uno per uno d’esser molto diligenti nelle loro fattioni, et ubidire a ciascuno di voi per lo tempo che havrete a guardare, reggere, mantenere e governare la detta rocca, il che fatto, voi magnifico Stefano restarete comissario in essa sino al tempo chiarito di sopra che sottentrarà il magnifico Giulio in detta cura, sino a tanto che mutarete vicenda come si è detto. [c 249v]
Nel maschio sono certi capitoli, leggi et ordini, li quali teniamo siano anco in cittadella, come si hanno da reggere e governare li soldati, e quello che habbino da osservare nelle loro fattioni, alle quali cose se alcuno contraverà, o mancarà ne dovrà haver la pena dovuta che sia a lui castigo et ad altri essempio, e cometterà ciascun di voi per lo suo tempo che siano intieramente osservati, e non comporterete bestemiatori, né rissosi, né anco negligenti nelle loro fattioni, e se vi saranno simili huomini oltre lo castigo che li darete, li scacciarete da quel stipendio, avisandocene perché possiamo mandarvi altri in scambio loro.
È ispediente e bisognerà siate molto solleciti che si faccino buone guardie fedeli e diligenti massime di notte, e sarà molto a proposito che vi andiate alcuna volta a rivedere voi in persona straordinariamente e non fidarvi sempre in tutto de vostri giovani, perché questo sarà vostro honore, debito e maggior sicurtà delle fortezze, et a questo modo si teniranno in timore li soldati a far le fattioni, e debito loro.
Farete bandire e publicare ciascun di voi per li compagni così dell’una come dell’altra fortezza che non si possano ricevere lettere né ambasciate che non sappiate di dove vengano, chi la scrive e chi le porta, facendo che le lettere siano prima portate in mano vostra che a colui a chi saranno indrizate, le quali aprirete per vedere chi le scrive, e di che tenore siano scritte, perché ne’ luoghi di gelosia è ispediente che si servi questo ordine, et haverete da publicare questo bando sotto gravissime pene, sino alla morte inclusive, per coloro che contrafacessero, e se alcuno venisse a parlare a qualche soldato, cercarete sempre d’intendere di che parli e di dove venga, percioché li andamenti di questo mondo sono hoggi dì tali che si può temere e sospettare d’ogni cosa specialmente in queste fortezze.
Intendiamo esser accaduto qualche volta nel tramutarsi li comissarii di rocca in cittadella e di cittadella in rocca che qualche soldati di cittadella sono soliti salire in rocca e di rocca discendere in cittadella, e può esser anco avvenuto che lo comissario della rocca habbi permesso che per la tralasciatione e diporti siano calati alcuni dal maschio in cittadella, e qualche altri soldati da cittadella ascesi nel maschio. Queste cose sono talmente contra l’animo e voler nostro e non vogliamo che da qui inanzi si usino queste domestichesse, né si faccino andar dall’una e l’altra fortezza, ma che li soldati stiano dove sono assignati, che se si harrà da far muttatione non si facci senz’ordine nostro; e perché non sta bene che li soldati d’una fortezza habbino cognitione dell’altra solamente nelle mutationi, li comissarii possino menar con loro i suoi giovani e secretarii. Voi magnifico Giulio, quando pigliarete lo possesso della cittadella, farete leggere in publico presenti li soldati tutte le vostre patenti, sì come sarà stato fatto in rocca, a’ quali darete lo giuramento d’esser diligenti e fedeli nel modo che sarà stato dato a quelli della rocca.
Trovarete lo castello ben provisto d’artiglieria, polvere, palle, armi e vettovaglie d’ogni sorte per li bisogni di chi vi harà a stare così sano, come malato, terreno e legname [nel testo: legame] in gran [c 250r] quantità, legne da bruggiare e valervene e potervene servire in ogni bisogno, et altre cose neccessarie sì per lo vivere, come per difendersi e ripararsi da nemici sempre che accadesse; e però havrete cura di conservarle più che si potrà, e non consumar la robba dove non sia la neccessità, come confidiamo che dobbiate fare, attento l’amorevolezza, virtù e discretione vostra; e se vi accaderà giornalmente una cosa più che un’altra, dandocene aviso, sarete subito proveduti, et in ogni caso lo Podestà attenderà anco con diligenza a non lasciarvi mancar cos’alcuna.
Non accade per hora altra instruttione o racordo, salvo replicarvi che siate molto avertiti, svegliati, et aveduti di cercar d’intendere li andamenti e cose che vanno a torno, e fare che li compagni siano molto diligenti nelle fattioni loro, ciascuno di voi nella sua cura, e che similmente lo Podestà vi tenghi avisati di tutto quello che sentirà di nuovo.
Nel resto siam tanto vicini, che se accaderà qualche cosa sempre vi possiamo dar aviso, e così voi a noi, nel che metterete cura per conto vostro, e noi vi avertiremo sempre di quanto sarà ispediente e provederemo al neccessario.
Restano nella rocca doi repositorii di legne, dove ne sono riposte cantara 2142, che haranno a servire per munitione di quelle fortezze, et avertirete che questa proviggione non si ha da toccare per voi; per questo habbiam fatto chiudere e murare le porte, lasciatovi però certi spiragli per conservaione di esse acciò che non marcischino e restino inutili; non permetterete donque che si tochino, essendovi così l’ordine con pena di scuti cento, senza nostro ordine e licenza.
L’ordinaria proviggione per li bisogni vostri potrete per sempre havere giornalmente, nella qual cosa vi si raccorda che li facciate haver ragionevol risparmio, acciò che non se ne consumi oltre la neccessità.
Perché si fecce altre volte un concerto con lo munitionero, lo quale contiene molti oblighi che ha per mantenimento di quelle fortezze, come consta per la capitolatione della quale si diede intiera copia alli vostri predecessori, sarà luogo che gliela domandiate, e che ve la diano, affinché possiate vedere tutto quello che è tenuto a osservare, e quel tanto si essequisca.
In oltre si dice che quando accadesse che li soldati tedeschi, quali sono in quelle fortezze, delinquissero in qual si vogli cosa, voi contra essi non havrete a procedere salvo a farli mettere in carcere, e poi darcene ragguaglio, perché di qui poi saranno dati l’ordini opportuni, e tanto essequirete.
E perché non conviene per tutti li rispetti che di notte alcuno si accosti sotto le fortezze, si è proveduto che né anco li pescatori se li possino accostare di notte più presso di quello che possi contenere il spatio di due tiri d’archibuggio l’uno appresso l’altro, e tanto provederete che segua, e farete che s’intimi a detti pescatori.
In oltre, non ostante qual si voglia cosa detta di sopra, vogliamo che in l’arrivar colà [c 250v] in dette fortezze vediate tutte le vettovaglie che sono per munitione in esse; quando vi parresse che [per] la vechiezza et altra consideratione si debbano cambiare in altre nove ce ne diate subito aviso, acciò che possiamo dar l’ordine al bisogno, incaricandovi a far questa diligenza in ogni modo, e quanto prima ce ne darete raguaglio, così trovandole buone, come caso che le trovaste deteriorate, e tanto essequirete, non intendendo però sminuire cosa alcuna all’obligo che ha lo munitionero.
Ancor resta [nel testo: resto] proveduto del modo che si ha da tenere intorno al consumo della polvere in coteste fortezze per conto delle salvi, e che vi sia la tariffa; nondimeno essendovi venuto a notitia che poco o nulla si osservi, in grave pregiudicio della Camera, non ci è parso darvi copia della tariffa, et espressamente comandarvi che l’osserviate e farla osservare intieramente sotto pena di pagare d’uno dodeci di quanto haveste contrafatto, nella quale incorrerete così voi, come lo munitionero, al quale habbiamo dato lo medemo ordine e copia di tariffa; et alla fine della vostra cura vogliamo che ci portiate fede di mano vostra e sottoscritta dal munitionero del consumo della polvere fatto in vostro tempo, per poter restar chiari che questo nostro ordine sia osservato.
Nell’instruttione del munitionero vi sono doi capitoli, uno de quali che gli è prohibito far spesa alcuna per li castelli, quando anco li comissarii glielo comandassero; nel altro si consente che di sua spontanea volontà possa far credenza a’ soldati sino in libre sei; et esso munitionero ci ha fatto lamenta che non li sono osservati, il che li ha apportato grave danno essendo molte volte stato forzato far credenza a’ soldati, da quali non ha potuto haver il pagamento. Vogliamo però che intieramente osserviate l’instruttione e capitoli che si hanno col detto monitionero, sotto pena de scuti 25 ogni volta che si contrafacesse, et a resarcire a detto monitionero tutto quello danno et interesse che per tal conto li haveste causato. Vogliamo ben credere che essendo voi e discreti et osservanti delli ordini nostri non si verrà a questa isperienza.
Al detto munitionero si pagano lire venti il mese per il suo stipendio, et havuta consideratione alla buona qualità et al buon servitio suo gli habbiamo cresciuto sino in lire 25 il mese, le quali per più commodità sua vogliamo che le siano pagate costì, quando si dà la paga a’ soldati, e dovrà haver principio alli [lacuna nel testo] del presente, havendo sino al detto giorno havuto il suo intiero pagamento.
Habbiamo ordinato a’ vostri preccessori che faccino far inventario di tutto quello che resta a cura e carico di detto munitionero, acciò che havendo lui da dar conto dell’amministratione si possi vedere il tutto; quando però per brevità del tempo non l’havessero fatto vogliamo che lo facciate voi e che lo mandiate quanto prima.
Si fanno in quelle fortezze alcuni lavori, de quali si è dato cura a detti vostri precessori; resterà [c 251r] cura a voi di far fornire quello che restasse a compire, e da loro vi sarà data informatione e notta di tutto quello tengono in commissione da noi; procurarete si facci buon lavoro, e che lo denaro si spendi con vantaggio della Camera, come confidiamo che farete, con tenerci avisati di quello si anderà facendo.
Havendo noi relatione del disordine e danno che alla giornata segue contro i poveri pescatori della città di Saona sotto pretesto e velame della proviggione de pesci per li magnifici comissarii, et havendo sopra ciò sentito le querelle fatteci in nome di detti pescatori, n’è parso il caso degno di proviggione e di rimedio, e così l’anno 1588 a 6 di novembre si è fatto lo decreto che in appresso segue, il quale dovrete voi e li vostri successori inviolabilmente et a pontino osservare sotto le pene in esso contenute.
Che li comissarii delle fortezze di Savona non possino comprare, né far comprare pesci dalle fortezze se non ne giorni di venere, sabbato, e vigilie delle feste solenni e nel tempo della quadragesima, e solamente per uso delle loro case sino a dieci libre di pesci il giorno dei sopra segnalati per cadauno sotto pena di scuti cento d’oro in oro d’Italia applicati alla Camera della Serenissima Republica di Genova ogni volta che contrafaranno.
Un oligarca antispagnolo del Seicento : GiamBattista Raggio
- Don Luigi Alfonso ha attirato per primo, salvo errore, l’attenzione su un manoscritto dell’Archivio di Stato di Genova che, sotto la segnatura di Manoscritti, n. 676, e il titolo anodino e impreciso di Pratiche trattate nei Consigli della Repubblica 1645-1655, costituisce una sorta di zibaldone di testi e riflessioni originali, trascrizioni di discorsi nel Minor Consiglio, copie di documenti, di Giambattista Raggio [274]. Gli estremi cronologici forniti dal titolo archivistico non sono del tutto esatti, perché lo zibaldone comprende alcune pagine riferite al 1641, mentre il termine finale va posticipato all’autunno 1657. Più precisamente, la massima parte dei testi risale agli anni 1651-1656. La paternità del manoscritto è ripetutamente attestata nel corso delle sue pagine, e si può considerare sicura. Resta invece per il momento oscura la ragione, che gli antichi inventari non aiutano a rischiarare, per la quale una miscellanea nata per evidente uso privato sia confluita nell’archivio della Repubblica.
- Per la verità, Giambattista Raggio di tracce negli archivi ne ha lasciate parecchie. Oltre alla miscellanea menzionata ne vanno infatti ricordate un’altra, di materia legale, conservata sempre tra i Manoscritti dell’Archivio di Stato di Genova, e due, rispettivamente sui conflitti tra la Repubblica e il padre inquisitore, e sui rapporti con il principe Andrea Doria Landi, che si trovano nell’Archivio Storico del Comune di Genova [275]. Inoltre il personaggio ebbe una carriera pubblica di tutto riguardo, che in questa sede è possibile ricostruire solo per sommi capi, ma che proprio la relativa abbondanza del materiale documentario dovrebbe permettere di ripercorrere nei dettagli, almeno nelle sue fasi più significative.
Nato verso il 1618 da Francesco Raggio q. Giambattista e da Maria Cavanna, il nostro personaggio fu ascritto al Liber nobilitatis nel 1634 assieme ai quattro fratelli [276]. Studiò diritto, dal momento che venne cooptato nel 1640 nel collegio dei giureconsulti di Genova, del quale fu esponente abbastanza autorevole da ricoprire l’incarico di rettore nel 1653 e nel 1659: e nelle vesti alterne di consulente del governo e di portavoce del collegio dei dottori ebbe modo di prendere più volte posizione sulle questioni riguardanti il sistema giudiziario genovese, nutrendo la convinzione che le Rote genovesi andassero riformate sostituendo almeno in quella civile ai giudici forestieri dei nazionali [277].
Di rilievo anche la sua presenza sulla scena politica, dove il padre lo precedette: segno che il lignaggio godeva di un prestigio confermato dalle scarse indicazioni fiscali, stando alle quali sia Francesco sia Giambattista erano accreditati di fortune in assoluto forse non rilevantissime, ma tali da collocarli tra i principali contribuenti del loro cognome [278]. Imbussolato nel Seminario nel 1638 e nuovamente nel 1652, Francesco fu estratto come procuratore per il biennio 1640-1641, e come senatore per il 1659-1660 [279]. Giambattista, imbussolato a sua volta nel 1660, 1677, 1681 e 1690, fu senatore nel 1675-1676, procuratore nel biennio 1 luglio 1678-30 giugno 1680, ancora procuratore nel 1688-1689, e senatore nel 1693-1694 [280]. Morì probabilmente alla fine del 1694; quattro anni dopo venne imbussolato nel Seminario il figlio Gian Francesco, nato nel 1652 [281].
Si sa inoltre che Giambattista fu nominato commissario generale per i confini nel ponente nell’ottobre 1651 [282]; nel 1653 si scusò dall’elezione a capitano di Chiavari (in quell’anno era rettore del collegio dei giureconsulti): una carica alla quale fu però rieletto due anni più tardi, esercitandola dal maggio 1655 all’aprile 1656 [283]. Nel 1660 Giambattista fu scelto come inviato straordinario a Vienna, a complimentare Leopoldo I per l’elezione alla corona imperiale, e restò assente da Genova dalla primavera del 1661 a quella dell’anno seguente [284]. La missione a Vienna rimase però la sola esperienza diplomatica di una carriera che sembra essersi svolta di preferenza attorno al Palazzo Ducale piuttosto che sulle strade del Dominio o d’Europa.
- Sin qui, e salve le precisazioni che una ricostruzione anno per anno del cursus honorum del Raggio può suggerire, la figura del nostro appare sotto una luce piuttosto sfumata: un oligarca, certo, ma non dei più illustri o prestigiosi. Un oligarca, però, del quale, a differenza dei più, è possibile penetrare il pensiero grazie alle testimonianze scritte che, effetto forse della formazione giuridica e della disposizione mentale a redigere pareri e consulti, ci ha lasciato. Con l’avvertenza che quelle testimonianze riguardano una stagione ben delimitata della sua carriera pubblica, e si arrestano, stando alle evidenze interne del manoscritto in questione, all’autunno 1657. Insomma: il Giambattista Raggio che ci si rivela non è l’anziano oligarca assiso sugli scranni del Senato o della Camera, ma il politico maturo, fertile di progetti e di sdegni, e ancora alle soglie degli impegni politici più cospicui, che gli toccarono nel corso della vecchiaia.
Il periodo interessato dalle annotazioni del Raggio, gli anni ‘50 del Seicento sino alla grande peste [285], presenta però molteplici motivi di interesse sul versante della storia politica della Repubblica. Si tratta di una fase di forte tensione dei rapporti tra Genova e la Spagna per l’acquisto patteggiato e poi rinnegato di Pontremoli; per la crisi, durata un anno, tra 1654 e 1655, scatenata dai sequestri attuati dalle autorità spagnole di Milano, Napoli e Sicilia a danno dei genovesi; per la controversia con l’ordine di Malta attorno alle precedenze e ai saluti allo stendardo; per il dispiegamento di un’intensa attività diplomatica da parte di Genova, rivolta a stabilire buone relazioni con Venezia, con l’Inghilterra del Protettorato di Cromwell, con la Francia di Mazzarino, e a manifestare così l’allentamento del tradizionale rapporto di subordinazione nei confronti della monarchia Cattolica. E proprio sotto l’aspetto politico-diplomatico, è stato osservato, questo momento del Seicento genovese ha ricevuto più attenzione di altri [286]. Quello che resta da comprendere meglio è però il processo di formazione delle decisioni del governo genovese: il lavorio di consulte, relazioni e dibattiti che stava al tempo stesso a monte delle risoluzioni di inviare (o non inviare) rappresentanti diplomatici presso le diverse potenze, e a valle della corrispondenza che dalle sedi estere giungeva sui tavoli della cancelleria genovese. Su questo processo, e sull’intreccio di questioni interne, diplomatiche, mercantili e giurisdizionali, la testimonianza di Giambattista Raggio offre informazioni preziose.
- Lungi dall’essere un osservatore distaccato, Raggio si rivela un partecipe e fazioso protagonista dei dibattiti politici di quel momento: e in questo sta un ulteriore motivo di interesse della sua testimonianza. Attraverso le sue pagine emerge, in tono talvolta virulento e sprezzante, l’orientamento antispagnolo (o repubblichista: ma di un repubblichismo spinto alle estreme conseguenze, che finiva col non distinguersi troppo dall’antispagnolismo [287]) di quei settori del patriziato genovese che più spinsero perché la Repubblica approfittasse della crisi politica generale degli anni ‘40 e ‘50, e in particolare di quella che sembrò per un momento l’avvisaglia del crollo della monarchia di Spagna, per realizzare un rilancio marinaro e una politica estera orgogliosamente autonoma [288]. Figure come Raffaele Della Torre (collega del Raggio, tra l’altro, nel collegio dei giureconsulti) e Federico Federici sono più note, grazie anche alla loro produzione pubblicistica e storica, attestazione di talenti letterari che negli appunti del nostro è difficile scorgere. Ma la lettura dello zibaldone del Raggio, a cominciare dal testo che qui si presenta perché esplicita ricapitolazione delle sue idee a proposito dei rapporti tra Genova e la Spagna, non lascia dubbi sulla comunanza di intenti. Ci si può anzi chiedere se le pagine del Raggio, proprio perché non destinate a circolare (ignoriamo quale distanza sia corsa tra gli appunti e l’esposizione che del suo pensiero Raggio faceva nelle assemblee della Repubblica), non rivelino opinioni e ambizioni che non era politicamente opportuno palesare nella loro radicalità, ma che forse erano condivise anche dagli altri antispagnoli [289]. L’ostilità alla Spagna era anzitutto avversione al partito spagnolo interno al patriziato genovese. In questo Raggio sviluppava un’opinione che era stata propria già del patriarca del pensiero repubblichista genovese, Andrea Spinola. Con la differenza che per Spinola si trattava di attaccare personaggi che appartenevano per la maggior parte alle casate della nobiltà “vecchia” dalla quale egli stesso proveniva, mentre nell’ostilità di Raggio (come in quella di Federici) pare di cogliere un astio fazioso, quale poteva esprimere solo chi aveva un retroterra “nuovo”. Uno dei fondamenti, se non dei presupposti, dell’orientamento repubblichista, quale si esprimeva ad esempio nelle pagine del Raggio, era l’insistenza sull’obbligo di lealtà esclusiva dei patrizi verso la Repubblica. In realtà, l’inserimento del ceto dirigente genovese nel sistema spagnolo, dal primo Cinquecento in poi, si era invece realizzato proprio attraverso una diffusa duplicità di lealtà, verso il re Cattolico e verso la Repubblica, se non addirittura attraverso un trasferimento di lealtà da questa a quello. Tanto più difficile diventava perciò coagulare attorno a un progetto omogeneo le diverse componenti dello schieramento repubblichista e antispagnolo, che comprendeva un cospicuo nucleo di nobili “vecchi”, da Agostino Pallavicini a Gian Agostino De Marini, da Gerolamo Lercari ad Alessandro Spinola, a Giacomo Lomellini: un personaggio, quest’ultimo, che il patriottismo repubblicano collocava sulla sponda politica meno prevedibile per chi traeva fortune dallo sfruttamento di un’impresa, come quella di Tabarca, concepibile solo all’interno del sistema spagnolo. Non si sfugge all’impressione che Raggio esemplificasse il nocciolo vero e duro dell’antispagnolismo genovese, che gli inviati e corrispondenti del re Cattolico, iberici e locali, identificavano (sagacemente, è da credere) non nei plutocrati patrioti, ma in uomini di legge e di corridoio che contavano proprio in quanto politici di mestiere.
- Uno dei tratti che pervadono gli scritti dei repubblichisti e degli antispagnoli dagli anni ‘30 agli anni ‘50 del Seicento è l’ampiezza delle ambizioni. Raggio non fa eccezione. L’ultimo dei suoi appunti, scritto dopo la fine del grande contagio e non prima del novembre 1657, elenca l’agenda dei problemi sul tavolo del governo, con un occhio di riguardo per le necessità di bilancio della Repubblica rese più gravi proprio dalle emergenze dell’epidemia. È un programma impressionante: « diminuire il numero dei soldati »; « sgravarsi del salario della Ruota Civile »; « far contribuire le opere pie »; « legge sopra la descrittione delli stabili »; « far pagare per via d’incavezzamento gl’habitanti tra le muraglie nuove e le vecchie »; « ordinare la città circa li prezzi delle cose, e salarij de servitori, et artisti »; « ottenere da Roma impositioni sopra li ecclesiastici »; « dar le galere in assento »; « demolire le fortezze di Sarzana e Ventimiglia »; « truovar modo che i genovesi habitanti fuori del Dominio paghino qualche annua contributione », e via imponendo e rivedendo, senza dimenticare le riforme più strettamente politiche e procedurali: « un magistrato a cui spetti far esseguire le leggi et ordini publici: questi potrebbero essere i Procuratori perpetui sotto pena di sindicato »; la sottrazione del voto sulle ascrizioni al Maggior Consiglio; « riveder le leggi spirate »; « far particolare instruttione per li duci »; « rispetto nelli Consegli »; « segretezza anche di ciò che si dà in stampa » (!); « provedere per la direttione et ordine dell’archivio »; « riformare il sindicato delle Ruote, e particolarmente della Civile » [290]. Non sappiamo se Raggio avesse elencato tutte le ipotesi e le proposte ventilate in quei frangenti, o se quello non fosse invece il catalogo di tutte le misure che personalmente prendeva in considerazione. Spingerebbe a questa seconda spiegazione la constatazione che non solo di problemi di bilancio si trattava, ma anche di questioni di scarso o inesistente beneficio finanziario. Salta però agli occhi che parecchie delle misure considerate erano foriere di tensioni interne (la generale manovra di inasprimento dei carichi fiscali) ed esterne (l’estensione della tassazione agli ecclesiastici), senza dire che l’appalto delle galee pubbliche, le riduzioni di truppe, le demolizioni di fortezze ribaltavano l’enfasi bellicista e riarmista che aveva accompagnato tutta la polemica patriottica del ventennio precedente. Quell’enfasi era stata certamente giustificata dal contesto internazionale del momento: i patrioti avevano propugnato una politica estera autonoma proprio nel mezzo di una guerra generale. Ma quando Raggio scriveva i suoi appunti il conflitto franco-spagnolo non doveva essersi ancora risolto nemmeno sul piano militare, per non parlare di quello diplomatico. Il ridimensionamento delle ambizioni fa perciò pensare piuttosto all’esaurimento della Repubblica all’indomani della grande peste. Il ricorso all’appalto delle galee, per contro, potrebbe non essere in contrasto con il caloroso sostegno che Raggio esprimeva alla creazione di una squadra di vascelli. In un altro scritto, purtroppo non datato, egli elencò infatti distintamente i « beneficij che risultano alla Republica dal tenere vascelli da guerra in mare » [291] e i « danni che risultarebbero dal tralasciare la continuatione de vascelli da guerra » [292]. Il prestigio, oltre che la speranza di rilancio mercantile, di Genova stavan a suo avviso nei vascelli. La rinuncia alla gestione statale dello stuolo delle galee si inquadra nel complesso reticolo di conflitti di interesse che agitava il mondo dell’armamento pubblico genovese e che traspare dalla riflessione tardiva di un altro testimone, Cassandro Liberti, pseudonimo forse di Nicolò Imperiale, un personaggio che Giambattista Raggio dovette verosimilmente incontrare nelle sale del Palazzo Ducale e nelle discussioni sull’armamento [293].
Non meno difficile si presentava il rapporto con Santa Romana Chiesa. Raggio opinava per una difesa intransigente del prestigio della Repubblica nei confronti dell’arcivescovo di Genova, il cardinale Stefano Durazzo, protagonista di una lungo conflitto giurisdizionale.
« Si doveva far ponto – osservava – nella prima venuta a Genova del cardinale Durazzo arcivescovo, e non lasciarlo entrare nella diocese, se non era risoluto di trattar con la Republica. Perché è veramente cosa molto nuova che l’ecclesiastico non debba trattare col laico, et è di poco decoro e dignità publica, che sia venuto il nuovo arcivescovo e non habbi visitato il principe laico; e pare ch’habbi voluto dire “andarò, farò le cose mie come ecclesiastico, per altro operarò come se non vi fosse prencipe laico”. Cosa degna da ponderarsi » [294].
D’altra parte, in una nota sulla condotta che la Repubblica avrebbe dovuto seguire nella corte di Roma, Raggio suggeriva una strategia dell’attenzione e della persuasione nei confronti del collegio cardinalizio, cercando di individuare per tempo a ogni conclave il candidato vincente, e organizzando alla bisogna i cardinali genovesi in una « fattione », opportunamente sovvenzionata dalla Repubblica [295]. Era una condotta da potenza, che avrebbe messo Genova sul piano della repubblica di Venezia. E come nel caso di Venezia, sembrava pensare Raggio, l’influenza a Roma non poteva andar disgiunta da un attento giurisdizionalismo domestico: « se non si facciamo stimare nella propria casa nostra, che speranza possiamo havere di farsi stimar fuori della patria e nelle corti de prencipi? » [296]. A Roma, in realtà, i cardinali genovesi contavano moltissimo: ma la loro influenza era diretta più a promuovere le fortune familiari e private (con un inevitabile guadagno di prestigio e ascendente sugli affari domestici per i parenti beneficati) che non quelle pubbliche.
- L’antispagnolismo finiva perciò col costituire il tema conduttore più coerente e meno problematico della polemica degli innovatori come Raggio, perché identificava un avversario esterno, per giunta ritenuto ormai in declino e quindi meno pericoloso, e i suoi accoliti interni, cittadini sleali che tanto più virtuosamente potevano perciò essere combattuti nelle quotidiane competizioni per le cariche pubbliche, come la causa di ogni disgrazia, insuccesso e umiliazione della Repubblica. E certo non era dubbio che le strategie dei ministri spagnoli a Madrid e le iniziative prese dai rappresentanti del re Cattolico nei suoi diversi domini risultassero sovente contrastanti con gli interessi della Repubblica, e con quelle sue ambizioni di guadagnare dignità di statuto internazionale che gli spagnoli giudicavano « desvanecimientos ». Ma in Raggio come in altri (Federici prima di lui) traspare, oltre che un disinteresse comprensibile ma dannoso all’analisi per la valutazione realistica delle priorità e degli interessi spagnoli, una sottovalutazione degli elementi di forza del sistema asburgico: a cominciare da quelli all’opera a Genova, che rendevano la fazione filospagnola del patriziato qualcosa di assai più coeso e capillare che non una coalizione di clientele familiari. L’eterogeneità e l’incertezza degli obiettivi stavano semmai nella galassia degli innovatori.
A Giambattista Raggio toccarono più di trentacinque anni di vita politica, spesso ai vertici della Repubblica, dopo che l’inchiostro si asciugò sulle pagine che abbiamo citato. Ameremmo recuperare (se sono sopravvissuti) i suoi successivi zibaldoni (difficile che cambiasse abitudini a quarant’anni), perché l’evolversi negli anni ‘60 e ‘70 dell’opinione patrizia verso la nuova politica mediterranea della Francia, che metteva da parte l’approccio di Mazzarino verso la Repubblica, costituisce un capitolo in larga parte bianco della storia genovese del Seicento.
APPENDICE
Il testo qui edito è tratto da ASG, ms. 676, cc. 444-454 v. Il manoscritto, una miscellanea che reca sul dorso il titolo archivistico « Pratiche trattate nei consigli della Repubblica 1645-1655 », consiste di cc. III bianche non numerate + cc. 506 con numerazione archivistica (in realtà 507, perché per una svista tra le cc. 37 e 38 è rimasto un foglio non numerato, che si è contrassegnato come 38 bis) + cc. III bianche non numerate, di misure diverse, comprese entro i mm. 320 x 215. La copertina in cartone rigido, di fattura tardottocentesca o primonovecentesca, misura mm. 330 x 225. Sono bianche le carte 10, 15, 16, 32-41, 57, 74, 75, 84, 86, 87, 100, 101, 103, 104, 113, 114, 115, 122, 123, 125, 127, 131, 135-141, 144-150, 162-165, 172-175, 178, 188 r., 195 v., 211 v., 212-215, 217 v., 236 v., 237 v., 238-240, 246, 249, 250, 284, 299 v., 300, 301 v., 305, 310 v., 342 v., 379 v., 380-382, 383 v., 384, 390 v., 391 r., 392 v., 393, 395, 398, 399, 402, 403, 404 v., 411, 412 r., 413 v., 414, 415, 435 v., 439, 443, 455-461, 470 v., 471-473, 478 v., 481, 485 v., 487 v., 495, 498, 499 r. Alcune pagine recano segno di una precedente, sporadica numerazione archivistica. La grafia è per la massima parte della stessa mano, che si deve ritenere quella del Raggio; si trovano però anche scritti di mani diverse e uno stampato.
Le abbreviazioni, non molto numerose, sono state sciolte; con le parentesi uncinate si sono segnalate le lacune, e con gli asterischi le aggiunte marginali. La trascrizione ha rispettato la grafia originale, fatta eccezione per gli accenti, che sono stati rettificati. Sono state inoltre normalizzate le iniziali maiuscole, conservandole agli aggettivi solo quando adoperati in senso antonomastico. Occasionalmente si è modificata la punteggiatura per facilitare la leggibilità del testo.
GiamBattista Raggio
Varie considerationi per le prattiche, che s’hanno con Spagna, e per la miglior direttione delle cose publiche
P°. Che li spagnuoli non sono in stato di romperla con la Republica, essendo essi eshaustissimi di denaro, e di forze, le quali sono occupate, e distratte in più parti maggiormente ad essi importanti, e che chiedono precisa assistenza per neccessità.
2°. Che non sa arrivare a conoscere, con qual fondamento di buona, e ben fondata politica s’applichino a dar disgusto alla Republica, et a rendersi ogni giorno più mal’inclinati gl’animi genovesi verso la corona del re Cattolico.
3°. Che i spagnuoli sanno benissimo, che in occasione, ch’eglino si muovessero efficacemente per via di guerra, o sotto specie d’essa, noi non potressimo reggersi da noi stessi, e perciò saressimo neccessitati di ricorrer al soccorso d’altri; nel qual caso sanno pure, che conseguenze, e che notabili pregiuditij risultarebbero loro per li stati, ch’hanno nell’Italia, porta di cui è Genova.
4°. Che i spagnuoli vedendo, che la Republica va crescendo con brio, come che torni loro a conto, che non cresca, né che decresca, procurano per ogni strada di mortificarla non solo per intimorirla, ma etiamdio per discreditarla appresso d’ogni altro prencipe.
5°. Che perciò i spagnuoli hanno sempre procurato la depressione della Republica tanto appresso dell’Imperatore, quando ci diede il titolo di Serenissimo, quanto appresso il Papa, et altri principi, quando si procurano le honoranze regie dovute tanto giustamente [297].
6°. Che non hanno mai fatta doglianza alcuna, col Granduca, per quanto egli da anni in qua habbia tolta la mano all’ambasciatore Cattolico; e pure fanno doglianza con noi della siglia levata all’ambasciatore [298].
7°. Che non c’hanno concesso Pontremoli, non tornando loro a conto, che la Republica cresca di stato, e di forze [299].
8°. Che per quanto habbino per massima, che la Republica non creschi, e s’augumenti, ad ogni modo per il passato han sempre dimostrato in apparenza di voler ogni suo maggior vantaggio, et accrescimento; che tali / (c. 444 v.) massime sono state da essi pratticate anche nella stessa prattica di Pontremoli inclusive, ma poi hanno cominciato a levar anche le sodisfattioni in apparenza; e perciò haver introdotte le doglianze contro la Republica, e licentiato il nostro ambasciator Mari nella forma, ch’egli ha scritto con sua de’ 5 maggio 1651 [300].
9°. Che tali doglianze sono state fatte con grand’artificio per intimorirci e ridurci a qualc’uno di quelle cose, ch’eglino desiderano.
10°. Che molte di quelle cose, sopra le quali sono doglianze, sono del tutto irretratabili; che quelle, che si potrebbero ritrattare, e ridurre allo stato primiero, non devono alterarsi, non solo perché vedendosi riuscito il fine loro, si servirebbero sempre del pretesto di doglianze con aggionger motivi per farci temere, ma molto più perché sarebbe un dichiararsi indegni d’haver fatto quel, che s’è fatto, e s’accrescerebbe al discapito, che già ha in molte cose la publica dignità, questa nuova indegnità, che ci renderebbe appresso il mondo quasi infami.
11°. Che noi dobbiamo mantener più virilmente, che si può la publica dignità e difender, che non si discapiti in essa, perché i popoli nostri non c’apprendino per non buoni al governo; essendo anche neccessaria l’estimatione publica per contener in ufficio, et in ogni buon risguardo i sudditi, et i popoli soggetti.
12°. Che la Republica ha perduto qualche poco di sua estimatione appresso de’ suoi sudditi per la negatione di Pontremoli, fattagli da’ spagnuoli, sgridandone ogni minimo plebeo, et infimo della plebaia, se bene anche per questo gl’animi universalmente si disaffettionano da gl’interessi de spagnuoli.
13°. Che le doglianze introdotte da’ spagnuoli sono state principalmente promosse dalle male sodisfattioni, ch’hanno qui le case del duca Doria, e del marchese Spinola; e per introdurre le loro, che sono le ultime quatro, hanno pretermesso le otto antecedenti per colorirle con pretesti più accreditati, e di qualche apparenza; che tanto più questo si deve credere quanto che le quatro / (c. 445 r.) ultime doglianze furono portate come accidentali, et a caso. Artificio, quanto più essatto nel mostrar negligenza, più fino riesce per raccogliere [301] che [302] principalmente son considerabili le quatro ultime doglianze: et essersi serviti delle prime otto per mero pretesto dell’ultime quatro [303].
14°. Che i spagnuoli per quanto in tempo di Filippo 2° sino a Filippo 3° inclusive havessero per massima di reggere il governo della nobiltà, e di star bene universalmente con essa, ad ogni modo poi hanno havuto per massima di star bene non più col corpo della nobiltà, ma con alcuni pochi solamente, con l’autorità, et adherenza de’ quali hanno stimato, e stimano, che debbano restar impedite ne’ consegli tutte quelle deliberationi, che potessero esser contrarie al gusto loro.
15°. Che perciò reggono ad ogni potere le dette case, le quale anche si sono accresciute con quelle del marchese Spinola [304]; et hora comincia ad apparire quella del marchese Serra [305], applicandosi anche a quelle del marchese Gio. Batta Mari [306].
16°. Che sì come a principio si doveva riparare, et andar alla mano alle dette case, ch’hora sono in posto; almeno a quelle, che cominciano a tentarlo, si osti con quelle maniere, che saranno neccessarie.
17°. Che sarebbe accertato a dette case già cresciute dissimulare le loro apparenze, ma contenerle efficacemente nella sostanza.
18°. Che co’ spagnuoli non possiamo ritrattar alcuna di quelle attioni, sopra quali cascano le doglianze, solo col conceder essi a noi qualc’una di quelle cose, che maggiormente desideriamo per decoro, e crescimento della publica dignità, perché in questa maniera con fare, ut facias, et con dare, ut des sarebbe salvata la publica dignità.
19°. Che per quanto non si debba temere de’ spagnuoli, cioè ch’essi debbano muover guerra, o qualche pregiuditio simile; ad ogni maniera perché non ci strapazzino, è neccessario in ordine a questo temerli; e perciò per contenerli a che non procedino inanzi nelli strapazzi, è / (c. 445 v.) più, che neccessario far qualche risolutioni, che faccino apprender loro d’esser noi uniti, e risoluti, et in tal modo ingelosirli, perché ingelositi non ha dubio, che cessaranno.
20°. Che quando i soli moti di gelosia per se stessi siano sufficienti, come che per altro i spagnuoli stimassero, ch’anche noi, come pur fann’essi, strepitassemo con le voci, senz’effetto alcuno, esser neccessario far questi moti di gelosia talmente ordinati all’attacco con qualche principe, che, con fondamento vero, e reale possano restar i spagnuoli ingelositi.
- Che se il re tralasciasse di mandar qui il suo ambasciatore per continuare a mostrar più fondate le sue doglianze; la qual’omissione a esso, et a gl’interessi della sua corona poco rilevarebbe, come che assistino al suo servitio li ministri, che pur egli ha qui, come il marchese Spinola, e D. Carlo Doria [307].
- Considerare, se in tal caso fosse accertato di prohibire sotto gravissime pene, che cittadini della Republica, et i quali, come tali devono intendere d’essere soggetti alle leggi della Republica, non possano essercitare magisterio per alcun principe; e godere di tal pretesto per neccessitarli a stantiare fuori dello stato della Republica.
- Ch’è bene avvertire gl’andamenti di queste case, vedendo, che vanno procurando d’acquistar gl’animi di qualche giovannotti cittadini, essercitando poi con l’amicitia, et adherenza di questi un certo che di predominanza sopra gl’altri.
- Ch’è per altra parte buon governo, che qualche nostri cittadini ben affetti continuino l’amicitia con dette case, risoluti però di appartarsene radicitus, quando conoscessero, che dette case mal corrispondono a’ desiderij, et alla santa mente della Republica.
- Che per farsi stimare nelle corti de prencipi, essendo la estimatione l’anima del principe, senza la quale resta incadaverito, è neccessario proseguir l’armamento deliberato, per le conseguenze, e buoni effetti, che può portare, e non lasciare, che resti / (c. 446 r.) interrotto, come fu quello dell’armanento di sequele, a cui sicome s’oppose al certo la corona di Spagna, o suoi ministri per li suoi fini; così con ogni sforzo s’opporrà a questo armamento deliberato non solo per li fini primieri, ma molto più per le male sodisfattioni, che pretende havere con la Republica.
- Considerare, che il signor duca dell’Infantado [308] ambasciatore di sua maestà Cattolica appresso il Pontefice ha ultimamente sparso per la corte le male sodisfattioni, che il suo re pretende havere con la Republica.
- Considerare, se tal publicatione sia fatta a fine, o d’intimorirci, o di raccoglier da tal semente qualche cohonestatione a qualche dimostratione, che fossero per fare i spagnuoli.
- Considerare, se il contenuto della lettera de’ 23 giugno del segretario maggiore del re di Francia disseminato nella presente settimana di luglio [309] per Genua da Giannettino Giustiniano possa esser di giovamento, o di nocumento alla Republica in ordine alli spagnuoli, come che troppo ingelositi applichino il pensiero ad assicurarsi di quel, che possono temere [310].
- è certo però, che i spagnuoli hoggidì non sono in stato di fare nocumento alla Republica; è però accertato star avvertiti ad ogni minimo moto, ch’eglino faccino.
- Considerare, se la disseminatione fatta in Roma da’ spagnuoli per mezzo dell’ambasciatore duca d’Infantado sia a fine di far sapere notoriamente le pretensioni, de’ quali si querela il re, acciò il Papa, o altro principe si frametta ad aggiustar in qualche modo dette pretensioni.
- Considerare, se tal disseminatione è fatta forse per minacciar bensì a’ genovesi, ma anche perché da tal minaccia indirrettamente ne concepisca timore qualc’altro prencipe in Italia, come che possa dubitare, che il fuoco acceso per li Genovesi possa esser rivoltato, come immediatamente destinato a’ suoi danni; essendo segreto alto de prencipi ordinare una deliberatione apparentemente contro un Principe, e destinarlo essentialmente contro un altro. / (c. 446 v.)
- Le represaglie, e sequestri generali fatti in Napoli a 2 di Maggio 1654, et 20 detto in Milano, e quasi nello stesso tempo in Sicilia sono state ordinate dal re col consiglio non di stato, ma della gionta promosse dal marchese di Carasena governatore di Milano, e sollecitate in Madrid da Monsù Gramon[311] borgognone ad instanza d’esso, e promosse prima dal marchese de Leganés cognato del marchese Spinola[312].
- Sono state essequite contro l’intentione del re, ma fatte che sono le vorranno sostenere: vedasi l’assedio fatto in Castel S. Angelo col Pontefice Clemente settimo riferite dal Guicciardino [313].
- Sono state fatte, o perché si vada dal re con la corda al collo a chiedergli perdono, et a baciar il brugo, come si suol dire [314]; o perché per questa strada si offeriscano denari; o per introdurre disunione fra di noi; o per dar occasione, che si riattacchino le cose tra Spagna, e la Republica; o perché si lasci di proffessare neutralità fra le corone, non potendolo i spagnuoli soferire; *o perché trovandosi la Republica in obligo per così dire di buon governo, di mandare in Spagna un ambasciatore habbia il re apertura di mandar il suo a Genova che dal 1649 in qua doppo Ronchiglio [315] non ve ne tiene. E pure mentre non vi ha né il marchese Spinola, né il duca Doria, ha neccessità d’havervi ambasciatore per gl’interessi d’Italia, essendovi solo D. Diego de Laura segretario dell’ambasciata* [316].
- Convien avvertire, che se si faran perdere al re di Spagna quella città, o quell’altre fortezze, venendo il caso d’aggiustamento potrà pretendere, che per aggiustare la Republica gli facci restituire quel, che gl’ha fatto con la sua cooperatione perdere; e ciò non sarà più in mano della Republica.
- Con le represaglie seguite, come sopra, non è restato impedito il corso di fiera d’agosto, anzi ogni cosa si è raggiustata [317] in contanti; e si è veduto in fatti, che l’aggiustamento delle cose di fiera non dipende dalle rendite, che si hanno nelli stati di sua maestà.
- Molti, che hanno etiandio 25milla scuti di rendita nelli stati di sua maestà erano miserabili etiandio prima di detti sequestri, onde non si può far calcolo dell’azenda, che si ha in quelli regni [318].
- Noi saremo quel granello, che posto in una delle due bilancie / (c. 447 r.) farà traboccare quella, nella quale non sarà.
- La republica di Venetia all’hora solamente ha conosciuto di potere resistere alla potenza dell’Ottomano, quando è venuta alle prese; epure il Turco non è distratto da altra guerra [319].
- Il regno di Spagna non è più monarchia, ma un governo tirannico, e disordinato maneggiato da qualche ministri, che altro non rimirano, che alla loro cupidiggia, et alla distruttione di quel re.
- Non hanno i spagnuoli gente militare, come hanno i francesi, componendo gl’esserciti loro di gente forastiera, et i francesi di nationale, et a testa delli esserciti suoi va il proprio re di Francia.
- I spagnuoli sono un composto del sangue de’ mori, cioè di Maomethe, e di Moisè, gente vile, et abietta.
- L’ambasciatore di Spagna residente in Venetia disse al Collegio della detta republica, che facesse gratia la republica di Venetia a non intromettersi in questa prattica, perché si aggiusterebbe.
- La republica di Venetia troncò in detta occasione il filo d’ogni trattato, ch’era stato introdotto per via di Sangiavan Toffetti.
- Nota, che nel mese di maggio 1654 essendo andata una delle galere della Republica a Palermo, capitano di cui era Galeotto Pallavicino, fu neccessitata a fuggirsene a Genova atteso che hebbe notitia, che per le ripresaglie generali il duca dell’Infantado vice re di Sicilia haveva dato di già gl’ordini per trattenerla [320].
- Nota che poche settimane prima si è qui spesato per molti giorni, e tutta la sua corte, e nel viaggio sino alle marine di Spagna con quatro [321] galere il conte d’Ognate vice re ritornato da Napoli, e la spesa è arrivata a lire <…> [322]. / (c. 447 v.)
- Nota che dall’anno del 1640 in appresso corsari francesi, con toleranza della regina di Francia reggente col signor cardinal Mazzarino hanno depredato gran quantità di vascelli richissimi genovesi, e forastieri, ove vi hanno notabilissimo interesse i genovesi [323]
*Haver nota delle provisioni fatte circa la restitutione*.
- Il re di Francia ha fatto restituire alla Republica la galera Diana, che gl’anni passati tolsero i francesi alla spiaggia di San Remo in occasione, che si mandò all’armata di Francia a far complimento, et il pretesto fu per la perdita che Francia fece d’una sua galera ne’ nostri mari per causa de’ spagnuoli.
- I ministri di Spagna hanno mandato a’ ministri d’Italia, e publicato la copia del memoriale presentato a sua maestà Catolica dall’ambasciatore Sauli sopra li agravij fatti alla Republica da anni in qua da regij ministri in Italia, per occasione del [sic!] materie del Finalese, per le represaglie, e sequestri generali seguiti, e fatti in Napoli, Milano, e Sicilia. E la copia anche della risposta data al re al detto memoriale [324].
- Per parte dello Scopesi finarino a’ 28 di settembre 1654 è stata data supplica molto humile, nella quale dimanda a’ signori Protettori di S. Georgio la gratia del restante tempo di galera [325]. I signori Protettori gli hanno fatto restituire la supplica, perché la firmi, et ha detto un notaro finarino, che l’ha presentata, che la sottoscriverà, e detto notaro è suo parente. A’ 29 detto. Perché sarà mandata poi a’ Collegij serenissimi.
- Si deve avertire, che le represaglie, e sequestri generali cominciati in Napoli a 2 maggio 1654 furono ordinate sin in tempo del marchese di Leganés, da esso promosse, et ordinate ad Ognate vice re di Napoli [326], e tutto ciò prima delle cose del Finale; onde per altri rispetti, che per quelli di Finale sono state esseguite; et però non bisogna quietarsi, che aggiustate le cose del Finale sia tutto / (c. 448 r.) aggiustato, e conseguentemente è neccessario considerare, e consultare quel, che convenga operare in ordine al beneficio della Republica.
*Il prencipe Doria è morto a 19 di ottobre1654.*
- L’essercito francese s’è avanzato nello stato di Milano verso Tortona, et i soldati hanno fatto qualche danni, et è seguito in tutto, come si legge nel foglietto de’ 24 ottobre. Dimorando l’essercito francese nelli accennati posti di Basaluzzo, e Pasturana confini allo stato di questa Serenissima Republica, molti de’ soldati sbandatisi per rubbare, depredarono ancora alcune cassine di questi Cittadini, e sudditi, di che avisato il signor marescial di Grancé generale dell’armata del re Christianissimo [327], oltre l’havere in espressione del suo sentimento fatto subitamente publicare bandi molto rigorosi contra trasgressori, e molti di essi fatto anche impiccare, ha inviato qua espresso il signor conte di Bregi suo luogotenente generale, che accompagnato da molti mastri di campo si portò sabato passato dal serenissimo Duce, et eccellentissimi di Palazzo, e con presentare lettere credentiali di detto signor maresciallo fece larghi attestati della sua ottima volontà, e propensione verso questa serenissima Republica, e rappresentò il gran disgusto, che haveva ricevuto per li trascorsi commessi da’ soldati del suo essercito in sudette cassine, li quali quanto li fussero dispiacciuti haveva al possibile dimostrato non solo per espressione della sua particolare osservanza, che per essecutione de’ comandanti, e replicati ordini, che teneva da sua maestà Christianissima di over servire in tutte le occorrenze a questa Republica con tutte le forze della sua armata, delle quali ne faceva piena offerta, et essibitione ad ogni cenno di essa Republica. / (c. 448 v.)
- A 13 novembre 1654 arrivato qui il duca di Mantova d’anni 24 in circa; alloggiato in casa del signor Barnaba Centurione; vi ha dimorato incognito sino alli 19 detto; non ha voluto alcune publiche dimostrationi; ha ricusato anche quatro gentil’huomini deputati a servirlo, et accompagnarlo; ha accettato un barcheggio in galera, dove a spese publiche disnò, et hebbe una giornata molto bella, e di suo gran gusto; alla sera, festa di ballo in casa del signor Carlo Salvago. Al Palazzo han fatta deliberatione di spesarlo uscendo dalla città tanto per via di terra, quanto di mare; ha ricusato queste dimostrationi; et in cambio ha ricevuto il regallo di otto cascie di canditi in peso rubbi sei l’una, mandategli a drittura a Mantova [328].
- Il re di Francia ha ricevuto con le honoranze solite a farsi solamente a’ gl’ambasciatori di teste coronate l’ambasciator nostro Lazaro Spinola sotto li 17 genaro 1655. Si dice, che i spagnuoli n’habbiano gran rabbia [329].
- Il conte Protettore Cromuele d’Inghilterra ha ricevuto per quel, che si dice, con trattamenti simili d’honoranze pratticate solamente con ambasciatori di teste coronate l’ambasciator nostro Ugo Fiesco [330].
Si dice, che gl’ambasciatori di Spagna, e di Venetia habbian fatto ogni sforzo, e tentativo, perché detto ambasciatore non sia ricevuto, o almeno non fosse trattato nella forma, ch’è seguito.
- La corona di Francia, ch’è la 2.a fra le Corone, ci ha honorati; quella di Spagna ci fa ogni strapazzo. / (c. 449 r.)
- La massima pratticata hoggidì dalla Francia verso la Republica è di alienar più, che si può dalla Spagna gli animi delli genovesi, per poter poi, quando ottenga tale alienatione, proseguir avanti quel, che possa haversi figurato nell’animo; ma devesi tenere l’ochio attento ad ogni cosa, temere della superbia spagnuola, e non fidarsi dell’insinuatione francese.
- Notisi, che molti inconvenienti pregiudiciali al decoro della Republica pratticati contro d’essa da’ regij ministri di Spagna in Italia procedono da causa data da nostri medesimi cittadini genovesi. Come seguì lo strapazzo fatto in Milano dal marchese di Carasena alli ambasciatori della Republica in occasione di riverirla, e di fargli invito a nome della Republica intorno al suo passaggio per Genova verso Spagna, con far levare nel cortile del palazzo i cavalli dalla carozza di detti ambasciatori, ch’era a sei cavalli, pretendendo, che veruno possa caminar per Milano, et entrare in Palazzo, mentre vi è la regina, con carozza a sei [331]. Seguì anche lo stesso simile inconveniente per le sigortà delle navi di grano obligate verso l’ambasciator di Spagna per le provigioni, che andava facendo per lo stato di Milano; l’interesse delle quali spettando a Francesco Maria Balbi, et Agostino Airolo [332], che ne acquistarono dal detto ambasciatore, et altri ministri regij le cessioni, questi per scuodere dalle sigortà, che pretendevano di non esser’obligate, operarono, che il governatore di Milano facesse far passata con li serenissimi Collegi, accompagnata da maniere poco aggiustate, affinché le sigortà pagassero. / (c. 449 v.)
- Chi regge le ragioni della Republica circa il possesso del Mar ligustico ha una oppositione, et è che gli si dice, che egli non havendo effetti sequestrati da perdere, fa ciò che li passa per il capo, senza guardar all’interesse di tante case. A questa oppositione resta risposto, che anzi per indurre i spagnuoli a levare i sequestri, chi non vi ha in essi interesse, si espone di perder quel che ha a Genova, et in altri luogo [sic!] per farnelo ricuperare; anzi che quelli, ch’hanno gl’effetti sequestrati come inclinati alla Spagna non li perderebbero, questi all’incontro ne farebbero perdita irretratabile[333].
- Nel mese di marzo 1655 il marchese di Carasena governator di Milano, atteso che haveva inteso che il duca di Modena armava, andò con armata di 7000 huomini, fra’ quali 2milla tanti cavalli verso Regio [334]; e si posò verso Regio lontano un miglio; mandò il questore Stampa a dirgli, che si dichiarasse della causa, per la quale haveva armato, e che dasse [335] una delle sue fortezze in mano de regij ministri per sicurezza, che non armava a pregiuditio della corona di Spagna, e che contro di essa non voltarebbe le armi. Al qual questore rispose il duca, ch’egli era prencipe libero, e che non haveva occasione di dar conto delle cause, per le quali armava; e che le fortezze si acquistano con le armi; e nello stesso tempo il duca si spinse avanti entrando in Regio seguito da gran numero di nobiltà; e seguite non so che leggiere scaramucie con danno de’ spagnuoli, non vi fu impegno per alcuna delle parti.
Poi a’ 31 marzo è venuto aviso, che detto Carasena di notte se n’è partito lasciando libero lo stato di Modena con haver dimandato, et havuto il passo dal duca di Parma. / (c. 450 r.)
- 1655 a’ 7 di marzo a hore sedici è stato eletto Pontefice con voti tutti essendo in conclave cardinali in luogo d’Innocenzo X morto a’ 7 genaro, il cardinale Fabio Ghigi senese, chiamato hora Alessandro 7°, havendo dato il suo voto al cardinal Sachetti [336].
- Prima erano chiamati spagnuoli quelli, ch’havevano genio alli interessi di Spagna, e navarrini quelli, che lo havevano a quelli di Francia. Hora nella città si chiamano spagnuoli quelli, che con li concetti, e con le propositioni non sostengono la libertà, et il decoro della Republica, e quelli, che lo sostengono son chiamati navarrini [337].
- Notisi, che a’ 14, o 15 del corrente mese d’aprile fu spedito da Milano un corriere al Finale, il quale passò per qui contro ogni stile, andando i corrieri a dirittura da Milano a Finale; ma si nota, che detta speditione fu fatta qui con misterio grande: cioè perché si sapesse qui, che il corriere sudetto portava al Finale ordini espressi del governatore di Milano a’ finarini di non trafficare, e di non negotiare per non dar’occasione di disturbi alla Republica in essecutione degl’ordini regij havuti con lettera de 24, o 25 decembre 1655, copia de’ quali si hebbe a palazzo. Il tutto a fine, che non si mandi colà la barca di S. Georgio a far la diligenza contro finarini, perché palesemente negotiavano, e trafficavano, e defraudavano la Casa di S. Georgio de’ dovuti dirritti.
E se non fosse, che nelli detti ordini vi è, che è rinuovatione delli già havuti, e dati dal detto governatore in detta materia, si haverebbe potuto temere, che fussero usciti per far apparire, che gli ordini sudetti sono stati dati doppo che la Republica ha levate le galere, e doppo, che di tal levata n’è andato l’aviso in Madrid, di dove poi perciò sono stati detti ordini; e per far apparire, che la levata delle galere non produce altro frutto, / (c. 450 v.) che quello degl’ordini sudetti, e niente ha da sperare rispetto alla rivocatione de’ sequestri.
- Notisi, che a’ 17 del corrente si è visto un capitolo di lettera, per il quale pare, che il governatore di Milano desiderarebbe, che tutto s’aggiustasse in Milano, dicendo, che da nessun’altro la Republica potrà haver partito più vantaggioso, che da esso signor governatore.
- Notisi, che il governatore di Milano marchese di Caracena ha fatto penetrare a Palazzo per mezzo del signor Steffano Balbi [338], ch’egli rivocarà li sequestri, e darà gli ordini anche per Napoli, e Sicilia, purché habbia una morale sicurezza, che la Republica poi habbia a liberar per gratia lo Scopesi, il che egli permetterà, che facci, restituisca le barche, e mercantie, revochi li bandi, e gride etc. E perciò desidera che in Milano vi sia persona per la Republica. Poi ha fatto che il presidente Arese [339] ne scrivi al detto signor Steffano; e mentre stavano le cose in questo stato, e detto governatore procurava con tutti li sforzi, che s’introducesse la forma di aggiustar in Milano, sono venute col corriere, che fu spedito da Pichenotti, lettere di Spagna de’ 6, e 7 d’aprile.
- Nelle quali in sostanza si contiene, che l’ambasciatore nostro per non poter ottenere i dispacci in conformità dell’aggiustato per mezzo di Macerati era stato a licentiarsi da D. Luis d’Aro [340], il quale non le haveva replicato altro; sua maestà però gl’haveva detto, che ponesse in scritto ciò, che nell’appontato havevano mancato d’essequire in Italia i suoi regij ministri. Che, sì come l’ambasciatore nostro haveva scritto, e publicamente era stato sparso, che quando in fine di novembre, o principio di decembre passato l’ambasciatore era / (c. 451 r.) per licentiarsi di corte, vedendo di non esser stato accettati i partiti da esso proposti in conformità de’ gl’ordini havuti dalla Republica, e che li ministri di sua maestà non ne proponevano, che egli potesse accettare, all’hora fu trattenuto per mezzo del conte Macerati, e che in sostanza i regij ministri havevano in tal forma mostrato di desiderar onninamente l’aggiustamento, et havervi a tal’effetto fraposto il mezzo del detto Macerati, non potevano i regij ministri sofferire, che fusse stata sparsa questa cosa, parendogli, che fusse in offesa, e poca dignità del re loro; il che avertirono nelle cose, che furono conchiuse in fine di decembre passato, perché non volevano, che nelle scritture apparisse, che vi fusse stato medianero [341] alcuno. Hora per rimediare a quel, che si fece all’hora, e per toglier quell’atto con un altro atto contrario, hanno i ministri lasciato licentiare l’ambasciatore da se stessi; ma il re l’ha poi trattenuto con ordinargli, che ponga in scritto, come sopra, il che gli presentò la seconda festa di Pasqua. Dette lettere contengono anche, che i regij ministri non sapevano romeprla, perché conoscono, che non sta loro bene; non sapevano aggiustarla, perché non sanno venir all’aggiustamento, mentre per mezzo d’esso non può loro riuscire d’acquistar alcuna di quelle cose a vantaggio loro, che si havevano presupposto.
- Qui correvano le voci d’alcuni, i quali erano tutti applicati, perché riuscisse l’aggiustare per via di Milano, come desidera il governatore, sì perché egli per questa strada si riconciliarebbe con la Republica, sì anche pararebbe, che / (c. 451 v.) la Republica baciasse, come si suol dire il brugo [342], con riconocere [controllare] l’aggiustamento dal detto governatore. Et i studij, e le applicationi di molti tendevano qui.
- Ma a’ 8 di maggio 1655 giorno anniversario dell’aviso, che nel detto giorno dell’antecedente anno 1654 s’hebbe da Napoli delli sequestri generali, sono venute con corriere spedito dall’ambasciatore in 17 giorni lettere d’esso con aviso dell’aggiustamento fatto in Spagna nella forma, che si doverà poi sapere; le lettere sono de’ 20 Aprile e le più fresche de’ <…>; s’aggionge, che per via di Alicante s’erano già havute otto giorni prima lettere de’ 21 di detto luogo con aviso, che di corte era ivi arrivata la notitia, che tutto era aggiustato; et una lettera de’ 10 detto di Madrid del signor Ansaldo Imperiale avisa, che l’aggiustamento era per farsi etc. Attenderne l’essito[343].
- Procurare d’aggiustar per l’avenire con andare alle radici; il che non può seguire, se non con la vendita del Finale, o con la dichiaratione della signoria, e dominio del Mar ligustico.
- Prevenire a quelle riconventioni, che secondo le contingenze faranno verso la Republica i regij ministri; cioè di cozzammento nel trattar l’aggiustamento; le cose fatte in Francia, et in Inghilterra; ascrittione di Mazzarino [344]; assoldamento de soldati per serviggio d’esso, oltre li suoi capi.
- Notisi, che il marchese Spinola si rode di non haver parte nell’aggiustamento di cose, che si stima esser state scomposte per suggestione d’esso, e per sua instigatione. / (c. 452 r.)
- Nota, che con l’aviso venuto di Madrid sotto li 8 di maggio havendo Diego di Laura segretario di questa ambasciata dato aviso al governatore di Milano de gl’ordini venuti di Spagna, quali gli deve havere inviati, sotto li 10 detto verso la sera[345] e ritornato il corriere spedito dal detto Diego con lettera del governatore per esso, nella quale gli dà ordine, che rappresenti a sua serenità, ch’egli sarà pronto a fare la rivocatione de’ sequestri, ma che prima di farla ha stimato accertato fargli rappresentare, se la Republica havesse per bene di mandar persona a Milano, con la quale si potesse trattare, et havesse facoltà d’aggiustar tutto il restante. Ma che quando qua non s’inclini a fare la missione sudetta, ch’egli sarà pronto ad essequire gl’ordini regij, non ostante le innovationi ultimemente seguite.
*Le innovationi, che vengono asserite, sono le prese di due barche, ch’andavano al Finale fatte dalla solita barca di S. Georgio per haver contravenuto alle regole di S. Georgio, seguito in principio di maggio*.
- Nota, che il serenissimo Duce dovendo haver detto sotto li 13 di maggio al doppo pranzo a Diego di Laura quello, che alla mattina dello stesso giorno haveva risoluto il consiglio di numero dupplicato sopra la forma d’aggiustamento mandata ultimamente da Madrid, e sopra l’espositione fattagli dal detto Diego in nome del governatore di Milano sotto li 10 detto verso la sera, poi a’ 17 detto a mezzo giorno è comparso corriero da Milano spedito qui, con aviso, che il governatore haveva fatta la rivocatione de’ sequestri, e dato ordine si liberassero i prigioni, e si restituissero le barche prese ne’ nostri mari, e che di tutto se ne farebbe la publicatione passate le feste di Pentecoste, ch’attualmente correvano; e che detto corriere passava per le poste con ogni celerità per lo stesso effetto a Napoli, et in Sicilia; et in fatti il Centanaro, ch’era prigione a Finale, si è qui veduto libero a’ 18 di maggio; et hoggi che siamo a’ 20 vi è altro di nuovo. / (c. 452 v.)
- Nota, che a’ 11 ottobre 1655 Monsù Plessis Bisesson destinato ambasciatore ordinario in Venetia per la corona di Francia è stato come straordinario nelli Collegi serenissimi alloggiato a spese publiche, e dicesi, che si sia rallegrato in nome del re di Francia dell’aggiustamento seguito co’ spagnuoli per conto delle cose del Finale, avertendo a non fidarsi di questo aggiustamento, offerendo sempre a nome di sua maestà Christianissima l’assistenza e forza delle armi francesi. E dicesi, che habbia lasciato appresso della Republica le sue espositioni in scritto *che poi ho havute* [346].
- Nota, che a’ 20 di novembre del 1655 giorno di sabato alla mattina entrarono nel porto di Genova tre galere di Malta col stendardo, le quali doppo d’haver salutata la città, dichiararono poi di salutare solamente lo stendardo di Spagna, come fecero non salutando lo stendardo della Republica, il che sentito da’ serenissimi Collegi giontatisi subito ordinarono al sargente generale, che dovesse far intendere al generale delle sudette galere di Malta, che dovesse salutare lo standardo della Republica, perché altrimente ne sarebbe fatto il dovuto risentimento; et a quest’effetto ordinarono al sargente generale, che, se fra un hora dette galere di Malta non havessero salutato, dovesse far loro sparar contro da tutti li cannoni, che sono alli posti della città. Il generale di dette galere di Malta intesa tal risolutione fece salutare lo stendardo della Republica, e restò prattica terminata [347].
- Nota, che a’ 21 decembre 1655 s’hebbe notitia per mezzo del console di Napoli, che essendo stato incontrato verso quelle parti dalle galere di Malta un vascello di Bartolomeo Micone mercante genovese, e quello fermato, e venuto a bordo detti delle galere vi salirono sopra, e fattosi dar lo stendardo, ch’era con arma della Republica, portatolo sopra la capitana, e condottovi il patrone di detto vascello con qualche marinari alla presenza d’esso / (c. 453 r.) fu stracciato, calpestato, et usato que’ strapazzi, che deve avisare detto console, e fu soggionto al detto patrone, che ciò era fatto da’ sudetti di Malta per quello, che la Republica haveva ultimamente fatto alle dette galere, quando entrarono nel porto di Genova, e che dovesse avisarne la sua Republica; e che haverebbero detti di Malta fatto il simile alle galere, quando l’havessero incontrate.
*Nota, ch’essendosi nello stesso tempo mandata verso Sicilia la galera S. Bernardo, è stata sotto li 18 decembre richiamata con speditioni per via di terra, e di mare*.
- Nota, che essendo i mesi passati, cioè tra li 6 e 23 novembre 1655 nel porto di Marsiglia una delle galere della Republica nostra, et essendo non so che corsari nelle marine di Marsiglia, quella plebe tumultuariamente s’imbarcò al numero di 300 sopra detta galera, et andò verso li sudetti Pirati, contro de’ quali sparato il cannone, una delle barche de’ sudetti corsari, ch’era ben armata, rispose con sì fiere cannonate, che furono colpite in un subito tredici persone della galera, cioè otto francesi, e 5 della nostra galera, e fra essi il comito Montano, il consigliere, o sia pilotto Ghersi, due bonavoglia, et un forzato, ch’è quel Peira; col che la galera si lasciò d’accordo, perché i soldati, che v’erano, si truovavano disarmati da’ francesi, e questi per paura si erano nascosti nelli rimezzi, e perciò era impossibile, che combattesse [348].
- Nota, che a’ 2 marzo 1656 entrò alla publica udienza delli serenissimi Collegi il signor Antonio Felis consigliere di stato, e primo consule dell’anno passato stato deputato dalla sua città di Marsiglia per venire a dare a questi signori serenissimi sodisfattione della violenza, che usò le settimane passate quella plebe ad una delle galere della serenissima Republica, de’ quale si servì per scacciare dalla vista del porto li corsari, che l’infestavano; entrò, dico, detto giorno 2 marzo presentando a’ signori serenissimi la lettera credentiale del Conseglio della città, et altra del signor duca di Mercurio [349], e con un discorso molto riverente, e concetti espressivi d’un vivo sentimento / (c. 453 v.) per lo successo già detto pregò instantemente li serenissimi Collegi a condonare l’errore, e voler’insieme intercedere a’ colpevoli dalla maestà del re Christianissimo il perdono [350].
- Nota, che a’ 24 di marzo 1656 per mezzo del nostro residente in Roma si è havuto aviso, che atteso l’esser state neccessitate le galere di Malta a salutare, mentr’erano le settimane passate nel nostro porto, cioè verso il fine di novembre del 1655, era stato carcerato in Malta il comendator fra Raffaele Spinola, et il generale d’esse galere, con haver privato della qualità di capitano di due d’esse il cavalier Grimaldo figlio del signor Silvestro, et il cavalier Airolo del q. signor Gio. Tomaso, et haver decretato, che a’ genovesi nell’avenire non si debba dar l’habito di Malta, e perciò sia stato negato alli figli delli signori Ugo Fiesco, e Filippo Spinola q. Iulij, che a tal effetto s’erano trasferiti in Malta nel ritorno, che dal porto di Genova hanno fatto colà dette galere.
- Notisi, che in occasione delle contingenze di Valenza posta in Lombardia, intorno a cui si truova con l’essercito francese il duca di Modena anche hoggi X settembre 1656, dubitandosi che possa cadergli nelle mani, qualche cittadino ansioso del successo va spesso a truovar Diego di Laura segretario dell’ambasciata di Spagna non solo per saper le nuove, ma anche a portargliele a sua propria casa, particolarmente quando possono apparire più tosto favorevoli a gl’interessi di Spagna. E questo non per altro, che per stimare, e darsi a credere questi tali, ch’egli ne dia aviso in Spagna, e pensano per questa via di vantaggiare gl’interessi loro. E questi son quelli, che / (c. 454 r.) da’ spagnuoli vengono chiamati i buoni servitori di sua maestà Catolica. E quindi è, che per quanto dalla Republica fossero fatte molte deliberationi per occasione de’ sequestri generali, le quali potevano apportare qualche pregiuditio a gl’interessi de’ spagnuoli, ad ogni modo non hanno mai temuto, che potessero andar avanti atteso haver qui molti loro dipendenti; i quali per quel, che risuonò nelle corti, et in particolare in quella di Vienna all’Imperatore, s’erano lasciati intendere, ch’erano concorsi in quelle deliberationi, perché esse dovevano essere il termine d’ogni cosa; et in esse doveva restar sfogato il moto universale; che per altro erano sicuri, che non sarebbe stato innovato altro in pregiuditio della corona di Spagna. Del che viddero la confermatione, quando non fu trattenuto più doppo detti sequestri il stuolo delle galere di D. Carlo Doria, che pur si poteva trattenere; e quando viddero pagati denari a Napoli, et a Milano, che pur in vigore delle publiche deliberationi si doveva impedire, che non fosse pagato denaro alcuno.
- Io dubito, che la deliberatione di far l’armata habbia havuto il concorso de’ sudetti tali, quando ve ne siano [351], col supposto che non possa riuscir l’armata, affinché chi la promuove resti scapricciato, e si quieti una volta, e non si tratti più di far armata, come che tali deliberationi tanto più poste in atto siano di gelosia a’ spagnuoli; e vedendola riuscita devono haver / (c. 454 v.) procurato d’impedirne l’uscita, et hor che si truova fuori da quei che non sono buoni cittadini della Republica dev’essere desiderato che non faccia preda alcuna, e che ritorni se non disfatta, almen con poca riputatione publica [352].
- Dubito, che per impedire il proseguimento dell’armamento maritimo, o sia del convoio prendino pretesto di dire, che detto nostro armamento, che al presente X di settembre 1656 si truova verso Lisbona habbia dato qualche aiuto per mezzo di carichi, ch’habbiano fatto acqua per l’armata inglese [353], a fin di usar poca convenienza con detto nostro convoio, e neccessitarlo a non andar più per l’avenire nelle parti di Spagna, e impedirci in questo modo il comercio, la contrattatione. et il negotio.
Un pittore cappuccino tra i magnifici[354]
- Come quelle di Rubens, la vita e l’opera di Bernardo Strozzi sono racchiuse entro i confini temporali di quello che è ormai consuetudine chiamare il “secolo dei genovesi”, ovvero la fase di preminenza degli uomini d’affari della Repubblica nel servizio finanziario degli Asburgo di Spagna[355]. Se infatti quando la formula venne coniata il secolo sembrava trovare un termine con la cosiddetta bancarotta spagnola del 1627, ormai si conviene di prolungarne la durata di almeno una ventina d’anni, sino alla successiva crisi finanziaria della monarchia Cattolica, nel 1647[356]. A quella data, del resto, anche il ruolo internazionale della monarchia di Spagna appariva ridimensionato, e si poteva addirittura pronosticarne (anche a Genova, negli ambienti antispagnoli) un crollo che non si verificò[357].
Strozzi nacque pochi anni dopo il successo strategico degli asientistas de dinero genovesi, giunti nel 1579 a controllare la gestione delle fiere di cambio dette “di Bisenzone”[358]. Quando il pittore morì, le relazioni tra i finanzieri della Superba e la Spagna apparivano ormai sfilacciate, anche se il rapporto politico tra la Repubblica e il re Cattolico era destinato a durare: se non altro, per mancanza di alternative praticabili. La simbiosi tra la Repubblica e gli Austrias, affermatasi nel corso del Cinquecento e fondata sulla “fortezza dell’interesse” era risultata solidissima[359].
- La straordinaria fortuna degli uomini d’affari genovesi, generalmente patrizi, altrimenti mercanti desiderosi di diventarlo, trasformò, assieme alle strutture sociali cittadine, il treno di vita del ceto dirigente della Repubblica. Gli investimenti nell’edilizia di prestigio e nell’abbellimento delle dimore private e delle chiese attuati tra Cinque e Seicento furono enormi quanto i guadagni realizzati[360]. Il parallelo raffinamento del modo di vivere del ceto dirigente fu però bersaglio immediato di una vivace polemica. Contro l’adozione di “costumi cavallereschi”, ritenuti poco consoni al carattere del cittadino di repubblica, una generazione di scrittori politici genovesi, anch’essi patrizi, prese eloquentemente posizione[361]. I profitti realizzati nel giro d’affari con la Spagna parevano a più d’un polemista un modo sottile ed efficacissimo tenere la Repubblica inestricabilmente legata al suo protettore. I nemici dell’identificazione tra interessi genovesi e interessi spagnoli, definiti da fonti coeve diverse come “repubblichisti”, propugnavano il ritorno dei genovesi (e intendevano dei patrizi, anzitutto) alle attività mercantili e marinare, trascurate a vantaggio degli investimenti finanziari. Caldeggiavano anche il rafforzamento militare della Repubblica (soprattutto sul mare, dove la maggior e miglior parte delle forze armate genovesi era al servizio del re di Spagna), e una politica estera autonoma e ambiziosa[362]. Il modello implicito di una linea di tal genere assomigliava molto a Venezia: anche se troppo grandi erano differenze tra le due repubbliche e i loro ceti dirigenti per poter mai originare proposte di imitazione del modello veneziano. I critici dello status quo genovese stabilirono però contatti con i principali antagonisti della Spagna: la corte pontificia durante il papato di Urbano VIII; la Francia[363]. Venezia, più che un referente politico, rimase perciò un esempio lontano. Quando Andrea Spinola, che visitò la città lagunare e vi investì una parte delle sue sostanze, ritirandole dai domini spagnoli, commentava con disapprovazione, a proposito di ciò che accadeva a Genova, “qui non siamo a Sparta né in Venezia”, o quando Raffaele Della Torre, il politico impegnato forse più di chiunque altro a orientare la politica genovese in senso antispagnolo negli anni ‘30-’40, si domandava retoricamente “crediam noi che i nostri vecchi prendessero i sogni men lieti e sicuri fra ruvide lenzuola filate dal casto dito delle madri con le lor fanti, che non fanno i presenti nelle sottilissime olande?”, trovava espressione aperta l’attitudine suntuaria, rigorista, inevitabilmente passatista, di esponenti pur assai diversi dell’intellighenzia genovese critica verso l’assetto politico della Repubblica[364].
- Personaggi come Andrea Spinola e Raffaele Della Torre non erano, per quanto si sa, importanti committenti di opere d’arte[365] Questo ruolo era generalmente proprio di patrizi non solo ricchi e influenti, ma inclini al conspicuous investment. Per costoro lavorò Strozzi, ricevendone protezione. La rete delle sue relazioni nell’élite cittadina non è stata ancora ricostruita nella sua completezza. Ma i nomi dei patrizi con i quali i documenti sinora noti lo mettono in rapporto rappresentano un campione esemplare di committenti e protettori, comprendente alcuni Doria, alcuni Centurione, e un Chiavari. Strozzi lavorò infatti per Gian Stefano Doria e per Luigi Centurione, col quale però entrò in lite. Nell’occasione, Marcantonio Doria si fece mallevadore del pittore. Nel processo intentato a Strozzi davanti al tribunale arcivescovile per esercizio illecito della pittura testimoniò a favore dell’artista un altro Centurione, Filippo q. Cristoforo. Più tardi appoggiò a Roma la richiesta dello Strozzi di lasciare i cappuccini Gian Luca Chiavari. Tutti campeggiano sulla scena politica genovese della prima metà del Seicento; e le loro carriere e vicende illustrano altrettanti aspetti del patriziato cittadino nella fase finale del “secolo dei genovesi”.
- Il padre di Luigi Centurione (del ramo dei Centurione Scotti), Barnaba, era diventato nel 1599 marchese di Morsasco, nel Monferrato, per investitura del duca di Mantova[366]. La sua non era la sola casata genovese legata da dipendenza feudale ai Gonzaga: un legame che rinsaldava probabilmente rapporti d’affari con un duca spesso e volentieri bisognoso di prestiti, che proprio la piazza di Genova poteva soddisfare[367]. Nel primo Seicento Luigi acquistò il palazzo costruito da Nicolosio Lomellino in Strada Nuova[368]. Il tragitto della famiglia sembra lineare: una casata di nobiltà ‘vecchia’, la cui solida fortuna era alimentata da interessi in Spagna[369], nell’arco di un ventennio si costituì una base feudale nell’entroterra appenninico e monferrino, a ridosso dei confini della Repubblica, e poco tempo dopo si concesse l’insediamento nella principale strada patrizia di Genova[370]. Per contro, l’immancabile presenza sul proscenio politico fu assai più discreta di quanto il rango e le risorse della casata non autorizzassero. Barnaba era stato senatore dal luglio 1590 al giugno 1592. Luigi entrò nel Senato nel 1635-36, e di nuovo nel 1649-50, quando doveva essere ormai molto vecchio[371]. Il suo cursus honorum giunse perciò all’apice quando Strozzi non si trovava più a Genova, ed addirittura quando era già morto.
- Filippo Centurione era un personaggio ancor più in vista, e collegato ad una parentela d’eccezione. Apparteneva infatti ad un ramo dei Centurione Oltramarini legato da cuginanza ai discendenti del grande banchiere Adamo, una delle figure di maggior rilievo sulla scena politica e finanziaria genovese del Cinquecento, consuocero e spalla politica di Andrea Doria[372]. I discendenti in linea diretta da Adamo portavano il titolo di marchesi di Estepa, acquistato dall’avo nel 1563. La discendenza di Battista, fratello di Adamo, acquisì anch’essa un titolo marchionale in Spagna, quello del Monasterio, ma assai più tardi, nel 1632, a beneficio di Ottavio, fratello del Filippo che testimoniò a favore di Bernardo Strozzi. Finanziere influentissimo alla corte spagnola durante i regni di Filippo III e Filippo IV, di quest’ultimo Ottavio fu factor real[373]. E, oltre che la finanza genovese, rappresentò a due riprese la Repubblica presso il re Cattolico[374]. Entrambi, Filippo e Ottavio, erano figli di Cristoforo q. Battista. La famiglia comprendeva sei fratelli, cinque dei quali attivi sulla scena pubblica genovese: in ordine probabile di età, Battista, Filippo, Gian Giacomo, Adamo, Ottavio[375]. Ad eccezione dell’ultimo, che risiedeva in Spagna, tutti vennero imbussolati nell’urna del Seminario, requisito indispensabile per accedere ai Collegi, cioè al vertice del governo della Repubblica[376]. Battista, il solo a non essere mai sorteggiato a far parte dei Collegi, scomparve anche per primo, il 7 dicembre 1615 (assai più longevi, i fratelli morirono, invece: Adamo nel 1635, Gian Giacomo nel 1644, Filippo nel 1649 e Ottavio nel 1652)[377]. In compenso, Filippo fu senatore dal luglio 1618 al giugno 1620, e procuratore nel biennio 1630-1631 (un momento cruciale questo, nella vicenda strozzesca); Gian Giacomo sedette nel Senato nel 1623-1624, e nuovamente nel 1637-1638; Adamo dal luglio 1629 al giugno 1631. Quasi in riconoscimento di una sorta di primato politico familiare, Filippo fu anche in corsa due volte per il dogato, nel 1617 e nel 1621, ma in entrambe le occasioni risultò il meno votato dei sei componenti la rosa dei candidati: non sappiamo se per i suoi troppo marcati legami con la Spagna, o per uno scarso apprezzamento del personaggio da parte dei colleghi[378].
- Se possibile, la figura pubblica di Gian Stefano Doria, che chiamò Strozzi ad affrescare il suo palazzo di piazza San Matteo, era anche più splendida. L’uomo passava per uno dei privati più ricchi d’Italia. Gli veniva attribuita la spropositata rendita annua di centomila scudi: indice approssimativo ma eloquente della considerazione nella quale era tenuta la sua fortuna. Prozio, padre e zio di Gian Stefano erano stati dogi[379]. Quanto a lui, nato verso il 1565, fece parte dei Collegi nel 1619-1621 come procuratore, dal luglio 1623 al giugno 1625 come senatore, dal luglio 1629 al giugno 1631 di nuovo come procuratore (anch’egli, come Filippo Centurione, si trovava al governo al momento della tormentata disputa strozzesca per abbandonare l’ordine dei cappuccini)[380]. I precedenti familiari ne facevano un candidato naturale al dogato. Lo aureolava inoltre la fama di stoica dedizione al bene pubblico messa in risalto dalla opposizione al ricatto del duca di Savoia, che minacciava di far giustiziare i patrizi prigionieri di guerra, tra i quali il nipote prediletto di Gian Stefano, se fosse stata eseguita la sentenza di morte contro il cospiratore Giulio Cesare Vachero[381]. Significativamente, non appena fu candidato per il dogato, nel luglio 1633, venne eletto. Il suo principale competitore era Agostino Pallavicini, considerato dagli spagnoli e dai loro alleati genovesi come un pericoloso avversario. In contrapposizione, Doria era l’uomo della Spagna. Non il solo, perché quell’anno la rosa dei candidati al dogato comprendeva almeno altri due personaggi che l’ambasciatore spagnolo Francisco de Melo classificò come “bien afectos a Su Magestad” nella dettagliata analisi delle inclinazioni politiche del patriziato genovese da lui redatta proprio nella primavera del 1633. Contendeva a Doria il dogato un altro personaggio sospetto agli spagnoli, Giambattista Lercari. La divisione dei suffragi degli antispagnoli su due candidati (ascesi entrambi al dogato nelle elezioni seguenti) facilitò l’elezione di Gian Stefano, con gran sollievo dell’ambasciatore de Melo[382]. I rapporti tra la Repubblica e la Spagna erano infatti piuttosto tesi. Non era ancora stata firmata la pace tra Genova e il duca di Savoia, che proprio la Spagna si era offerta di mediare. Tra i magnifici era forte l’irritazione per il disinteresse che a loro giudizio gli spagnoli dimostravano verso le richieste di un alleato fedele come la Repubblica. Gian Stefano Doria era un doge annunciato: ma la prudenza dettata dall’ondata di risentimento antispagnolo spinse il plutocrate a declinare di visitare l’ambasciatore di Spagna, e a concedere di nascosto il suo sostegno finanziario ai rappresentanti del re Cattolico[383]. Uscito di carica, Gian Stefano rimase appartato dalla vita pubblica, e morì nel dicembre 1643, nemmeno un anno prima dello Strozzi[384].
- Marcantonio Doria, mallevadore di Strozzi nei confronti di Luigi Centurione nel 1625, è ben noto agli studiosi della cultura genovese del primo Seicento come corrispondente di Ansaldo Cebà e di Matteo Peregrini, e a quelli della storia dell’arte come fratello di uno dei committenti genovesi di Rubens[385]. Napoli era la sua seconda patria, dove soggiornò ripetutamente e a lungo; nel viceregno la famiglia aveva interessi cospicui, che Marcantonio seguì con occhio vigile. Il padre Agostino era stato doge nel 1601-1603: Marcantonio era perciò cugino di Gian Stefano, e come lui apparteneva a una casata di nobiltà vecchia tra le più influenti. L’attenzione per le lettere e le arti non ne faceva però un estraniato dalla politica di palazzo, come i fratelli Gian Carlo e Giacomo Massimiliano. Al contrario, il suo cursus honorum fu pieno. Ne segnalano il livello, senza menzionare altre cariche, la presenza per undici volte tra i Trenta elettori dei Consigli, e le quattro estrazioni nei Collegi. Fu infatti procuratore nel 1625-1626 (ed era infatti citato come “Illustrissimo” nel documento strozzesco messo a suo tempo in rilievo da padre Molfino e meglio contestualizzato da don Luigi Alfonso[386]); senatore dal luglio 1628 al giugno 1630; nuovamente senatore nel 1640-1641 e poi dal luglio 1650 ai primi di novembre del 1651, quando morì in carica[387]. I contatti con il Cebà potrebbero far pensare a un’adesione alle idee “repubblichiste”, che proprio quando Marcantonio giungeva alle cariche più prestigiose raccoglievano consensi tra oligarchi di spicco, come l’ex doge e plutocrate Giacomo Lomellini. In realtà, nel 1633 l’ambasciatore spagnolo de Melo incluse tranquillamente Marcantonio tra i filospagnoli, segnalando nel contempo la consistenza dei suoi impegni nei domini di Filippo IV[388]. Nel suo caso, a differenza di quei personaggi che a dispetto dei loro affari privati si opponevano a una politica troppo filospagnola, gli interessi culturali erano scissi dalle valutazioni politiche.
- Nel giugno 1630 Marcantonio Doria fece parte di una deputazione incaricata di accogliere la regina d’Ungheria, Maria Anna d’Austria, di passaggio a Genova. Con lui si trovavano altri due personaggi citati nei documenti strozzeschi: Filippo Centurione e Gian Luca Chiavari. Quest’ultimo, che di lì a poco patrocinò la causa del pittore presso gli ambienti della curia pontificia, si differenziava sotto alcuni aspetti dagli altri patrizi in contatto con Strozzi. Intanto, era il solo appartenente alla nobiltà ‘nuova’, anziché alla ‘vecchia’[389]. Inoltre, aveva già raggiunto in quel momento il culmine della sua carriera pubblica, essendo stato doge nel cruciale biennio 1627-1629, quello della congiura di Vachero e del tendersi dei rapporti con la Spagna[390]. Infine, era noto come personaggio nettamente ostile agli spagnoli, legato alla curia barberiniana e, indirettamente, alla Francia. Anche Chiavari, discendente di seatieri come parecchi altri nobili “nuovi” influenti, era nato già ai vertici del patriziato. Il padre Gerolamo era stato doge nel 1583-1585. Ma la sua rete di parentele e di alleanze familiari era completamente diversa da quella di nobili ‘vecchi’ come i Centurione o i Doria, intrecciandosi con le principali casate ‘nuove’, di più o meno recente ascesa. Figlio di un doge, Gerolamo sposò la figlia di un altro doge, Pietro De Franchi, a sua volta legato da stretta parentela a Silvestro Invrea, doge nel 1607, e a Bernardo Clavarezza, doge nel 1615-1617[391]. I tre zii di Gian Luca furono tutti membri dei Collegi alla fine del Cinquecento e nel primissimo Seicento. Gian Luca e il fratello Tommaso ebbero cursus honorum brillanti: Tommaso fu tre volte nei Collegi e tredici volte tra gli Elettori dei Consigli; Gian Luca una sola volta senatore, dal luglio 1615 al giugno 1617, ma ben diciannove volte (un record) elettore dei Consigli. Insomma, i Chiavari furono presenti in forze nella ristretta élite di governo della Repubblica: quell’ottantina di personaggi che tra il 1576 e il 1657 detennero un quarto di tutti i posti nei Collegi, due terzi dei posti di elettore dei Consigli e due terzi delle candidature al dogato[392]. Gian Luca in particolare, coronò con il dogato una carriera caratterizzata da due importanti ambascerie: dalla primavera all’autunno del 1618 in Francia, e dal marzo 1625 al giugno 1627 a Roma, presso Urbano VIII. In Francia, il difficile avvio della sua missione, motivata dall’incidente provocato dall’arresto del patrizio filofrancese Claudio De Marini, era stato sbloccato grazie alla mediazione del nunzio apostolico a Parigi Guido Bentivoglio: un primo contatto con l’ambiente della curia romana, rinsaldato durante l’ambasceria presso il pontefice, che apprezzò Chiavari sul piano personale. Anche se non si ha sinora notizia di rapporti epistolari tra Gian Luca e i Barberini, non c’è dubbio che negli anni ‘30 egli apparisse agli inviati spagnoli a Genova un pericoloso esponente di quell’ala del patriziato che, appoggiandosi e alla Francia e al pontificato barberiniano, cercava di distanziare la Repubblica dall’alleanza spagnola[393].
- La sommaria rassegna dei committenti e protettori genovesi di Bernardo Strozzi mette in risalto un paradosso, che toccherà ai futuri biografi del pittore risolvere. I migliori committenti del pittore cappuccino furono personaggi della più grande e più ricca nobiltà genovese, legati tutti alla Spagna. Uno di loro, Gian Stefano Doria, divenne doge lo stesso anno in cui il pittore si rifugiò a Venezia; altri fecero parte dei Collegi quando Strozzi disputava si difendeva davanti al tribunale arcivescovile o conosceva la disgrazia del carcere conventuale. L’uomo che intercesse per il pittore presso la corte pontificia era stato anch’egli doge, e aveva fatto la conoscenza personale del pontefice. Le propensioni politiche di Gian Luca Chiavari erano opposte a quelle dei Doria e dei Centurione; ma anche il papa aveva sempre cercato di marcare le distanze dalla Spagna. Insomma, il pittore aveva accesso a chi si trovava ai vertici della Repubblica.
Perché, allora, protettori tanto influenti non riuscirono ad ottenere l’accoglimento delle sue richieste? Vennero interessati davvero alla sua sorte? O il rigore del cardinale di Sant’Onofrio, il solo tra i Barberini dedito esclusivamente alle cose dello spirito, per disgrazia di Strozzi cappuccino anch’egli, e influenzato da un personaggio (padre Neri) ostile al pittore, fece argine ad ogni influenza favorevole[394]? Qualche luce sulla vicenda potrà forse venire dall’esame dell’immensa corrispondenza barberiniana.
In ogni caso, il riluttante cappuccino riuscì ad abbandonare la città senza troppi intralci, per iniziare la sua carriera veneziana all’ombra di protezioni altrettanto influenti quanto quelle che si lasciava alle spalle. Ma, altro paradosso, abbandonò Genova proprio quando i suoi protettori filospagnoli cominciavano a subire l’assalto dei patrizi “repubblichisti” e filofrancesi, e raggiunse Venezia quando la stagione di tesa contrapposizione alla curia romana aperta dalla controversia dell’Interdetto si avviava alla conclusione[395].
Dai Grimaldi agli Spinola:
gli abitatori del palazzo spinola di pellicceria[396]
Che il Palazzo Spinola di Pellicceria sia stato dimora di personaggi di spicco del patriziato genovese per tutto il corso del Sei-Settecento è soltanto naturale. Ma di quali personaggi, e di quale spicco? Gli appunti che seguono si propongono come un semplice inizio di risposta a questi interrogativi.
Una prima osservazione: pur cambiando più volte proprietà, il Palazzo rimase sempre in una famiglia della nobiltà ‘vecchia’ e più illustre: dai Grimaldi ai Pallavicino, dai Doria agli Spinola di San Luca, ai quali ultimi è toccato lasciare il nome a un edificio del resto contiguo ai tradizionali insediamenti della casata. Effetto casuale delle successioni? Certamente: ma in quanto persistettero pratiche endogamiche tra le famiglie appartenenti alla stessa fascia (la più alta per ricchezza, prestigio e influenza) del patriziato. Questa endogamia all’interno del “portico” o fazione (secondo la dizione cinquecentesca: “portico di San Luca” la nobiltà ‘vecchia’, “portico di San Pietro” quella ‘nuova’) trova più d’un riscontro tra le famiglie ‘nuove’: ad esempio, nei ripetuti imparentamenti incrociati tra Durazzo, Balbi, e Brignole Sale fra fine Cinquecento e pieno Seicento. Non è tuttavia una tendenza uniforme delle grandi casate patrizie, le cui strategie matrimoniali meritano in realtà di essere ricostruite una per una[397].
All’origine, il Palazzo appartiene ad un ramo dei Grimaldi (i Grimaldi Cavalleroni) che, oltre a vivere assai vicino agli Spinola di San Luca, risulta già imparentato con essi nel pieno Cinquecento. Al tempo delle lotte tra nobili guelfi e ghibellini c’è stata rivalità tra le due famiglie, proprio per il possesso degli edifici presso San Luca. Ma nel Cinquecento è acqua passata: i Grimaldi Cavalleroni sono imparentati con famiglie, come gli Spinola e i De Mari, di antica tradizione filoimperiale. E non sorprende: il soprannome di questa branca dei discendenti di Rabella Grimaldi, il capoparte guelfo del primo Trecento, deriva (a dar credito al genealogista seicentesco della famiglia) dal titolo di cavaliere del Toson d’oro accordato nel 1525 da Carlo V a Giambattista Grimaldi q. Giorgio, signore di Montaldeo. Nell’occasione Giambattista e i fratelli Stefano e Nicolò sono creati conti palatini. Fedeltà asburgica e propensione cavalleresca contraddistinguono anche la generazione dei figli di Giambattista. Uno, Giangiacomo, è barone di San Felice, un altro, Agostino, di Montepeloso, nel regno di Napoli; Tommaso (un nome che ritornerà nella discendenza) comanda la cavalleria pontificia nel contado venassino, dove cade combattendo contro gli ugonotti nel 1584. Un luogo non casuale per morire: in effetti, il fratello Domenico, già commissario generale delle galee pontificie a Lepanto (dove ha combattuto anche un altro fratello, Giorgio, morto a Messina al rientro della flotta), è vescovo, e poi arcivescovo, di Avignone (e vi muore nel 1592), dopo essere passato per le sedi di Savona e di Cavaillon. Delle figlie di Giambattista, una sposa il principe di Monaco, un’altra Stefano De Mari cavaliere di Alcantara; una terza figlia, Maria, va in moglie a uno Spinola di San Luca, Francesco q. Giovanni, dei cosignori di Busalla, dal quale nasce (forse nel 1562) Andrea Spinola, uno degli intellettuali di punta della Genova del primo trentennio del Seicento, prolifico scrittore politico e padre spirituale dei patrizi detti “repubblichisti”[398]. Questa, sfrondata di alcuni altri congiunti, la famiglia di Francesco Grimaldi, il costruttore del palazzo di Pellicceria. Francesco stesso mantiene alta la vocazione militare della casa: nel 1580 serve Filippo II nella conquista del Portogallo al comando di truppe di cavalleria, e poi si fa asientista de galeras sempre per il re Cattolico. Nel 1586 Francesco sposa Lelia Pallavicini q. Agostino, figlia di uno dei magnati genovesi dell’allume e inquilino di Strada Nuova, e sorella del diarista Giulio Pallavicino[399].
Il successo sociale dei Cavalleroni è sanzionato da quello politico. Tanto Francesco quanto i fratelli Agostino, Niccolò e Gian Giacomo vengono imbussolati (il primo nel 1588, gli altri, rispettivamente, nel 1576, nel 1584, e nel 1593) nell’urna del Seminario, dalla quale sono estratti i membri dei Collegi (Senato e Camera), il governo della Repubblica[400]. Con poca fortuna, per altro: perché Francesco muore nel maggio 1606 senza essere mai estratto, seguendo la sorte del fratello Niccolò, scomparso sin dal maggio 1587; quanto ad Agostino e Gian Giacomo, fanno parte dei Collegi una sola volta ciascuno, prima di morire rispettivamente nel 1592 e nel 1608. Ulteriore contrassegno del prestigio del personaggio, Francesco è anche in corsa per il dogato, nel 1601: ma esce ultimo nella rosa dei sei candidati dalla quale viene eletto Agostino Doria[401]. Domenico, il fratello di Francesco, non è il solo prelato della casata, e neppure quello di maggiore spicco. Gerolamo, figlio di Gian Giacomo e cugino del Tommaso Grimaldi residente in Pellicceria, diventa a sua volta arcivescovo di Aix e cardinale, e collabora con il cardinale Mazzarino: segnale della conversione filofrancese di questi Grimaldi[402]. Rispetto all’irradiamento capillare della famiglia nella politica cittadina (Francesco copre l’importante carica di elettore dei Consigli quattro volte, fra il 1596 e il 1603, e i suoi tre fratelli sette volte complessivamente, fra il 1584 e il 1594), il ruolo di Tommaso Grimaldi, figlio di Francesco, appare piuttosto defilato[403]. Nato attorno al 1600[404], Tommaso è elettore dei Consigli una sola volta, nel 1636, e viene imbussolato nell’urna del Seminario nel 1644: gli tocca in sorte l’estrazione, come senatore, il 18 marzo 1647, in sostituzione dell’accanito antispagnolo Federico Federici, morto in carica: e nei Collegi rimane sino alla fine dell’anno[405]. Subito reimbussolato, nel giugno 1648, non viene più estratto prima della morte, nel novembre 1655.
Non sappiamo se Francesco Grimaldi condividesse l’orientamento “republichista” e le critiche rivolte alla Spagna e ai filospagnoli genovesi dal nipote ex sorore Andrea Spinola. C’è da dubitarne, visto il passato dell’uomo e la tradizione filoasburgica della famiglia. Ma abbiamo accennato alle inclinazioni dei figli di Gian Giacomo. E nel 1633 anche Tommaso Grimaldi viene censito dall’ambasciatore spagnolo don Francisco de Melo tra i “republiquistas mal afectos” al re, cioè tra i personaggi in quel momento non favorevoli agli interessi spagnoli[406]. Non sappiamo su quali elementi de Melo basasse la sua valutazione: se su azioni, o sulle parentele. Le quali, in effetti, si presentano comrpromettenti. Dal 1623 Tommaso è in effetti genero di un “repubblichista” di punta come Agostino Pallavicino. Amico professo del poeta Ansaldo Cebà (che gli dedica una raccolta delle sue rime) e di Andrea Spinola, Pallavicino è avversato e temuto dagli spagnoli (che lo considerano un nemico a tutti gli effetti, più che un repubblichista), e vedono come il fumo negli occhi la sua eventuale ascesa al dogato: mancata nel 1633, riuscita nel 1637. Politico attivista e controverso, una volta doge Agostino Pallavicino finsce con lo scontentare i suoi stessi sostenitori, sino ad offrire, gesto inedito, le dimissioni dalla carica[407]. Di Agostino Pallavicino Tommaso Grimaldi ha sposato, nel 1623, la figlia Dorotea. E al fratello di Dorotea, Ansaldo (nome che suona omaggio al Cebà), che di Tommaso è anche creditore, il Palazzo viene aggiudicato con una vendita in callega nel 1650[408].
Una storia di ascesa e caduta, quella dei Grimaldi Cavalleroni fra Cinque e Seicento? Forse è eccessivo sostenerlo; e non si dispone delle basi documentarie in proposito. Eppure: nel 1593 Francesco Grimaldi e i suoi fratelli risultano tutti tassati su imponibili scaglionati tra le 148O55 lire di Nicolò e le 258444 di Agostino, con Francesco attestato al secondo posto della graduatoria fraterna con 221944 lire, ingrossate da ulteriori, e prevedibili, redditi in Spagna[409]. Complessivamente, e dando per scontato che le capitazioni suggeriscono dei rapporti e degli ordini di grandezza, e non le consistenze effettive dei patrimoni, i Cavalleroni figurano tra i più ricchi del cognome Grimaldi e dell’intero patriziato genovese. Una posizione che la capitazione del 1624 conferma, visto che Tommaso risulta accreditato di un imponibile quasi milionario (940000 lire), e di imponibili simili i cugini; mentre, a raffronto, Agostino Pallavicino si vede tassare su 270000 lire[410]. Ancora: alla capitazione del 1630 per la costruzione delle nuove mura Tommaso paga l’aliquota più alta (200 lire), riservata a chi può vantare “gran lautezza di facoltà” (nell’occasione, la stessa aliquota del suocero Agostino Pallavicino)[411]. Sei anni dopo, alla successiva capitazione documentata, Tommaso non compare. Fatto non sorprendente, visto che la capitazione del 1636 copre uno spettro di contribuenti più ristretto di quella per le nuove mura[412]. Tuttavia, Agostino Pallavicino fa registrare un imponibile alto. Non c’è stato alcun fallimento (connesso alle difficoltà delle finanze spagnole in questi anni), perché questo comporterebbe l’esclusione dall’urna del Seminario; e la capitazione del 1682 riporta pur sempre i nomi dei figli di Tommaso, seppure con imponibili di rilievo relativamente minore[413]. Ma la cessione del Palazzo di Piazza Pellicceria, e in fondo la stessa scarsa carriera politica di Tommaso segnalano o un’allontanamento dalla città (per curare affari in Spagna o nei domini spagnoli?), o un ripiegamento. Momentaneo, visto che i discendenti di Tommaso avranno la loro parte di cariche pubbliche, sempre nel girone alto del governo.
L’acquirente della dimora di Pellicceria da Tommaso Grimaldi non è comunque l’ex doge Agostino Pallavicino, morto nel luglio 1649, ma il figlio Ansaldo, che già vi abita a pigione, nel 1650. Alla vigilia, si direbbe, dell’esordio nel cursus honorum alto, che per lui, nato verso il 1621, si apre proprio ora[414]. Ansaldo fa parte infatti dei Trenta elettori nel 1652 e 1654, e ancora nel 1658; in attesa dei quarant’anni prescritti per entrare nell’urna del Seminario. Ma una morte prematura, avvenuta in Fiandra verosimilmente nel 1660, interrompe all’improvviso la sua carriera politica, consegnando il Palazzo ad un bambino, Agostino, nato nel maggio 1659[415], avuto dalla moglie Teresa Lomellini di Giambattista, appartenente anch’ella ad una famiglia della nobiltà ‘vecchia’ e figlia di doge[416]. Agostino, ascritto al Libro d’Oro il 16 dicembre 1682, non ha invece carriera politica, perché prende i voti e inizia un cursus honorum ecclesiastico che lo porterà alla carica di protonotario apostolico e nunzio in Spagna[417]. Il palazzo di Pellicceria passa perciò alla sorella di Agostino, Anna Maria, sposata a Gerolamo Doria q. Paolo Francesco. Con il che, la dimora resta in una casata dogale, perché Gerolamo è nipote di Ambrogio Doria q. Paolo, doge per un mese nel 1621.
Dopo due proprietari rimasti per motivi diversi ai margini della politica cittadina, un oligarca vero. Gerolamo, nato nell’agosto 1648, ha un infatti una carriera politica intensissima[418]. Imbussolato nell’urna del Seminario nel 1689, viene estratto procuratore (con un ritardo considerevole) per il biennio 1 luglio 1709-30 giugno 1711; nuovamente imbussolato nel 1712, è governatore nel 1715-1717. Ulteriore imbussolamento nel 1718, rimasto senza esito per la morte sopravvenuta pochi anni dopo. Nei Trenta elettori nove volte (1696, 1701, 1703, 1705, 1707, 1711, 1713, 1718, 1720), Gerolamo è anche Protettore di San Giorgio nel 1701 e nel 1715, e candidato al dogato quattro volte, nel 1707, 1711, 1715, e 1719: sempre, però, con scarsi suffragi nella votazione finale. Muore nel 1719/1720, passando il testimone nell’urna del Seminario al figlio Paolo Francesco. Nato all’inizio di settembre del 1671, questi non ha sinora ricoperto incarichi di prestigio: fatto sorprendente, tenuto conto non solo del peso politico del padre e dell’opulenza della casata, ma anche del fatto che l’imbussolamento non avviene, come sarebbe consono allo status del personaggio, appena compiuti i quarant’anni. D’altra parte, Paolo Francesco non ha una vera e propria carriera politica. Non compare mai tra i Trenta elettori; viene imbussolato nel giugno 1719, ma estratto procuratore solo per il biennio 1 luglio 1730-30 giugno 1732. E’ il suo primo e ultimo momento sulla ribalta del governo genovese.
Alla sua morte palazzo ed eredità passano alla sorella Maddalena, sposa di Nicolò Spinola q. Francesco Maria, del ramo di San Luca, pronipote del doge Andrea q. Cristoforo (in carica nel 1639-1641, e a sua volta cugino e omonimo dell’ideologo “repubblichista”, e del condottiero e politico Ambrogio Spinola marchese de los Balbases). La casata è doviziosa. Tuttavia, nel confronto tra le fortune, almeno per quanto attestano le capitazioni, è Paolo Francesco a primeggiare. Nel 1731, con un imponibile di 4.055.000 lire, risulta il secondo contribuente del cognome Doria, mentre a Nicolò Spinola viene attribuito un imponibile di 1.780.000 lire. Nella capitazione successiva, del 1738, l’eredità di Paolo Francesco, a nome della sorella Maddalena Doria Spinola, mantiene la posizione di secondo imponibile Doria, confermandosi superiore alla fortuna attribuita a Nicolò Spinola, la sesta nella graduatoria di quelle degli Spinola[419]. Il palazzo resta, com’è ovvio, una dimora di oligarchi plutocrati. E torna ad essere una dimora dogale proprio grazie a Nicolò. Il riconoscimento premia un prestigio evidentemente riconosciuto, anche se non va associato ad un cursus honorum intenso come quello di Gerolamo Doria[420]. Battezzato il 15 novembre 1677, Nicolò nel 1720 viene debitamente imbussolato nell’urna del Seminario, ed estratto procuratore per il biennio 1721-1722. Reimbussolato nel 1723, non è più estratto. Tre volte (1726, 1728, e 1732) compare fra i Trenta elettori: una presenza non assidua. Non è nemmeno candidato al dogato sino al 1740; ma quell’anno, al primo tentativo, risulta eletto. Uscito di carica il 16 febbraio 1742, rimane procuratore perpetuo per poco più di un anno soltanto, perché muore il 25 aprile 1743. Ma stavolta il palazzo resta, e per due secoli, nella famiglia, della quale finirà col portare il nome.
Da Levanto a Genova.
famiglie levantesi nel patriziato genovese[421]
- Che Genova fosse da sempre un centro di immigrazione, e che fuori dalla città andassero cercate le origini più o meno lontane delle famiglie componenti lo stesso ceto di governo metropolitano, era ben chiaro alla coscienza dei genovesi dell’età moderna[422]. Tra Cinque e Seicento, genealogisti, eruditi raccoglitori di notizie, intellettuali impegnati a discutere origini e caratteristiche del patriziato cittadino concordavano nell’attribuire alle casate anche più illustri una provenienza forestiera, sia pure spesso e volentieri abbellita o inventata per nascondere modeste ascendenze, che per altro lo stesso cognome bastava a rivelare[423]. Principali aree di provenienza degli immigrati erano, comprensibilmente, le vallate vicine alla città, l’oltregiogo, borghi costieri e villaggi dell’entroterra di entrambe le riviere: anche se talvolta, perso il ricordo del luogo d’origine di casate da tempo inserite nell’élite cittadina, gli eruditi dovevano lasciare spazi bianchi nelle ‘schede’ relative, dei loro repertori[424]. In più casi, inoltre, la provenienza era individuata in più località, non necessariamente vicine: e se più spesso una delle provenienze appare piuttosto fantasiosa[425], in qualche caso la varietà riflette la possibile comunanza di cognome tra ceppi originariamente estranei.
- Anche da Levanto e dai suoi dintorni vennero in diversi tempi a Genova famiglie che si inserirono con successo nella vita economica e politica cittadina, ricoprendo cariche di anziano nel periodo del dogato perpetuo o entrando a far parte del corpo unico della nobiltà nel 1528: che era quanto bastava per meritare notizia nei repertori genealogici ed eruditi di fine Cinquecento e primo Seicento. A quell’epoca alcune risultavano già estinte: così gli Onesti, trasferitisi a Genova nel 1305 e la cui ultima menzione risaliva al 1460; i Pogliasca, provenienti anche del chiavarese, venuti da Levanto a Genova verso il 1370 e sopravvissuti fino a confluire nell’Albergo Negrone nel 1528; così i Viviani (de Viviano), co-giurati della sottomissione del borgo rivierasco a Genova nel 1229, e rappresentati negli annali politici del comune dominante da un Antonio “drapero”, anziano nel 1340 e nel 1345, e nel 1528 ascritti nell’Albergo Centurione[426]; così, ancora, i Rosa, di immigrazione antichissima (attorno al 1100) ma non più citati tra i detentori di cariche dopo il 1370[427]. Secondo un repertorista attivo negli anni Trenta del ‘600, ascendenza levantese aveva uno dei ceppi dei Moneglia, la cui origine più lontana è per altro segnalata dal cognome; dall’entroterra di Levanto (riferimento geografico, come vedremo subito, piuttosto generico) provenivano i da Passano, signori del luogo omonimo, da Monteruto i Pichenotti, da Framura gli Zino, da Godano gli Airolo, da altrettante “ville di Levanto” i Casale, Castellazzo, Guano; origine levantese veniva attribuita ad un ramo degli Anselmi, Belmosto, Bozolo, Bulfenghi, Cassana, Conte, Coronata, Federici (in questo caso confondendo Levanto e Sestri Levante), Gallo, Giamboni, Interiano; soltanto levantesi erano invece le radici attribuite ai Contardi e ai de Doctis[428]. La maggior parte delle famiglie suppostamente levantesi risultavano comunque estinte entro il ‘400 o nel corso del ‘500. Gli esatti limiti e le caratteristiche dello spoglio che i repertoristi di fine ‘500 e primo ‘600 fecero dei documenti comunali e notarili non sono del tutto chiari. Nessun dubbio, però, che le miscellanee di notizie degli eruditi genovesi meritino di essere scorse con sensibilità nuova, e che la miniera degli atti notarili riservi un tesoro di informazioni. In questa sede converrà limitare l’attenzione ad alcune casate levantesi delle quali è possibile seguire la parabola lungo l’età modena.
- I Levanto, anzitutto. Famiglia “clarissima”, secondo il Federici, il quale però distingueva “due linee orionde tutte dal detto luogo, una più antica dell’altra”[429]. Secondo un’altra fonte, il cognome Levanto avrebbe accomunato le famiglie Cingiali e Cicogna: sarebbe stato, insomma, cognome di albergo, sia pure piccolo. Dal punto di vista di una precisa caratterizzazione delle origini familiari la ricerca nei documenti medievali di personaggi levantesi rappresenta un osatcolo, più che un aiuto. Come collegare l’Oberto di Levanto che compariva tra i genovesi che giuravano la pace con i pisani del 1188 col Galeazzo Levanto che centosettanta anni più tardi si recava come ambasciatore presso il re di Portogallo e sposava una portoghese? Secondo un altro repertorio, del resto, era Tommaso Levanto a far parte nel 1358 di un’ambasceria genovese al re di Castiglia: segnale, in entrambi i casi, di una direzione di diaspora e di un terreno di radicamento. Qualche Levanto entrò nel 1398 nell’albergo De Franchi, e la discendenza si confuse con quella delle altre famiglie del consorzio[430]. Lo spoglio degli annali politici dell’epoca dei dogi perpetui forniva ai repertoristi cinque-seicenteschi una buona messe di personaggi insigniti dell’anzianato, di cariche nel Comune, in San Giorgio, nel governo di Corsica: nel complesso, un profilo da “cappellazzi”, ovvero da famiglia del “popolo grasso”, che era l’etichetta sotto la quale, con molta degnazione, collocava i Levanto il Federici. Una collocazione, del resto, confortata dai dettagli noti sulla collocazione socio-professionale di alcuni di loro: “speciaro”, nel 1400, un Levantino de Levanto; notaio, a metà del ‘400, Cristoforo; “seatero” Vincenzo q.Rolandi, morto nel 1520 e sepolto nella chiesa dell’Annunziata di Portoria[431]. Che uno stesso cognome di provenienza accomunasse più famiglie è attestato anche dal fatto che nel 1500 alcuni Levanto comparissero tra i mercatores albi, ed altri tra gli artifices nigri, e che nel 1528 dei Levanto fossero ascritti all’Albergo Grillo e all’Albergo Cibo, e dei Di Levanto all’Albergo Interiano[432]. Una sola linea, però, raggiunse i vertici della politica genovese nell’età moderna: quella rappresentata da Domenico Levanto q. Andrea q. Nicolò, imbussolato nell’urna del Seminario nel 1618 ed estratto come governatore per il biennio 1625- 1626, in un momento, tra l’altro, casualmente cruciale, poiché coincise con lo scoppio della guerra tra Genova e il duca di Savoia. Appena scaduto dalla carica, Domenico fu reimbussolato nel Seminario (nel 1627), ma non più estratto prima della morte, che lo colse il 28 maggio 1638. Nel 1624 e nel 1627 venne anche compreso fra i Trenta elettori del Minor Consiglio, una funzione di rilievo[433]. Nel volgere di pochi anni, insomma, l’addensarsi, per altro su un solo esponente della famiglia, di più contrassegni di prestigio politico[434]. A questi non sembra corrispondesse un patrimonio di eccezione. Per quel che le fonti fiscali possono valere come metro di misura delle fortune individuali, in assenza di stati patrimoniali e di indicatori non fiscali, l’immagine dei Levanto nel Cinque-Seicento non pare quella di un ceppo di plutocrati, anche se le loro risorse non dovevano essere trascurabili[435].
Nella lista dei contribuenti patrizi del 1593 compaiono sei Levanto, rappresentanti in sostanza tre linee: tre figli di Nicolò Levanto (Andrea, Gian Agostino, e Vincenzo), due figli di Rolando Levanto (Vincenzo e Giambattista), e un figlio di Domenico Levanto (Pietro Battista). Benché gli appartenenti alla prima linea siano accreditati di imponibili più alti dei consorti, nel complesso non si nota uno squilibrio troppo sensibile fra i sei contribuenti: lo scarto massimo è tra le 57.110 lire di Vincenzo di Nicolò e le 21.055 di Vincenzo di Rolando, e racchiude tutti i Levanto nel cerchio delle fortune medie. Nel 1624 Andrea e Nicolò Levanto (doveva trattarsi di Andrea q.Nicolò e di suo figlio) vennero tassati su un imponibile di tutto rispetto: 310.000 lire; particolare da notare, la tassa venne addebitata a Domenico Levanto, fratello di Nicolò, che ritroveremo tra breve[436]. Sei anni più tardi, in occasione della tassa per le Nuove mura, per la quale conosciamo l’imposta assegnata ai contribuenti, i Levanto tassati furono di nuovo più numerosi: Pietro Battista q.Domenico e tre suoi figli (Ugo, Raimondo e Giambattista), tutti con aliquote modeste, 12 lire il padre e 10 ognuno dei figli; Orazio q. Andrea q.Francesco, assente e non tassato; tre figli di Vincenzo Levanto, Rolando, Lelio e Gian Carlo, due dei quali assenti ed uno tassato per 25 lire; infine, Domenico q. Andrea e suo figlio Gian Andrea tassati rispettivamente per 100 e 50 lire, aliquote assai alte[437]. Nell’occasione venne tassata anche Lucrezia Levanto, la moglie di Nicolò q. Andrea, per 25 lire, con l’astensione, al momento dell’assegnazione della quota d’imposta, di Gian Filippo Saluzzo[438]. Nel 1636, ad una capitazione nella quale gli imponibili risultano generalmente piuttosto bassi, ricomparivano i tre fratelli Rolando, Lelio[439] e Gian Carlo (tassati su somme comprese tra le 32.222 e le 63.833 lire, con Rolando in testa), Lucrezia, vedova di Nicolò Levanto (19.944 lire), e Domenico, con 110.000 lire; a parte, l’eredità indivisa di Nicolò Levanto q.Andrea, stimata 106.388 lire. Nella capitazione successiva comparivano però soltanto i figli di Nicolò q. Andrea (dunque i nipoti di Domenico), tassati su imponibili modesti (tra le 16.000 e le 23.000 lire circa), e il figlio di Rolando, Vincenzo, attestato sulle 77.250 lire. Di pochi anni più tardi, 1687, fu l’ascrizione degli ultimi Levanto menzionati dal Liber nobilitatis: tra fratelli nati fra il 1656 e il 1668, dei quali non si conosce la discendenza. L’esame degli imparentamenti non aggiunge molto a quanto sin qui detto. Nel ramo di Rolando Levanto, un matrimonio De Franchi, e poi uno Vivaldi; Pietro Battista q. Domenico sposò una Grimaldi, ma il figlio Ugo una Marcenaro non nobile, e il nipote Giambattista, che risiedeva in Terra d’Otranto, una Staibano di Lecce; allo stesso modo, Nicolò q. Andrea sposò una Chiavari, ma il figlio Gian Francesco una Bernabò non ascritta. Rolando aveva trascorso anni a Granada; Ugo morì a Roma. Un altro Levanto, Gian Francesco, visse a Napoli, dove del resto all’inizio del secolo Nicolò aveva svolto l’incarico di console genovese[440]. Una vecchia casata finiva insomma con l’allentare i contatti, residenziali e matrimoniali, con Genova, fino a scomparire dall’orizzonte del patriziato cittadino.
- A Genova il cognome Saluzzo fu probabilmente portato, nel pieno Medioevo, da personaggi provenienti dall’omonima località del Piemonte. Ma negli anni ‘40 del ‘400 alcuni uomini di mare e di commercio levantesi (e forse più esattamente di Bonassola) chiamati Venturino e Alessandro Saluzzo si trasferirono a Genova, seguiti poco più tardi da un Alessio Saluzzo[441]. Il fatto che già l’anno seguente lo stesso Alessio facesse parte dell’Ufficio delle galee, e fosse uno dei quattro organizzatori della flotta approntata contro i catalani (contrassegni entrambi di influenza, che lasciano intuire una condizione di prosperità al borgo d’origine), contrasta con la notizia fornita dal Federici, che Alessio Saluzzo q. Nicolai (del resto qualificato “de Bonassola”) abitante nel borgo di Pre fosse “calzolaro” e che stipulasse un contratto come “garzatore” tre anni dopo; anche a questo personaggio avrebbe comunque arriso un successo pubblico piuttosto rapido, dal momento che sarebbe stato anziano del Comune nel 1467[442]. Due persone diverse? In ogni caso già Francesco, figlio di Alessio Saluzzo, era commissario del Comune nella riviera di levante nel 1484; due anni dopo lo stesso Francesco e i suoi fratelli (Agostino e Paolo) avevano una sepoltura nel chiostro di Santa Maria di Castello. La loro attività – è da presumere redditizia – era di “seateri”, settore di punta nell’economia genovese dell’epoca e base di partenza per più d’una fortuna familiare (anche il decollo dei Brignole, dei Balbi e dei Durazzo cominciò da una volta di seta); nella geografia politica cittadina si collocavano tra gli artefices albi, cioè tra gli artigiani ghibellini[443], secondo una scelta ribadita da Gerolamo, Francesco e Giacomo Saluzzo all’inizio del ‘500. Molto ovviamente, questi personaggi rivestivano cariche pubbliche: Giacomo q. Agostino, ad esempio, fu console delle celleghe nel 1516 e ufficiale della borsa quattro anni più tardi. I matrimoni ancoravano questi personaggi al mondo dei populares di fine Quattro-primo Cinquecento: Alessio sposava una Mainero, i figli una Domoculta e una Mandello, la figlia un Costa. Nel contempo un ramo della famiglia (e neppure questo era un tratto originale, ma piuttosto un ulteriore contrassegno della tipicità di un’ascesa) si insediava in Spagna, a Jerez de la Frontera[444]. Con Giacomo Saluzzo, figlio di Agostino, l’ascesa della casata sembra aver conosciuto un’accelerazione. Fu lui a impalmare la figlia, Pomellina, di Nicolò Amandola, “drapero”, popolare (forse non casualmente artefice ghibellino anch’egli) abbastanza importante da ascendere al vertice dell’Ufficio di San Giorgio e da essere incaricato di un’ambasceria al re di Francia. La generazione dei figli di Giacomo era incardinata nell’élite popolare che costituiva ormai, una volta realizzata nel 1528 l’unione di nobiles e populares all’insegna della riforma istituzionale che sanciva la nascita della Repubblica di Genova, la fazione della nobiltà ‘nuova’: Agostino di Giacomo sposava una da Passano, Giambattista una Giustiniani, le sorelle andavano in spose a un De Franchi, a un Canevari e a un Airolo[445]. Come quasi tutte le famiglie populares, anche importanti, nel 1528 i Saluzzo furono ascritti ad un albergo: nel caso, quello dei Calvi. Nel cinquantennio tra le due riforme istituzionali del 1528 e del 1576 la famiglia continuò ad arricchirsi, mettendo le radici nel giro d’affari che legava Genova alla Spagna di Carlo V e Filippo II e alle sue dipendenze italiane, segnatamente il viceregno di Napoli[446]. Qui i Saluzzo, che a Napoli fra ‘500 e ‘600 svolsero anche l’incarico di rappresentanti ufficiali della Repubblica[447], finirono con l’acquisire, come tanti altri esponenti del patriziato genovese, titoli feudali: nel 1616 Giacomo acquistò il feudo di Corigliano, in Calabria, del quale il figlio divenne in seguito duca; a questo possesso si aggiunsero quelli di San Mauro e di Lequile, in Terra d’Otranto[448]. Testimone eloquente ed informato, l’ambasciatore spagnolo Vivas nel 1607 incluse Giacomo Saluzzo, solo nobile “nuovo”, in un manipolo di “personas de mas credito y hacienda de Genova”, interlocutori privilegiati per il servizio finanziario del re[449]. La generazione di Giacomo figurava del resto autorevolmente anche sul proscenio genovese: Giacomo sposò Dorotea Donati e poi Geronima Brignole, il fratello Agostino una figlia di Lorenzo Invrea, importante uomo di affari, Gian Filippo una Chiavari, Aurelia sposò a sua volta Pietro Durazzo, doge nel 1617; e nelle generazioni successive altri imparentamenti legarono i Saluzzo ai Durazzo, la casata ‘nuova’ emersa con maggior prepotenza sulla scena politica genovese, e ad Adorno, Invrea, Giustiniani[450]. Testimonianza eloquente dell’influenza acquisita dalla famiglia, un libello anonimo del 1622/23 additava nel quartetto composto da Balbi, Durazzo, Saluzzo e Moneglia, casate “nuove” di ascesa relativamente recente, il principale gruppo di potere informale della Repubblica, degno appunto del parallelo con le “quattro case” della tradizione medievale, Doria Spinola Fieschi e Grimaldi[451]. Rispetto a famiglie come i Durazzo e, sinché un tracollo finanziario non ne ridimensionò bruscamente il ruolo, i Moneglia, i Saluzzo esercitarono in modo discreto l’influenza che la loro collocazione al centro di un reticolo di parentele eccellenti suggerisce: non collezionarono cariche pubbliche in misura proporzionale al loro peso finanziario e al loro prestigio. Perché pochi? La spiegazione non convince: essi erano certamente meno numerosi degli ubiqui Durazzo; ma lo erano più dei Moneglia, ripetutamente presenti ai vertici del governo genovese nel primo quarto del Seicento. Del resto, in quegli anni anche i Balbi, più ramificati dei Saluzzo, detennero meno posti di governo di quanto non potessero ambire. Erano in gioco, evidentemente, delle scelte di clan, che privilegiavano in diversa misura la presenza pubblica, e che quanto appaiono evidenti, tanto restano difficilmente documentabili e spiegabili; tuttavia, esse trovavano riscontro anche tra le casate della nobiltà ‘vecchia’, alcune delle quali, come i Negrone, restarono per lunghi periodi ai margini della politica cittadina, a dispetto della loro ricchezza. Detto questo, va aggiunto che i Saluzzo furono pur rappresentati nove volte nei Collegi nella prima metà del Seicento; che nello stesso arco di tempo trentotto volte uno di loro (e furono in tutto quattro rappresentanti della famiglia) ricoprì il ruolo di elettore dei Consigli; che Giacomo Saluzzo q.Agostino, l’acquirente del feudo di Corigliano, fu per sei volte candidato, sempre senza fortuna, al dogato della Repubblica[452]. Ragguardevoli erano gli imponibili attribuiti ai Saluzzo, e specialmente al ramo di Agostino e poi di Giacomo, nelle capitazioni cittadine: tra queste la più indicativa è forse quella del 1630, che assegnava a quattro Saluzzo l’aliquota speciale di 200 lire, e a due quella massima normale di 100 lire[453]. Di nuovo, nonostante l’evidenza del successo finanziario, i Saluzzo mantennero un profilo meno rilevato di altre casate ascese con loro tra Cinque e Seicento: in misura minore, rispetto ai Durazzo, ai Brignole e ai Balbi, esibirono il loro successo nell’edilizia di prestigio[454]. Non rinunciarono, tuttavia, a celebrare anche per quella via l’ascesa politica; ma anziché costruire un proprio edificio, Giacomo pose piede in Strada Nuova acquistando metà del palazzo di Lazzaro e Giacomo Spinola, mentre alcune (sontuose) ville assicuravano la tranquillità degli ozi sulla colllina di Albaro[455]. Due esponenti della famiglia ebbero nel corso del Seicento incarichi diplomatici di grande prestigio: Giambattista q. Giambattista, cugino di Giacomo, fu in tempi diversi ambasciatore residente in Spagna (senza alcun dubbio la più importante sede diplomatica genovese, in quell’epoca) e inviato in Francia per quattro anni, nel momento dell’apertura di regolari relazioni diplomatiche tra la Repubblica e la Francia di Richelieu. A sua volta, anche Giacomo q. Agostino, nipote del primo feudatario di Corigliano, fu ambasciatore residente presso il re Cattolico[456]. Solo una volta, nel luglio 1673, la famiglia ottenne con Agostino q.Giacomo q.Agostino il titolo dogale, coronamento di un’ascesa cominciata sei generazioni prima col cabotaggio tra Levanto e Genova[457]. Dopo di allora l’interesse per le vicende di una casata di oligarchi di primaria importanza scema. Mai troppo numerosi, si ridussero nel Settecento a pochi rami, e finirono, alla caduta della Repubblica, con l’inserirsi nella nobiltà del regno di Napoli, dove del resto alcuni di loro da tempo risiedevano e dove altri erano nati[458].
- I Tagliacarne erano antichi a Levanto, se alcuni di questo cognome figuravano nel 1229 fra coloro che giurarono fedeltà a Genova. Le inevitabili fantasie dei genealogisti seicenteschi fecero allusione ad un’origine lombarda, senza per altro nascondere la documentata provenienza levantese[459]. I Tagliacarne sarebbero giunti a Genova press’a poco contemporaneamente ai Saluzzo, alla metà del ‘400, e nel 1528 furono ascritti, ceppo poco numeroso, all’Albergo Cattaneo. La via all’ascesa dei Tagliacarne non fu quella della mercatura o della finanza, ma quella della professione legale e delle lettere. Benedetto Tagliacarne fu cancelliere della Repubblica, e poi, fattosi chierico e divenuto vescovo di Grasse, precettore dei figli di Francesco I di Valois[460]. Francesco Tagliacarne, giureconsulto ed esponente di primo piano dell’ambiente forense genovese, percorse brillantemente il cursus honorum, incarichi diplomatici compresi[461], sino ad essere preso in considerazione come possibile candidato al dogato nel 1573. Nel triennio seguente fu uno dei principali esponenti della nobiltà ‘nuova’ nella guerra civile che portò alla riforma istituzionale del 1576, e per circa sei mesi coprì in un momento critico il delicato incarico di ambasciatore in Spagna[462]. Al ritorno il Tagliacarne fu ancora fra gli esperti giuridici del governo, avendo patrocinato la riforma del sitema giudiziario e l’introduzione di soli giudici forestieri nella rota criminale. A prova del prestigio goduto fu imbussolato nel primo seminario: nella prima rosa, cioè, di 120 patrizi dalla quale dovevano essere estratti i componenti dei Collegi. Fu senatore nel 1578-79, anni di peste, e, di nuovo imbussolato, lo fu ancora nel 1585-86. Nel 1576 era anche stato tra i primi ad esercitare la funzione di elettore dei Consigli; ancor più significativa, come attestazione del prestigio professionale del quale godeva, l’inclusione nella terna di esperti incaricati di rivedere gli statuti civili di Genova[463]. La sua carriera politica si interruppe allora (morì nel 1587[464]); i figli Cristoforo e Aurelio, anch’egli giureconsulto, non la imitarono nel successo, perché né l’uno né l’altro fece mai parte dei Collegi. Cristoforo svolse un’ambasceria al duca di Parma nel 1589; Aurelio fu agente della Repubblica presso l’Imperatore Rodolfo II per le questioni del Sassello[465]. La casata si estinse (o si trasferì?) con il figlio di Aurelio[466]. Ma proprio quando questi era ancora in vita, un altro ramo di Tagliacarne levantesi fece il suo ingresso nel patriziato cittadino, per la via delle ascrizioni. Come è noto, la possibilità di entrare a far parte della nobiltà genovese per meriti era un tratto originale della struttura politica cittadina, prescritto dalle Leggi del 1576. Possibilità soltanto, per un massimo di dieci persone all’anno, sette cittadini e tre rivieraschi. Possibilità, abbastanza ovviamente, assai poco tradotta in atto, dopo l’infornata pacificatrice del 1576[467]. Tuttavia per questa strada nel 1577 il levantese Antonio Belmosto era entrato nel patriziato genovese: referenze della casata erano il ruolo di collegamento svolto a suo tempo tra il borgo rivierasco e la metropoli, assicurando a questa la fedeltà di quello; inoltre Antonio era attivo nel regno di Napoli, dove la famiglia finì con trapiantarsi, e provvisto di un fratello ecclesiastico brillantemente dotato, se a suo tempo (1616) ascese al cardinalato. Ma la via d’accesso dei Belmosto al Libro d’oro venne presto affiancata da un’altra via tanto prosaica ed estranea al dettato delle leggi del 1576, quanto efficace: la nobilitazione straordinaria propiziata da un’offerta di denaro alle casse della Repubblica. Per questa strada, per l’occasione assai contrastata, con un sabotaggio dei lavori del Consiglietto da parte dei patrizi ostili, nel 1649 sei Tagliacarne levantesi, che avevano offerto 30.000 pezzi da otto reali, furono ascritti al Libro d’oro[468]. Per i due anziani Antonio e Francesco, che nella richiesta di ascrizione rivendicavano la consanguineità con i Tagliacarne già ascritti, si trattò forse del soddisfacimento di un’aspirazione antica; per i tre figli e un nipote di Francesco l’occasione di passare dal mondo del commercio con la Spagna, dove (a Granada) risiedeva Antonio e dove verosimilmente la casata aveva fatto la propria fortuna, al prestigio degli onori in patria. Il passaggio, piuttosto emblematicamente, avvenne in coincidenza con l’ultima delle quiebras di Filippo IV, che contribuirono a ridimensionare il ruolo dei genovesi nella finanza spagnola. In assenza di riscontri documentari, è però bene dubitare degli emblemi, ed osservare piuttosto che la presenza granatina di questi mercanti levantesi ribadisce, se ce ne fosse bisogno, la capillarità della diffusione genovese e ligure nella penisola iberica e l’origine spagnola di tante fortune. Al momento dell’ascrizione, del resto, i tre figli di Francesco Tagliacarne si trovavano uno a Granada, accanto allo zio, uno a Genova, ed uno a Levanto, con una distribuzione che piace pensare dettata dall’intento di sorvegliare su tutti i fronti gli interessi e le attività familiari[469]. I Tagliacarne, per altro, non si distinsero particolarmente per cursus honorum; e imitando prontamente il malthusianesimo di molte, più illustri, casate patrizie cittadine dalla prima ascrizione al Libro d’oro sino alla caduta della Repubblica nel 1797 fornirono solo sei altri membri della famiglia al Libro d’oro, riuscendo tuttavia a perpetuare il cognome sino a questo secolo. Erano anche rimasti sempre un po’ ai margini del mercato matrimoniale cittadino. Il vecchio Francesco aveva sposato una conterranea Massola; il figlio Andrea si accasò con una Noceto; di Francesco Antonio non conosciamo la consorte: ma suo figlio Andrea sposò una Richeri (se nobile, di famiglia ascritta nel 1670), l’omonimo nipote Francesco Antonio una Pessagno, di una casata ascritta al tramonto della Repubblica, nel 1793[470]. In definitiva, un profilo discreto, una presenza poco incisiva sulla scena della Repubblica, secondo una scelta propria non di tutte le famiglie ascritte al patriziato in età moderna. Con un curioso ritorno alle radici, l’ultima rappresentante del cognome sposò un Massola, di famiglia del notabilato levantese ascesa alla nobiltà nell’Ottocento.
- In un certo senso, le vicende di famiglie così diverse, accomunate dall’origine levantese, esemplificano alcuni dei percorsi e dei destini tipici delle famiglie patrizie genovesi. Per quanto è dato di intuire da una documentazione prevalentemente genealogica e politica, la mediocritas dei Levanto inurbati da tempo, lo spettacolare successo dei Saluzzo giunti sul proscenio al momento giusto e per le vie giuste, le scalate così antitetiche dei Tagliacarne del Cinquecento, uomini di legge, e del Seicento, uomini di negozio, trovano riscontro in molte altre storie di famiglia. Ma il destino pubblico delle case arrivate suscita interrogativi ai quali non è possibile rispondere: per esempio, se e come il radicamento levantese si mantenne dopo l’inurbamento; perché proprio alcune case, e non altre, cercarono l’ingresso nel ceto dirigente metropolitano; quali furono davvero le basi economiche e sociali delle riuscite. Per Levanto come per altre località del dominio genovese, sono le domande cruciali alle quali occorre rispondere per ricostruire la storia sociale del patriziato metropolitano.
Un portofranco alla Spezia: note su un dibattito degli inizi del Settecento
- Le vicende del portofranco genovese delle merci sono state ripetutamente oggetto d’attenzione da parte degli storici della Genova moderna. I dibattiti all’interno del ceto di governo della Repubblica sull’opportunità dapprima di istituire e in seguito di ampliare il portofranco, per contrastare la concorrenza dello scalo livornese, sono ricordati da tutte le trattazioni dell’economia genovese del Sei-Settecento[471]. In particolare, l’attenzione degli studiosi si è diretta verso la riforma del portofranco elaborata in mezzo a vivi contrasti nei primissimi anni del Settecento, messa in atto nel 1708, e bruscamente revocata nemmeno due anni dopo: ufficialmente, a motivo della pessima riuscita dell’esperimento; in realtà, per il prevalere di quelli, tra i magnifici, che preferivano lasciare inalterato l’assetto doganale e tariffario dello stato genovese, piuttosto che rischiare di mettere in discussione il rapporto stabilitosi nel corso dei secoli tra il Banco di San Giorgio e la Repubblica[472]. Diminuire gli introiti delle dogane di Genova, come l’allargamento del portofranco nel 1708 sembrò provocare nell’immediato, significava alterare, o almeno rendere meno stabili a breve termine, le entrate di San Giorgio, che costituiva il polmone finanziario della Repubblica. Non occorre pensare a un contrasto tra istituzioni diverse, dal momento che il Banco e la Repubblica erano le due facce di un solo sistema politico-fiscale[473]. Occorre invece pensare all’esistenza, all’interno dell’oligarchia al governo, di opinioni e tendenze contrastanti, che si manifestavano nelle votazioni del Minor Consiglio e nelle prese di posizione dei diversi organi del governo (Camera, deputazioni o giunte specifiche, Senato o Collegi riuniti) e trovavano espressione verbale nelle consultazioni dei notabili ed espressione scritta nel profluvio di biglietti di calice e lettere anonime che, assieme alle relazioni ufficiali, accompagnava ogni discussione di qualche rilievo all’interno dell’oligarchia[474].
Benché meritevole di una illustrazione particolareggiata, la vicenda del 1708-1710 è insomma piuttosto nota, almeno per quel che riguarda il portofranco genovese. Ma qualche parola ancora va spesa (ed è lo scopo delle pagine che seguono[475]) sul fatto che la riforma del portofranco della Dominante andò strettamente collegata, nel primo decennio del Settecento, alla questione dell’istituzione di un portofranco anche alla Spezia, e dell’apertura di questo ai mercanti ebrei[476].
- L’esistenza di una corrente di opinione favorevole all’apertura sul territorio della Repubblica di un secondo portofranco localizzato alla Spezia emerse -lo ha segnalato Giulio Giacchero- già alla fine del Cinquecento, in coincidenza con l’apertura del primo portofranco genovese. Negli anni ‘60 del Seicento l’idea era di nuovo, e forse in maniera più convinta, in circolazione, anche se soltanto per essere rintuzzata, in maniera ancor più convinta, dai governanti[477].
Al riguardo Giacchero ipotizzò, di passaggio e senza insistervi, una contrapposizione tra Collegi e Consigli, come dire tra vertici e base del governo oligarchico. E’ un’ipotesi suggestiva, che contiene probabilmente questo nocciolo di verità: chi sedeva sugli scranni del governo aveva verosimilmente a cuore la conservazione dello status quo più di chi non essendo gravato dalla responsabilità immediata di gestire la cosa pubblica poteva farsi latore di proposte innovative alzandosi a parlare dai banchi del Consiglietto. Ricordiamo però nel Minor Consiglio sedevano personaggi per la massima parte omogenei per prestigio e censo a quelli che accedevano alle più alte cariche. Senza contare che chi interveniva, anzi per la precisione veniva invitato, a dare “ricordi” (avvertimenti, consigli) nelle consulte speciali o nelle sedute del Consiglietto era immancabilmente un oligarca navigato e di rango[478]. Sembra perciò più ragionevole pensare alla persistenza di un orientamento aperturista sui temi della politica doganale e del rapporto con gli scali del Dominio: orientamento, certo, regolarmente minoritario, ma pur sempre proprio di settori dell’oligarchia.
Del resto, il processo decisionale genovese, lento sempre, aveva tempi anche più lunghi quando, come nel caso delle questioni doganali, dovevano coordinarsi e possibilmente conciliarsi i punti di vista non solo della Repubblica e di San Giorgio, ma di organi diversi della stessa Repubblica. Una proposta di riforma del portofranco doveva essere elaborata nei due Collegi, cioè Senato e Camera, ed esaminata in particolare dalla Camera, due membri della quale erano addetti a turno ai rapporti con San Giorgio. In più esisteva una Giunta sui problemi della politica mercantile e doganale: una di quelle commissioni speciali a volte provvisorie e a volte semipermanenti a composizione mista (membri dei Collegi e del Consiglietto), che si distinguevano dalle tre giunte togate dei Confini, di Marina e di Giurisdizione, comprendenti solo membri dei Collegi. Le vicende e la denominazione stessa delle giunte specifiche non erano sempre del tutto note agli stessi oligarchi. Quando, nel 1756, dietro richiesta dei Supremi Sindicatori, un addetto alla cancelleria del Senato dovette riassumere le “Notizie concernenti le providenze sopra il Commercio”, osservò che la Giunta sopra il commercio istituita nel maggio 1698 e prorogata negli anni immediatamente successivi veniva “detta alle volte del Commercio, e alle volte del Trafico onde l’una, e l’altra è da credersi essere la medesima Giunta sotto la varia denominazione”[479]. Chiarissimo appare invece il fatto che di portofranco alla Spezia si tornava a parlare, negli ultimissimi anni del Seicento e nei primissimi del Settecento, in concomitanza con l’imminenza del rinnovo dei capitoli del portofranco genovese promulgati per un decennio nel 1692, e con la riproposta del problema annoso di far concorrenza a Livorno orientando verso Genova le correnti di traffico marittimo con il Levante.
- Seguiamo, per cominciare, il faticoso itinerario della pratica, tenendo presente la ricapitolazione opportunamente fattane alla fine del 1706 da un addetto alla cancelleria del Senato[480]. Tutto era cominciato nel 1698 con una proposta, inoltrata al governo genovese dal conte Morando, per migliorare la strada dalla Spezia al Po attraverso gli stati di Genova e di Parma. Della questione era stata investita la Giunta del traffico, che nel febbraio dell’anno seguente aveva trasmesso alla Camera una relazione riguardante due punti: la diminuzione delle tariffe sulle merci in transito e l’apertura del portofranco alla Spezia. La pronuncia, favorevole, di San Giorgio si era fatta attendere un anno esatto: e vale qui la pena di sottolineare non il lasso di tempo occorso, ma la disponibilità mostrata dal Banco. La questione era stata allora sottoposta al Minor Consiglio: ma i Collegi avevano risposto intelocutoriamente ai Protettori che facessero “minutare li modi e forme, co’ quali stimavano praticare il P<orto>franco alla Spezza”. Con grande rapidità, anche questa degna di nota, San Giorgio aveva svolto il compito nel giro di due settimane. Il 10 maggio i Collegi deferirono la relazione dei Protettori ai deputati camerali, perché la discutessero con i deputati di San Giorgio. “In questo mentre”, annotò il cancelliere, “uscirono fuori alcuni scritti parte a favore, parte contrarij al Portofranco della Spezza, come anche biglietti di calici”: era naturale che accadesse; e possiamo solo deplorare il fatto che questa documentazione sia rimasta dispersa.
Il 21 luglio la Camera presentò la propria relazione, sulla quale si aprirono i contrasti dapprima nei Collegi e poi nel Minor Consiglio, al quale tutto venne nuovamente sottoposto. Di fronte all’impasse, il 13 agosto i Collegi decisero di istituire (informandone i Supremi Sindicatori) una deputazione o giunta sul Portofranco di otto membri oltre al doge: due senatori, due procuratori, due protettori di San Giorgio e due rappresentanti del Consiglietto. In novembre la giunta presentò la bozza del nuovo portofranco genovese e, a parte, uno scritto riguardante specificamente la Spezia, che però trovò accoglienza discorde nel Consiglietto. Nel maggio del 1701 nuovo giro di consultazioni tra San Giorgio, Collegi, Camera e deputati camerali: poiché costoro facevano parte della Camera e questa era uno dei due Collegi, le lungaggini sembrerebbero provenire dal governo, e non, come si potrebbe immaginare, da San Giorgio. Un anno dopo, nel maggio 1702, alla vigilia della scadenza della legge sul portofranco del 1692, questo venne prorogato per sei mesi. Una seconda richiesta di proroga, alla fine di dicembre di quell’anno, venne però respinta. Solo nel marzo 1703 la proroga fu accordata, mentre la bozza del nuovo regolamento cadeva sotto un voto contrario.
Tutta la questione veniva ora deferita a una nuova giunta di sei soggetti tratti dai Collegi e dal Minor Consiglio. Nel luglio 1703 un riassunto delle questione fu portato al Minor Consiglio. La giunta proseguiva intanto i suoi lavori, che terminarono nel marzo 1704. Tra la fine di maggio e gli inizi di giugno di quell’anno “furono nuovamente lette tutte le scritture sudette a’ Ser<enissi>mi Colleggi, et indi al Minor Consiglio, e fatto sapere a’ M<agnifi>ci consiglieri, che le scritture medeme sarebbero in cancelleria del Ser<enissi>mo Senato ad effetto se ne potessero prendere piena cognizione anco con la lettura”. Una misura di trasparenza che non è frequente trovare segnalata, e che certo dipendeva dall’importanza della questione, sulla quale gli oligarchi erano disposti a un confronto aperto.
Il 17 giugno i Collegi elaborarono quattro proposte da portare ai Consigli: la prima prevedeva di istituire due portifranchi alla Spezia e a Genova su una nuova base; la seconda di istituirlo alla Spezia e di modificare il regime di quello genovese; la terza di limitarsi a migliorare il regolamento del portofranco di Genova; la quarta di farlo soltanto alla Spezia. Nessuna delle proposte passò. Subito dopo però venne deliberato di concentrare l’attenzione sul solo portofranco di Genova, sulla base della “relazione, Pianta, e Tariffa” preparate dalla deputazione. Il tutto fu rispedito a San Giorgio. Alla fine di novembre del 1704 i Collegi stesero l’ennesima bozza di proposta per il portofranco di Genova, che però giunse davanti al Minor Consiglio solo nel maggio del 1705. E qui si insabbiò, respinta da voti contrari dopo una consulta di notabili.
A questo punto i Collegi trasmisero la pratica di nuovo a San Giorgio, come era consueto, ma anche a una delle loro giunte togate, quella dei Confini, perché minutasse delle nuove proposte. Il 23 giugno la giunta propose ai Collegi che i Consigli votassero se “rinovare e prorogare per due anni la legge del Portofranco delle merci con deliberatione, che dovessero li Ser<enissi>mi Colleggi durante di detti due anni introdurre ogni due mesi nel Minor Consiglio l’essame se convenga riformare il Portofranco di Genova con introdurlo ancora nella Spezza, o far l’uno senza l’altro o farli tutti due unitamente”. I Collegi si presero sette mesi per approvare la proposta, che a metà di gennaio del 1706 fu di nuovo “data a pensare” al Minor Consiglio, dove si discusse e qualcuno, evidentemente non bene informato, chiese di riesaminare le scritture conservate in cancelleria. All’inizio di febbraio l’iniziativa passò ai Supremi Sindicatori, i quali incaricarono la Giunta dei confini (una delle giunte “togate”, ricordiamolo, composta di membri dei Collegi) di esaminare le loro osservazioni e i pareri dei consiglieri per trarne una nuova bozza o per suggerire ai Collegi un riesame di tutta la questione. Il primo di marzo 1706 la Giunta dei confini chiese ai Collegi di sollecitare dai Protettori di San Giorgio una relazione da prendere in considerazione per stendere la nuova bozza. I Protettori avevano il lavoro già pronto (basato tra l’altro sulla discussione del maggio 1705), visto che lo consegnarono l’indomani stesso. Dopodiché la Giunta ripropose ai Consigli la bozza che aveva elaborato, assieme all’invito ai consiglieri di prorogare la legge di portofranco esistente almeno di sei mesi. Da quando si era principiato ad agitare la questione erano trascorsi ormai quasi otto anni, e nulla era stato deciso.
- Il sunto di cancelleria si interrompe a questo punto. Non seguiremo gli ulteriori esiti della pratica, che, come è noto, approdò nel 1708 alla sperimentazione di una nuova pianta di portofranco. L’interesse archivistico ed euristico del documento che abbiamo sin qui utilizzato è evidente. Le tracce del dibattito relativo al portofranco vanno cercate non soltanto dove è ragionevole attendersi che si trovino, ma anche in serie documentarie a tutta prima impensate. Di fatto, le carte del fondo Archivio Segreto solitamente utilizzate dagli studiosi perché contenute in unità archivistiche espressamente riguardanti l’argomento del portofranco, anche se raccolgono in originale o in copia moltissimo materiale utile, sono ben lontane dall’esaurire la documentazione pertinente prodotta nel tempo e scambiata tra magistrature e deputazioni diverse, in un incrocio fittissimo di richieste di chiarimenti, risposte, relazioni e minute. La caccia all’inedito rimane aperta. E se difficilmente i ritrovamenti che si intravedono possibili sconvolgeranno il quadro interpretativo della vicenda del portofranco genovese (e di quello spezzino mancato), certamente sono indispensabili per comprendere meglio il senso di passaggi e scambi di ruoli che al momento risultano oscuri.
Per esempio, è proprio vero che il vertice di San Giorgio era ostile all’abbassamento delle tariffe doganali e all’apertura di Spezia? O non si deve pensare più ragionevolmente a schieramenti trasversali rappresentati tanto nel Banco quanto nelle giunte e nei Collegi? E in questo caso, chi e perché era attestato da una parte o dall’altra? Sono riconoscibili coerenze familiari e gruppi di interesse?
Di sicuro la questione era largamente discussa all’interno del ceto di governo. L’invito a prendere visione delle relazioni elaborate dalle varie istituzioni venne raccolto. Una delle poche biblioteche private dell’epoca che conosciamo, quella dei Brignole-Sale, possedeva una copia della relazione stesa dall’apposita deputazione nel giugno 1703 sulla questione dei portifranchi di Genova e Spezia. Un’altra copia nota dello stesso testo apparteneva a una biblioteca non ancora identificata[481]. E si può star certi che una ricerca a tappeto tra i manoscritti appartenuti a famiglie del patriziato cittadino porterebbe alla luce altre copie.
La deputazione motivava la propria fatica, e la propria esistenza, con la necessità di trovare un rimedio alla diminuzione del traffico portuale e delle entrate del portofranco di Genova raffrontate a quelle di Livorno. Se nel 1667 gli introiti del portofranco genovese erano ascesi a “poco meno di l. 250mila, era indi in appresso talmente andato mancando a segno che nell’anno 1700 giusta un calcolo che se ne fece formare si ritrovò ridotto a l. 114mila con sicurezza di perdita maggiore, e sul dubbio che dal detto anno in appresso non dovesse tutto l’introito ascendere a l. 100mila”[482]. La diminuzione delle entrate non dipendeva da mancanza di traffici, come dimostravano le statistiche del movimento portuale. Nell’anno 1700 a Livorno erano attraccati 239 bastimenti; a Genova 169. Gli anni sgeuenti avevano confermato la tendenza: a Livorno 213 bastimenti nel 1701, 198 nel 1702, 68 entro il 20 giugno del 1703. A Genova, negli stessi periodi, rispettivamente 145, 110, 32[483].
Una riforma tariffaria che rendesse lo scalo genovese concorrenziale con Livorno sembrava imporsi. Ma non meno si imponeva attaccare Livorno aprendo una via ai traffici con la Lombardia da Bocca di Magra e da Sarzana verso la pianura padana. La deputazione collegava senz’altro le due iniziative: “non ostante la minorazione delle merci per quello risguarda il Porto franco di questa Città non si haverebbe tampoco a conseguire quello intento se ne desidera per un Traffico intiero, massime di quello del Levante, di cui non è capace questa Città, come altresì di quello della Lombardia Orientale, per cui giornalmente li Mercadanti forastieri si valgono anco dello Stato della Ser<enissim>ma Rep<ubli>ca col passo della Bocca di Magra, che non è presentemente in stato di proibirlo, che vale dire che lo Stato della Rep<ubli>ca serve con suo detrimento di profitto altrui, e che perciò per ottenere quel Traffico universale per cui si deve applicare con tutto l’animo la forma più propria, et adequata non possa essere se non quella dell’apertura del Porto franco nella Spezza”[484].
Passando ai dettagli operativi, la deputazione specificava anche lo scarno organigramma del nuovo portofranco. Alle dipendenze di un commissario o governatore avrebbero vigilato: uno scrivano; un estimatore; un deputato alla porta verso terra e uno a quella verso mare. In tutto cinque “ministri”, da attingere dal personale della dogana di San Giorgio. La giurisdizione sarebbe spettata a un tribunale presieduto dal capitano della Spezia affiancato da un dottore di leggi, cioè il vicario del capitano, e da uno dei principali mercanti, beninteso cattolico: particolare che rivela la persuasione che il nuovo scalo avrebbe attratto mercanti di religione riformata e/o ebrei. Cancelliere, lo scrivano della corte della Spezia. Riservato ai Protettori di San Giorgio, o alle altre magistrature competenti in materia di noli, frodi, assicurazioni ecc., l’appello. Per evitare il ricorso a Genova per le controversie andava previsto anche un sindico. Mentre per non moltiplicare gli uffici bastava accorpare alle competenze del sindico di sanità la cura del lazzaretto che andava inevitabilmente attrezzato[485].
- La parte più corposa della relazione era costituita dall’elenco delle obiezioni all’idea di un nuovo portofranco alla Spezia e dalle risposte alle stesse. La deputazione distingueva le obiezioni sollevate dalla Camera da quelle emerse nelle consulte del Minor Consiglio. Dodici le prime; nove le seconde: tutte piuttosto prevedibili.
La Camera temeva il crollo del traffico della Dominante, in particolare la rovina della strada della Bocchetta. Di conseguenza, erano da prevedersi lo spopolamento della città e l’esodo delle attività produttive e dei servizi verso la Spezia. Non solo: anche il traffico portuale avrebbe trovato maggiore convenienza alla Spezia piuttosto che a Genova, per il minor costo della vita e dei servizi rispetto alla metropoli. La crescita di un polo mercantile nel golfo avrebbe inoltre stimolato il trasferimento o la nascita di manifatture nei feudi della Lunigiana o a Lucca, a scapito di Genova. Si sarebbe aperta tra i due scali una gara al ribasso dei diritti di ancoraggio. L’introduzione del portofranco nel golfo avrebbe aggravato il già sensibile problema del contrabbando e delle frodi alle gabelle. Né andavano dimenticati i costi delle infrastrutture che andavano ampliate o costruite ex novo: fortificazioni più sicure (perché si immaginava che il nuovo insediamento sarebbe stato un obiettivo appetibile da eventuali invasori), strade più agevoli, un lazzaretto, magazzini. A questi si aggiungevano gli stipendi pubblici relativi, non riducibili a quelli dei pochi impiegati del portofranco previsti dalla relazione. Infine, delle considerazioni di politica estera e non solo squisitamente finanziarie: uno scalo prospero avrebbe fatto gola alle potenze straniere (ricordando il dispiegamento nel Mediterraneo occidentale, durante la guerra precedente, di una squadra inglese è verosimile che i magnifici preoccupati di questa eventualità pensassero proprio agli sviluppi delle ostilità della successione di Spagna: tant’è che una delle argomentazioni ricorrenti nei dibattiti era quella che convenisse attendere la pace prima di porre mano a un cambiamento) e avrebbe imposto una politica di eccessiva condiscendenza con il duca di Parma, padrone dei passi verso la pianura padana e della via di comunicazione con il milanese. (Sia detto di passaggio: non c’è dubbio che dal punto di vista delle relazioni internazionali il portofranco della Spezia rischiava di nascere sotto i peggiori auspici. E come è noto anche l’esperimento del nuovo portofranco genovese del 1708 incontrò la più catastrofica congiuntura climatica e mercantile che si potesse immaginare).
Queste, e altre meno valide perché nei fatti già risolte, riguardanti la sorte di alcune gabelle date in appalto, le obiezioni istituzionali, mosse dalla Camera. I consiglieri prospettavano scenari più generici ma non per questo meno preoccupanti. Chi prevedeva una corsa al ribasso delle tariffe da parte di Livorno. Chi ammoniva a ricordare il destino di altre città portuali rovinate da concorrenti vicine: “l’esperienza di Anverza, che fu destrutta da Ansterdam, di Siviglia pregiudicata da Cadice, e di Pisa rovinata da Livorno”. Ad altri sembravano sfavorevoli le circostanze, cioè la guerra appena iniziata per la successione di Spagna. Non poteva mancare l’osservazione che gli “antichi”, vale a dire i genovesi dei tempi andati, pur conoscendo benissimo la vantaggiosa situazione del golfo della Spezia, mai avessero deciso di sfruttarla. E poi: era verosimile che i mercanti insediati a Livorno si trasferissero di punto in bianco alla Spezia? In questo caso, non era meglio adottare nella stessa Genova le innovazioni che si progettavano per la Spezia? Perché non attirare a Genova il traffico della padania migliorando la strada di Sestri Levante, anziché quella di Bocca di Magra? Se si dovevano concedere agli ebrei condizioni analoghe a quelle accordate loro a Livorno, perché non farlo nella Dominante? E da ultimo, a mo’ di compromesso: “quando nella Spezza si persista d’instituire il preaccennato Portofranco forse potrebbe fondarsi in altra forma, cioè con conditione, che le merci pagato il carrico in Genova, potessero nella Spezza tramandarsi, senza che più fossero sogette a gabelle alcune, affinché si riducesse in tal guisa tutto il traffico nella Città Capitale, e la Spezza semplicemente servisse di scala, e quando nella Spezza medema volesse stabilirsi qualche comercio potrebbe al più permettersi l’intiera libertà per quello di Levante, con la speranza che li Ebrei ve lo introducessero, perché non essendo sì facile a stabilirsi in Genova, poco si perderebbe a procurarlo in altra parte del Dominio”[486].
Le obiezioni dei consiglieri ostili al progetto erano certamente ispirate a una difesa degli interessi della Dominante rispetto al Dominio. Ma questo è tanto ovvio, e connaturato alle caratteristiche dello stato cittadino, che meraviglia possa aver suscitato sorpresa ed essere tacciato di egoismo, categoria interpretativa di utilità piuttosto dubbia. Le riserve più fondate sembrano invece quelle che additavano la fumosità delle prospettive del nuovo scalo, e la convenienza di innovare semmai in maniera più radicale il portofranco genovese. Infine, le considerazioni strategiche non erano da trascurare. La Repubblica era attrezzata per difendere prima di tutto e soprattutto Genova. Uno scalo di successo in un crocevia di transito di eserciti e flotte non prometteva di diventare la preda annunciata di qualche grande potenza? Insomma, una politica coraggiosa di portofranco alla Spezia presupponeva che la Repubblica e il suo ceto dirigente fossero o diversi da quello che erano o almeno disposti a diventarlo. Era così?
- Se le proposte di aprire un portofranco alla Spezia riscuotevano un dubbio successo, anche l’idea di accogliervi i mercanti ebrei suscitava riserve. Una testimonianza di questo aspetto della questione è offerta da un biglietto destinato ai calici del Minor Consiglio da Franco Imperiale Lercari in una data imprecisata dell’anno 1700[487].
L’oligarca osservava che la proposta di aprire alla Spezia un portofranco delle merci (ma non dei grani) aveva mancato di due voti l’approvazione. Le era venuto meno l’aiuto discreto dei Collegi: quello che solitamente faceva passare le poste meno gradite dall’assemblea (il che conferma, per inciso, che già in quella fase iniziale della discussione non era San Giorgio, o non esso soltanto, il santuario della resistenza all’innovazione). A perorare in favore del provvedimento si era esposto Marco Antonio Giustiniani[488]. “Nella sua celebre et ill<ustrissi>ma famiglia”, notava tra ossequio e malizia Imperiale Lercari, “si ritrovano più papaveri ugualmente meritevoli di passeggiare alzati su tutti gl’altri, perché stando sull’argomento del porto franco, fu così evidente e giustificato in voce et in scritto dal m<agnifi>co Gio. Antonio Giustiniano l’utile del sudetto, che a persuadermi il contrario […] mi bisognava sentire l’eccettioni alle risposte già date dal m<agnifi>co Gio. Antonio”[489]. Se Imperiale Lercari diceva il vero, allora nella prima fase delle discussioni sul portofranco era esistita la concreta possibilità che la proposta passasse. Ma, appunto, era mancato il sostegno della maggioranza dei Collegi. Interessante l’accenno al sostegno portato alla proposta di aprire portofranco alla Spezia da due esponenti di rilievo della famiglia Giustiniani. Gian Antonio, menzionato da Imperiale Lercari, reduce dall’ambasceria al re d’Inghilterra, sarebbe stato qualche anno dopo uno dei negoziatori dell’acquisto del marchesato di Finale, prima di diventare, ancor giovane, doge della Repubblica[490]. Sulla questione dell’ammissione degli ebrei Imperiale Lercari riteneva “non … sperabile guarire la melanconia di quella pietà che teme potersi corrompere li buoni costumi della Città da Giudei”, e concordava con un opinione già avanzata in passato: che “per salvar la capra et i cavoli” convenisse istituire alla Spezia un portofranco limitato “alle sole merci che vengono dal Levante, le quali essendo principalmente raccomandate alli soli ebrei, senza questi non è sperabile d’introdurle nel dominio”[491]. Due portifranchi, dunque, specializzati in attività diverse e con ruoli diversi attribuiti agli ebrei.
Forse non era vero, come sostenne un magnifico nel maggio 1705, che “generalmente dal Consiglio si desidera unitamente con quello di Genova il Portofranco della Spezza”[492]. Ma certamente per alcuni anni tutte le opzioni rimasero aperte. Un’altra lettera anonima, del marzo 1703, aveva attaccato l’influenza di “qualche pensionarij del G<ran> Duca”, che per difendere il principio “di non dovere ingrandire la Spezia per il pericolo di spopolare la Capitale riducono questa a morire d’un’etica”. L’anonimo sosteneva recisamente l’opinione opposta: “l’aprir portofranco alla Spezia, non può mai pregiudicare quello di Genova, ma solamente quello di Livorno; la raggione si è detta, perché o sono merci da passare nella Lombardia superiore, o nella Lombardia inferiore, se per di qua la Spezia non può pregiudicare, come non pregiudica Livorno, se per di là, torna sempre più a conto a’ mercanti con la facilità del G<ran> Duca e con la commodità del passaggio andare a Livorno più tosto che venire a Genova. Donque il Porto Franco alla Spezia distruggerà Livorno senza pregiudicare a Genova”[493].
Incuriosisce l’allusione all’esistenza di un gruppo di pressione filogranducale, dunque implicitamente filolivornese. E’ un’allusione (se non si limitava ad essere soltanto una malignità) piuttosto oscura, a meno che non rimandi (ma è un’ipotesi impegnativa e tutta da dimostrare) a uno schieramento diretto dalla famiglia Brignole Sale, feudataria del Granduca per il marchesato di Groppoli[494]. Ma colpisce ancor di più una certa astrattezza del ragionamento: come se l’orientamento, anzi il dirottamento di una corrente di traffico fosse un problema esclusivamente tariffario, e un portofranco, con l’insediamento di una comunità di mercanti intermediari tra Levante ed Europa continentale, si potesse improvvisare in breve tempo. Lo ammetteva implicitamente lo stesso anonimo, quando osservava: “vediamo pure ingigantirsi Livorno a nostri danni, che 50 anni fa non era il terzo di quello che è in oggi”[495]. Appunto: era occorso mezzo secolo e, l’anonimo non lo diceva, uno sconvolgimento nei rapporti di forza tra le potenze e le marinerie d’Europa.
- Un compromesso venne elaborato sulla base di un ordine di priorità: prima riformare il portofranco di Genova; dopo tre anni, verificata la riuscita dell’esperimento, introdurre quello della Spezia. In un’animata consulta del Minor Consiglio del 27 luglio 1707 Raffaele Giustiniani sostenne questa proposta[496], spalleggiato in sostanza da Franco Imperiale Lercari, Francesco De Mari e Agostino Spinola[497]. Ma l’intervento più lungo, almeno stando al verbale sommario della consulta fu quello di Filippo Scaglia, ostile tanto al portofranco alla Spezia quanto agli ebrei.
Intanto, Scaglia negava l’opportunità di abbassare dai quattro quinti ai due terzi dei voti il quorum per l’approvazione della riforma del portofranco di Genova. Era un punto procedurale apparentemente secondario, in realtà decisivo. I quattro quinti presupponevano un generale consenso che non esisteva affatto, anzi; mantenerli significava sostenere le ragioni di chi voleva impallinare nel segreto dell’urna ogni cambiamento. Quanto agli ebrei, “poter essere contenti di non essere scacciati senza li voti del Minor Consiglio”. Quanto al portofranco della Spezia, “non essere cosa da mettere in prova la novità”. Scaglia prospettava un danno ai pedaggi di Genova e delle riviere; un incremento del contrabbando; spese per l’apparato impiegatizio (una polemica, quella contro la burocrazia, che riscuoteva sempre largo plauso tra gli oligarchi). Diffidava delle buone intenzioni del duca di Parma. Pensava che dell’innovazione avrebbero approfittato “principi e feudatarij che ivi [alla Spezia] sono attorno a sovvertire tutte le buone leggi del medesimo portofranco” (alcuni dei quali feudatari erano per altro genovesi). Insomma, le obiezioni che i deputati avevano creduto di confutare nella relazione del 1703 riemergevano intatte, senza una scalfittura, nelle parole dell’influente oligarca, sostenuto nella stessa seduta da Domenico Franzone[498].
Occorre a questo punto spostare l’obiettivo sui personaggi in campo. Chi erano? Oligarchi influenti tutti, non c’è dubbio. Le loro carriere, per quanto sono note, paiono omologhe. Di Gian Antonio Giustiniani si è detto. Aggiungiamo che nel suo cursus honorum non mancarono due elezioni a protettore di San Giorgio (nel 1697 e nel 1704: quando la discussione sul portofranco alla Spezia venne sviluppata) e un mandato biennale come senatore (nel 1706: alla vigilia dell’approvazione della nuova pianta di portofranco)[499]. Marc’Antonio Giustiniani fu undici volte elettore dei Consigli, senatore nel 1686 e di nuovo nel 1701, protettore di San Giorgio nel 1705 e ancora nel 1723, candidato al dogato nel 1717 e nel 1721. Davvero, assieme a Gian Antonio, l’uomo di punta della casata. Quanto a Raffaele Giustiniani, era stato senatore nel 1698; lo fu di nuovo nel 1708-1710, e nel 1700 era stato protettore di San Giorgio. Franco Imperiale Lercari, figlio del doge Francesco Maria, in carica al tempo del bombardamento francese del 1684, ebbe una carriera meno intensa, che lo portò però almeno una volta nel Senato, nel 1714, mentre sembra non aver riguardato San Giorgio. Francesco De Mari, figlio di doge e fratello di due dogi in carica entrambi nel primo decennio del Settecento (Gerolamo nel 1699-1701; Domenico Maria nel 1707-1709: tocco a lui tenere a battesimo la nuova pianta del portofranco del 1708), era stato ambasciatore in Spagna e fu, oltre che cinque volte elettore dei Consigli, protettore di San Giorgio nel 1703. Agostino Spinola q. Gian Antonio fu senatore nel 1709-1710 (quando l’esperimento del 1708 si avviò alla ingloriosa conclusione).
Veniamo ora all’avversario del progetto, Filippo Scaglia: quattro volte elettore dei Consigli; capitano in Bisagno e (due volte) in Polcevera; tre volte protettore di San Giorgio, nel 1694, 1698, 1704; senatore nel 1689 e nel 1699, e procuratore nel 1705. Come si vede, una carriera ricca e completa anche di quegli incarichi di giusdicente (certo, delicati e non troppo scomodi) che molti consorti schivavano volentieri. Francesco De Mari e Gian Antonio Giustiniani, assieme a Gian Francesco Spinola e Agostino Adorno, erano stati, per incarico della deputazione sul portofranco, tra i diretti estensori e relatori del progetto riguardante la Spezia[500]. Scaglia era l’esempio dell’oligarca che, pur non uscendo da una delle grandi famiglie (scarsissimi di numero, anche se non di sostanze, gli Scaglia erano pochissimi), si trovava incardinato da generazioni ai vertici della Repubblica: sin dai tempi del nonno Giovanni, influente capoparte “nuovo” a fine Cinquecento, morto (assassinato) in carica come senatore nel 1615. Per cogliere il senso dell’opposizione al progetto di portofranco alla Spezia di un personaggio del genere occorrerebbe conoscere la rete di relazioni familiari e d’interesse nella quale egli si collocava, e il cui peso sostanziava di voti le sue parole.
Non si sfugge all’impressione che le classificazioni più correnti dei patrizi (famiglie “vecchie” e “nuove”, filospagnoli, repubblichisti o filofrancesi, grandi casate e famiglie minori) siano inapplicabili all’analisi di conflitti che non mettevano in causa le lealtà internazionali o le solidarietà di fazione, ma un intreccio di interessi trasversale. Nella fattispecie, “nuovo” Scaglia e “nuovi” i Giustiniani, “vecchi” De Mari e Imperiale Lercari, ma “vecchi” i Doria, i Grimaldi, i Centurione (per citare soltanto tre casate) curiosamente taciturni in un dibattito che pure riguardava indirettamente gli equilibri fondamentali delle istituzioni repubblicane.
- In conclusione, queste brevi note propongono una riflessione di metodo piuttosto che una valutazione di merito.
Il senso del contrasto sull’apertura del secondo portofranco alla Spezia e dell’incoraggiamento all’arrivo di mercanti ebrei importante è nel complesso chiaro, e da tempo: si trattava di ridefinire una politica doganale ricca di implicazioni istituzionali e politiche che mettevano in discussione l’assetto consolidato dello stato genovese. Resta invece poco o per nulla chiaro chi fossero nel tempo i protagonisti di quel contrasto, come si schierassero, e perché. L’analisi dei processi decisionali dell’oligarchia genovese (di questo, infatti, si tratta) non trova, bisogna ammetterlo, molti cultori. Perché progredisca occorre però allargare il ventaglio delle fonti documentarie: non solo sul versante delle storie di famiglia e della ricostruzione degli intrecci di parentela e di interesse, che presuppone l’accesso a risorse archivistiche a Genova piuttosto scarse, ma anche sul versante della storia delle istituzioni della Repubblica e del loro funzionamento concreto, tuttora assai meno nota di quanto dovrebbe.
Posta da Genova.
Una corrispondenza del marchese Lorenzo Imperiale nel 1746-1747
Gli studiosi delle vicende genovesi del 1746[501] hanno fatto apparentemente scarso uso di una raccolta di lettere conservata nella Biblioteca Civica Berio, comprendente le missive inviate tra il primo gennaio 1746 e l’11 novembre 1747 al marchese Lorenzo Imperiale, allora residente a Napoli, da alcuni suoi corrispondenti rimasti a Genova[502]. Due di questi, Gio. Antonio Degola e l’abate Ambrogio Conti[503], non sono patrizi; ne conosciamo con certezza i nomi perché sottoscrivono (più Conti che Degola) quasi tutte le loro lettere, dal contenuto delle quali intuiamo facilmente il ruolo dei due personaggi: erano stati incaricati dal marchese di sorvegliare le sue proprietà in città, a cominciare dal palazzo rimasto incustodito, e di curare dei minuti interessi, come l’approvvigionamento dello stesso palazzo e la riscossione di alcuni affitti a Genova e fuori. Dovevano ragguagliarlo durante la sua assenza sia su queste incombenze sia più in generale sulle notizie correnti. La padronanza approssimativa dell’ortografia e della punteggiatura evidente nelle lettere di Degola induce a ritenerlo un semplice uomo di cifre e di mano. Nell’abate Conti, che ha lasciato invece missive scritte ovviamente in buon italiano, con una grafia minuta e precisa, forte è la tentazione di riconoscere il personaggio ben noto agli storici della letteratura genovese del Settecento[504]. Certo, qui non si trova alcun riferimento alla vita culturale cittadina: se il corrispondente di Lorenzo Imperiale era lo stesso abate Conti che di lì a qualche anno collaborò a volgere in genovese la Gerusalemme Liberata[505] (ma chi altri potrebbe essere?), nell’epistolario lo sorprendiamo senza panni curiali, occupato a sollecitare manenti, comprare damigiane di vino e trattare con domestici: ma questa era verosimilmente la prosaica quotidianità di tanti altri abati del tempo, che ci viene opportunamente ricordata.
Degola e Conti non sono i soli corrispondenti del marchese Imperiale presenti nell’epistolario. Giorgio Spinola q. Gio. Benedetto[506], nipote d’acquisto di Lorenzo, compare come autore di due lettere scritte in bella grafia[507]. Un secondo, molto più assiduo corrispondente è un anonimo che la qualità delle informazioni trasmesse (villeggia a Cornigliano, presenzia alle sedute del Minor Consiglio e menziona con disinvoltura comuni conoscenze tra i magnifici[508]) e il tono improntato a una cortese familiarità connotano senz’altro come un patrizio: gli indizi sparsi in alcune missive del Degola e del Conti spingono a identificarlo in Giacomo Filippo Durazzo[509]. Infine, troviamo una lettera, autografa e sottoscritta, di Agostino Lomellini, l’amico dei philosophes parigini, il futuro doge di Genova[510]. L’epistolario mescola dunque corrispondenti di livello sociale e di qualificazione professionale differenti, come del resto doveva essere normale per un patrizio genovese dell’epoca, ma senza pretese di completezza: da alcuni riferimenti interni risulta infatti che esso comprendeva allegati (anche di grande interesse: ad esempio, una relazione dell’abate Conti sulla rivolta del dicembre 1746[511]) certamente estrapolati. In compenso sono conservati numerosi allegati consistenti in copie di avvisi di Genova e di altre località.
I termini cronologici dell’epistolario coincidono con l’assenza del marchese da Genova: non a caso, nell’ultima lettera, di Degola, si allude all’imminente ritorno di Lorenzo Imperiale.
Il fatto che proprio queste lettere, di un epistolario verosimilmente copioso, e che sappiamo aver riguardato anche altri personaggi, siano state conservate sembra suggerire un’attenzione di lunga data per le vicende del 1746-1747. La numerazione archivistica delle lettere è di mano ottocentesca. Si può ipotizzare che, al momento di effettuare un riordinamento o uno scarto delle carte di famiglia, siano state salvate le missive che riguardavano un momento della storia genovese tornato all’attenzione dell’opinione pubblica nell’età dell’unificazione nazionale, coincidente per giunta con un momento particolare e circoscritto nella vita del marchese Imperiale.
Non sono per altro queste le sole lettere di membri della famiglia Imperiale ad essere venute in possesso, ignoriamo come e quando, della Biblioteca Berio. In effetti essa conserva un intero gruppo di manoscritti provenienti con ogni evidenza da un archivio Imperiale[512]: oltre alla corrispondenza qui citata, copialettere e documenti che riguardano Federico[513] e, più ancora, Ambrogio Imperiale[514], rispettivamente nonno e padre di Lorenzo. Di entrambi si trovano nella Biblioteca Berio le lettere relative al governatorato in Corsica, carica alla quale furono eletti entrambi, a poco più di un quarto di secolo di distanza l’uno dall’altro: Federico nel 1668, Ambrogio nel 1696.
La scelta a governatori di Corsica è un chiaro contrassegno di prestigio, che segnala lo spessore oligarchico di quei personaggi. In realtà Ambrogio Imperiale raggiunse i vertici del cursus honorum patrizio: fu ambasciatore in Spagna nel 1704 (ancora in quel momento il più prestigioso incarico diplomatico che potesse toccare a un magnifico, per giunta in una congiuntura delicata come quella delle primissime fasi della guerra di successione)[515], e infine ascese al dogato nel biennio 1719-1721[516].
Precedenti di questa caratura facevano di Lorenzo Imperiale, per nascita, una figura di primo piano dell’oligarchia cittadina. Battezzato in Sant’Agnese il 12 luglio 1687, fu ascritto alla nobiltà il 15 dicembre 1705. Gli si conoscono due fratelli, Ambrogio[517], menzionato nell’epistolario, e Carlo, del quale invece non si hanno notizie[518], e una sorella, Maria Francesca. La condizione privilegiata viene confermata dai dati fiscali, che nel 1731, nel 1738 e nel 1744 attribuiscono a Lorenzo e al fratello Ambrogio imponibili ragguardevoli, anche se non i più alti nell’ambito della famiglia Imperiale, il primato restando appannaggio del lontano cugino principe di Francavilla, tipico patrizio genovese dagli interessi ben radicati nel regno di Napoli[519].
Il cursus honorum di Lorenzo non fu però all’altezza dei precedenti familiari. Imbussolato nell’urna del Seminario soltanto nel 1735 (sette anni dopo quando gli sarebbe stato consentito dalla legge: una dilazione sorprendente per un personaggio del suo rango), fece parte del collegio dei Procuratori dal 7 gennaio 1740 al 31 dicembre 1741. Reimbussolato nel giugno 1743, venne estratto come senatore il 13 ottobre 1745, ma non poté assumere la carica perché impedito; nuovamente estratto, stavolta come procuratore, proprio mentre era assente da Genova, nel giugno 1746, si fece scusare. Era già morto nel giugno 1749, quando il suo nome fu estratto ancora una volta dal bussolo[520].
L’impossibilità del marchese di entrare nei Collegi nel 1745-1746 si spiega con la sua partecipazione alla campagna condotta dalla Repubblica con gli alleati gallispani, ai quali si era legata con il trattato di Aranjuez[521]. Commissario generale a Gavi, Lorenzo Imperiale difese le posizioni contro l’armata austriaca[522]. In seguito dovette essere preso prigioniero ma liberato sulla parola, perché poté recarsi a Napoli, dove lo raggiungevano le notizie sulla madrepatria trasmessegli dai suoi corrispondenti genovesi, e dove svolse anche un’occasionale incombenza diplomatica presso Carlo III di Borbone[523].
Lorenzo aveva sposato Artemisia Grillo q. Agabito (la “Signora Artemisia” delle lettere)[524], dalla quale ebbe un’unica figlia, Marzia, andata a suo tempo in sposa a Carlo Centurione q. Gio. Batta q. Carlo[525]. Ai Centurione, del ramo degli Oltramarini, era appartenuta la madre, Marzia q. Cosmo q. Marco; e alla stessa famiglia, ma nel ramo dei Becchignoni, Lorenzo era legato anche attraverso la sorella Maria Francesca, andata in sposa a Gio. Tommaso Centurione q. Lorenzo, uno dei personaggi più ragguardevoli nella politica genovese di quegli anni: “le plus accompli de tous les cavaliers que je connoisse a Genes”, secondo l’inviato francese Jacques de Campredon, che ne era diventato amico e ne accreditava in patria la conversione dalle iniziali posizioni filoimperiali al sostegno delle ragioni della Francia[526]. Assai diverso invece il giudizio del diplomatico francese su Lorenzo Imperiale, presentato in modo malevolo come “un esprit bisare et capricieux, le Monde, la politique, la Religion, il Embrasse tout, et ne parle juste sur rien; homme a chicane, pointilleux, vetilleur, et faux plaisant, on ne sçait ne ce qu’il aime, ni ce qu’il haït; tantost c’est d’un air grave et imposant sous le quel il se montre, et tantost il affecte des manieres polies et enjoués, tout cela luy est cependant Etranger, la bisarerie seule luy est naturele”[527].
In mancanza di scritti dell’Imperiale, che valgano a confermare o smentire il profilo tracciato con penna degna di Saint-Simon dal rappresentante del Cristianissimo, prendiamo atto del giudizio con beneficio d’inventario. Osserviamo soltanto che il circolo di relazioni familiari di Lorenzo Imperiale (la sua stessa famiglia, i Grillo, i Centurione) apparteneva all’ala tradizionalmente filospagnola e, nella prospettiva degli anni della guerra di Successione austriaca, filoborbonica del patriziato genovese, e che esistevano dunque i presupposti perché egli fosse presentato sotto una luce favorevole da un inviato del re Cristianissimo. Va però aggiunto che il giudizio espresso da Campredon nel 1737 era finalizzato allo specifico obiettivo diplomatico, assegnatogli dal ministro degli esteri Chauvelin, di individuare i personaggi che in quel momento potevano essere considerati più sicuramente già guadagnati o guadagnabili agli interessi francesi. Non sappiamo come lo stesso inviato avrebbe classificato i patrizi genovesi nella congiuntura della non facile alleanza “borbonligure” di Aranjuez.
Qualità del destinatario e sfondo delle lettere sono già evidenti motivi di interesse di questo epistolario. Non solo: personaggi di ceto, cultura e posizione diversi fornirono per circa due anni osservazioni sugli stessi eventi, non esprimendo però opinioni né fornendo informazioni del tutto coincidenti. La qualità e l’origine stesse delle notizie variavano. Gli amici e i parenti patrizi del marchese (e soprattutto Durazzo) potevano intrattenerlo sui retroscena della politica cittadina, alta e bassa, con diretta cognizione di causa. Su quel terreno, Degola e Conti dipendevano dalle informazioni raccolte presso terzi; in compenso anch’essi avevano notizie di prima mano da fornire: talvolta semplici voci, ma spesso osservazioni colte per le strade e nelle conversazioni dirette con personaggi sventagliati su uno spettro sociale assai ampio, che andava dagli oligarchi agli affittuari del marchese ai domestici di casa. Non erano, ovviamente, i soli informatori di Lorenzo, il quale corrispondeva parallelamente con altri patrizi, lo ricaviamo dalle lettere, e verosimilmente con procuratori e uomini d’affari. Ma la corrispondenza che Degola e Conti mettevano assieme per affidarla al corriere per Napoli via Roma, e che come si è detto includeva anche le missive di alcuni oligarchi influenti, rappresenta proprio per questo una fonte di prim’ordine. E’ una corrispondenza ordinaria tra personaggi tutto sommato ordinari, ma sullo sfondo di tempi straordinari: avviata quando nulla lasciava pensare quale piega avrebbero preso gli avvenimenti, e quali eventi l’abate e l’amministratore avrebbero visto svolgersi e dovuto riferire. Pensavano, non c’è dubbio, Degola e Conti di rendere conto soprattutto di affitti riscossi, legnami venduti e vini acquistati, e di trasmettere notizie di cronaca bianca e rosa riguardanti le conoscenze e parentele genovesi del marchese. Si trovarono invece a raccontare una disfatta, una quasi rivoluzione e una guerriglia dura e feroce. Seguiamoli.
L’intitolazione archivistica dell’epistolario ricorda con precisione che le lettere trattano sia della Repubblica sia della Corsica[528]. Ma in questa sede lasciamo da parte le notizie riguardanti l’isola, dove pure nel 1746 il controllo genovese sulla stessa capitale Bastia apparve per un momento compromesso, e dove era attivo un agente del re di Sardegna come Domenico Rivarola. Su ciò che accadeva in Corsica tutti i corrispondenti del marchese erano tributari delle gazzette, delle voci portate dai patroni di barche di ritorno a Genova, e ovviamente delle notizie trasmesse al governo dai rappresentanti civili e militari della Repubblica nell’isola: notizie che filtravano dalle sale dei Consigli ai salotti dei patrizi e agli scagni degli uomini d’affari. I corrispondenti patrizi, Durazzo soprattutto, che avrebbero potuto dire di più, su questo punto sono parchi di osservazioni. Come se, una volta giustiziati nel cortile del Palazzetto Criminale i capi ribelli catturati, constatata la divisione tra Rivarola e Giafferi, e sicuri della conservazione delle piazze costiere, i governanti genovesi ritenessero stabilizzata, e comunque controllabile alla meno peggio, la situazione nell’isola. Assai loquaci sono invece i corrispondenti del marchese sulle vicende della fallimentare campagna dei Gallispani del 1746, e successivamente sulla resistenza genovese alle forze austriache e alle loro incursioni verso la città nell’inverno del 1747.
L’interesse maggiore dell’epistolario sta pertanto nella descrizione dall’interno della scena cittadina prima, durante e dopo l’insurrezione del dicembre 1746. E’ una fonte che meriterebbe di essere pubblicata nella sua interezza. Nell’attesa, segnaliamo la spregiudicatezza delle osservazioni e la ricchezza degli spunti che essa offre alla ricerca.
I mesi intercorsi tra la capitolazione della Repubblica con il generale Botta Adorno e l’insurrezione, segnati dal problema di far fronte alle contribuzioni, vengono impietosamente descritti soprattutto nelle lettere di Degola. La capitolazione ha aperto una crisi all’interno dell’oligarchia. I settori meno favoriti del patriziato, forti nel Maggior Consiglio[529], abbozzano un’opposizione alle decisioni del governo, soprattutto in merito a come ripartire il carico della contribuzione. I contrasti tra i magnifici, che riacutizzano le tensioni emerse un anno e mezzo prima, al momento di deliberare se far scendere o meno in campo la Repubblica nel conflitto in corso, per salvare il Finale, non sono dunque successivi all’insurrezione, ma la precedono[530].
Non mancano, in quell’autunno di scontento e disfatta, le speculazioni sordide ma vantaggiose sui cambi e sui prezzi delle derrate[531]. Parecchi patrizi, soprattutto tra quelli più ricchi, trovano una facile soluzione alle difficoltà nella fuga poco decorosa dalla città[532], bagagli e mobilio al seguito; e quando si prospetta dapprima l’eventualità dell’acquartieramento di ufficiali austriaci in dimore private, e poi l’imminenza dei prelievi forzati di somme di denaro, Anna Pallavicini, la moglie del conte generale Gian Luca Pallavicini, genovese di illustre e doviziosissima schiatta al servizio di Carlo VI e ora di Maria Teresa, è corteggiata da parecchi, in cerca di un trattamento privilegiato a scapito dei consorti. Al pari di Pallavicini, anche Beltrame Cristiani, nato suddito della Repubblica, a Varese Ligure, ma ora gran cancelliere di Milano, suscita aspettative, ma le delude subito: arrivato a Genova si preoccupa soprattutto di insediarvi la posta di Milano. Il fratello stesso di Lorenzo Imperiale, Michele, ne trae vantaggio affittandogli un palazzo. Mal gliene incoglierà: durante l’insurrezione l’edificio sarà saccheggiato dal popolo patriota. E solo l’intromissione di un patrizio demagogo, Gio. Luca De Franchi, risparmia alla fastosa dimora di Anna Pallavicini il sacco che gli insorti riservano ai collaborazionisti: tale appare ad esempio Agostino Airolo, che ha impedito il tempestivo accerchiamento e disarmo di un distaccamento austriaco in Albaro, e sconta l’atteggiamento ligio alle disposizioni del governo (un atteggiamento di fatto filoimperiale, gli insorti non si ingannano) con la spoliazione della sua casa di villa[533].
Della celebre insurrezione i corrispondenti forniscono al marchese resoconti complementari. In Degola è trasparente l’entusiasmo patriottico e quasi febbrile (anche in senso proprio: in quei giorni, e spesso in seguito, Degola si dice malato) per lo slancio popolare, e anche una vena polemica, emersa già nelle lettere dei mesi precedenti, nei confronti dei patrizi: attitudine insospettabile nel deferente stipendiato del marchese Imperiale. L’oligarca forse non la coglie o forse sceglie di ignorarla; in ogni caso non gliene vorrà: nell’ultima lettera dell’epistolario Degola ringrazierà il padrone, in procinto di tornare, per la congrua remunerazione annunciata. Più prudente e misurato, l’abate Conti segnala subito una partecipazione non solo popolare all’insurrezione: ci sono soldati regolari della Repubblica e sbandati dell’armata spagnola in borghese tra i guerriglieri di strada di dicembre, così come subito ‘micheletti’ e ‘mignoni’ spagnoli (ma si vorrebbe sapere quale fosse davvero la composizione di quei reparti) compaiono tra i difensori dei passi della Val Polcevera assieme ai paesani candidati a ripetere (ma non tutti e non sempre, lo vedremo subito) le gesta degli avi “huomini feroci”[534] illustratisi durante la guerra savoina del 1625, quando “andavano a caccia di loro [dei piemontesi, anziché dei soldati della regina d’Ungheria] come di lepri”[535]. Ora la situazione è infinitamente più complicata e ambigua. Botta Adorno risale la val Polcevera sino a un certo punto indisturbato; ma quando si diffonde la voce del rovescio austriaco e del clamoroso e fruttuosissimo saccheggio del campo imperiale a Sampierdarena (quel saccheggio che svia gli insorti dall’andare sollecitamente al soccorso di Savona assediata), anche i polceveraschi si danno ad attaccare le colonne in ritirata, o semplicemente si fanno remunerare il libero passo, e ne ricavano quattro muli carichi di doppie. Nei mesi seguenti, la Bocchetta e i paesi contigui, come Pietralavezzara, Campomorone, Langasco, Mignanego sono teatro di incursioni di ‘varadini’ e ‘croati’ (ma forse sono serbi ortodossi del “confine militare” coloro che, tra altre atrocità, evirano un frate) ora respinte e ora no dai paesani e dai ‘mignoni’. Quando non accade però che il nemico si avvicini preceduto da ausiliari di Voltaggio, che “parlano genovese” e lanciano al posto di guardia la parola d’ordine “Viva Maria!”, il grido di guerra del popolo in rivolta nelle giornate di dicembre, e riesca a massacrare i difensori dell’avamposto[536]. Il contrattacco regola i conti; e i genovesi (cittadini accorsi alla leva in massa più ancora che paesani, sembra di capire: e non è distinzione da poco, perché precisa e limita la portata della mobilitazione popolare[537]) danno volentieri fuoco alle case nelle quali stanno asserragliati gli immancabili croati, che nelle lettere di Degola muoiono sempre a centinaia (ma i mantelli rossi dei panduri in vendita sul mercato a Genova non è chiaro se siano le spoglie dei nemici coraggiosamente sterminati o materiale predato senza rischio nei magazzini di Sampierdarena[538]), mentre le perdite genovesi sono altrettanto puntualmente irrisorie.
Dalle lettere traspare la brutalità di una guerriglia che vede più colpi di mano e imboscate, insidiose incursioni e ritirate frettolose, che scontri in campo aperto. Si combatte per giunta sulle alture innevate in un clima rigido propizio ai congelamenti[539]. Gli invasori si vendicano dello stillicidio di perdite bruciando e devastando i borghi che attraversano, o forse applicano la tattica del terrore, e attaccano proprio per distruggere e saccheggiare, non essendo abbastanza numerosi (da quattro a ottomila, stando alle stime incerte e oscillanti dei corrispondenti del marchese) per potersi illudere di prendere la città. Facilissimo dunque respingere gli attaccanti, nota Lomellini, “ma difficilissimo l’impedire che tornino”: e nemmeno il patrizio illuminista si astiene dal farne colpa alla condotta indisciplinata dei miliziani[540]. Comunque sia, quei paesi si ricorderanno a lungo dei croati, commentano senza eccessiva compassione Durazzo e Lomellini, che trovano un dotto paragone per i soldati della regina d’Ungheria nei Goti e nei Vandali[541]. L’armata imperiale è assottigliata dalle diserzioni: una quindicina di effettivi al giorno, calcola il prudente Durazzo; venticinque, trenta, anche sessanta per volta con i tamburi in testa, esagera Degola. I disertori tedeschi (anche in questo caso, chissà chi sono e da dove vengono: Botta Adorno ha frettolosamente chiamato a raccolta anche la gente del parmigiano per rinfoltire i ranghi[542]) scendono al porto per andare a prendere ingaggio sotto opposta bandiera, quella delle Due Sicilie[543]: con buona intuizione, verrebbe da pensare, dello scarso rischio che si correrà in quell’esercito che si sta ancora riorganizzando oltre il Garigliano e chissà se vedrà mai il fronte.
Il popolo della città, protagonista dell’insurrezione, diffida dei paesani. A febbraio Degola scrive che il governo deve difendere con un proclama la reputazione dei valligiani di Polcevera (sono loro, soprattutto, ad attirare i sospetti[544]) e di Bisagno di fronte ai cittadini indignati dalla constatazione che le truppe imperiali marciano sempre precedute e informate da guide locali, che in cambio di buoni contanti mostrano i passi e i sentieri, e si prestano a far entrare in città lettere di Botta Adorno nascoste in “cavagni” di uova ruspanti[545]. E non se ne impicca nessuno! deplora Degola[546]. Del resto, quando Masone, che Degola e Conti sperano inespugnabile, cadrà, saranno gli uomini di Campoligure (allora Campofreddo), feudo imperiale per altro, ad accompagnare gli austriaci e ad agire da saccomanni sui vicini-rivali masonesi[547].
Le lettere manifestano un punto di vista strettamente metropolitano. Sono stati i cittadini a insorgere; loro a mobilitarsi e bene o male a combattere. Nelle podesterie vicine gli animi sono già assai meno bellicosi: di fronte al pericolo, gli anziani di Sestri e di Voltri capitolano un po’ troppo sollecitamente[548]; e i paesani affrontano gli invasori quando questi bruciano le loro case, ma non si astengono, come si è detto, dall’aiutarli, e dall’approfittare del generale disordine per darsi al saccheggio indiscriminato[549]. In città i lesti di mano e gli “oziosi” sospetti vengono fatti rastrellare da squadre di camalli da vino in servizio d’ordine e deportati fuori delle mura[550]: in questo è verissimo che oligarchi al governo e commercianti e professionisti del Quartier generale del popolo vanno d’amore e d’accordo. Da Sestri, dove non s’è salvata una cantina, a Molassana alla roba dei patrizi fanno più danni i paesani dei tedeschi, non si stanca di ripetere Degola; e c’è da chiedersi se nell’incendio di palazzo Sauli, in Bisagno, non ci sia un retrogusto di guerra sociale[551].
L’insurrezione ha aperto una fase breve (ma chi può saperlo, sul momento?) e intensa di disordine politico, nella quale vengono alla ribalta tutte le opzioni e tutto sembra possibile e credibile. Già nei tre mesi tesi e avvelenati trascorsi tra la capitolazione di settembre e la rivolta i patrizi filoborbonici, gli interventisti del 1745, sono stati oggetto di pesanti attacchi personali. L’entrata in guerra al fianco di Spagna e Francia, si sussurra, sarebbe stata propiziata da buoni pezzi da otto usciti dai forzieri spagnoli (dopotutto, si combatte anche per dare un trono all’infante don Filippo) e finiti nelle loro tasche. Un giorno Ippolito De Mari, uno dei padri dell’intervento, viene accolto dai colleghi con una salva di “Lè chi lè” (eccolo qui, chi ha preso i denari!), ed è costretto a lasciare l’aula rumoreggiante del Consiglio: impazzirà dal dolore, si teme; niente paura: sarà visto qualche mese più tardi a Lucca, per l’appunto mentre attorno a Genova si combatte, trascorrere un carnevale spensierato[552]. Anche i versamenti (di “partite grandiose”!) sui conti del già straricco Agostino Grimaldi suscitano sospetti che indignano i corrispondenti del marchese [553].
Non appena scoppia la rivolta un’ala del patriziato è subito patriota: sono i cosiddetti ‘patrizi popolari’, come Giacomo Lomellini e l’ex senatore Carlo De Fornari: non nobili poveri, attenzione! ma ricchi e influenti oligarchi che cavalcano abilmente l’insurrezione sia per controllarla meglio sia perché questa asseconda il loro obiettivo, che è raddrizzare le sorti della guerra e proseguirla al fianco dei gallispani. E se l’ex interventista Ippolito De Mari deve lasciare umiliato la città, forse non è un caso che proprio il suo palazzo diventi in gennaio la nuova sede del Quartier generale del popolo. I veri nobili poveri, invece, paiono ai corrispondenti di Lorenzo Imperiale rancorosi sobillatori: sarebbero loro ad agitare sottobanco la plebe. E’ come se Degola e Conti, constatando l’ostilità convergente verso il governo di opposizioni di segno e natura diversi e sotto sotto persino contrapposti, non possano fare a meno di collegare i fenomeni e leggerli in chiave di complotto. Può darsi che i nobili poveri sperino di guadagnare spazio politico grazie all’agitazione della plebe: ma non certo per amor suo. Forse non sbaglia Conti a insinuare che il “popolaccio” è “fomentato da parte de’ poveri Gentiluomini, vedendosi, che più non si vuole radunare il Consiglio grande, attese le autorità, che il Consiglietto ha ottenuto dal gran Consiglio”[554]. C’è invece da dubitare che i nobili poveri vadano a braccetto con l’élite borghese rappresentata nel Quartier generale del popolo e in parte cooptata in seguito nella nobiltà[555]: sono coloro che si candidano a scavalcarli socialmente.
Una cosa è chiara: tra le giornate di dicembre del 1746 e il febbraio-marzo del 1747 tutti sospettano di tutti e marciano separati. “Siamo gente contro gente”, constata Degola[556]. Le confuse vicende di queste settimane “fanno stare il Governo Serenissimo in grande attenzione, ed il Quartiere Generale in gran Gelosia”[557]. Il vertice della Repubblica tiene comunque buona nota delle teste calde, e al momento giusto le taglia (metaforicamente, s’intende: al patibolo andranno sempre e soltanto dei plebei): se ne accorgeranno da un lato Nicolò Maria Gentile, colpevole di estremismo filoplebeo, e dall’altro lato Paolo Battista Rivarola, sospetto di intelligenza con il nemico[558]. Qualche personaggio cerca di ritagliarsi demagogicamente uno spazio e un ruolo politico attraverso il comando delle milizie cittadine: Gio. Luca De Franchi, ad esempio, che però viene rapidamente messo fuori gioco[559]. D’altra parte, ampi settori del ceti popolari, alti e bassi, diffidano dei Serenissimi, così ambigui tanto nei giorni di dicembre quanto in seguito. Tra le recriminazioni dei plebei c’è “che i Cavaglieri se ne stanno a goder la sua pace nelli loro Palazzi mandando i poveri à spargere il sangue”[560]. A poco più di un mese dall’insurrezione il risentimento antioligarchico, rinfocolato dalla voce, non si sa da chi propalata (o meglio, i Collegi credono di saperlo: è stato Gentile) che i nobili siano pronti ad asserragliarsi tutti nella sede del governo (perché sennò vi avrebbero installato in tutta fretta dei forni? Per non mancare di pane….[561]) e lì aspettare il ritorno degli austriaci per consumare un sanguinoso tradimento ai danni del popolo, sembra per un momento prendere il sopravvento con il famoso assalto al Palazzo Ducale del 17 gennaio. L’oleografia immortalerà Giacomo Lomellini nell’atto di opporre il suo petto al cannone puntato sulla sede del potere oligarchico. Degola riferisce più prosaicamente di insulti e minacce al generoso o, piuttosto, velleitario gentiluomo (e non a lui soltanto: nemmeno Gian Battista Grimaldi, altro ‘patrizio popolare’, se la cava troppo bene), che svicola di soppiatto dalla scena del tumulto, si immagina sgomento ma vivo e vegeto, e promesso a due decenni di logorroica e patriottica polemica contro l’abbandono della Corsica[562].
Di fatto è la mancanza di un progetto politico alternativo a salvare il governo. Tutti si muovono e parlano e occasionalmente minacciano, ma nessuno ha e avanza un’idea-forza o una parola d’ordine che prefiguri un cambio di regime. I combattenti di dicembre litigano, a fucilate, per la spartizione del ricco bottino[563]. I quartieri sono in contrasto tra loro, portoriani contro tutti. I primi capi del Quartier generale del popolo sono sospettati di malversazione (e sarebbe interessante sapere chi abbia diffuso tra i buoni popolani la voce di imbarcazioni cariche di roba e contanti, pronte a salpare per chissà quali destinazioni) e vengono arrestati dagli stessi miliziani: una mossa che rafforza oggettivamente il governo[564].
Infine, i soli che sanno governare sono gli oligarchi. E presto arrivano in soccorso i francesi. Consiglieri militari e tecnici si introducono in città, mentre persino Degola orecchia abbastanza di alta politica da salutare come una svolta favorevole alla Repubblica la disgrazia del ministro degli esteri del Cristianissimo, il marchese d’Argenson[565], il compagno di scuola di Voltaire al liceo Louis-le-Grand, il diffuso memorialista. Per i molti antipatizzanti è d’Argenson la bête; per altri, l’ideatore di un progetto, utopistico o geniale a seconda dei punti di vista, di neutralizzazione dell’Italia attraverso una confederazione tra gli stati della penissola; è soprattutto un ministro degli esteri che si fida dei Savoia e rischia di far perdere la guerra all’ancora per poco Beneamato[566]: a Genova hanno ragione di salutare la caduta del “gran traditore, e nemico nostro”[567]. Arrivano in città soldi e, alla spicciolata, soldati. Forse il re di Francia ha atteso di comprendere come evolva il braccio di ferro tra oligarchi e rappresentanti dei ceti estranei al governo. Ma l’evidenza che Genova è sgombra di austriaci e che l’insurrezione ha fatto fallire l’invasione della Provenza (magra consolazione per Maria Teresa che Browne compia una ritirata da manuale, non la disordinata rotta che crede il buon Degola, tributario delle gazzette gallispane) basta a motivare il sostegno alla Repubblica, porta d’accesso alla pianura padana, snodo dei collegamenti con Napoli, morsa della tenaglia che stringerà il Savoia nella progettata campagna punitiva (così si spera: Belle-Isle rovinerà tutto con lo sconsiderato assalto frontale al colle dell’Assietta). Del resto, quando il maresciallo Boufflers arriva in città e si insedia a palazzo Tursi tenendovi “corte grandiosa” da signore qual è[568], l’entusiasmo popolare si è decisamente raffreddato. Si organizza una grande manovra di mobilitazione, chissà se giustificata dall’avanzata austriaca o astuto pretesto per saggiare la situazione: e appare chiaro che le forze popolari inquadrate dal governo sono disponibili e disciplinate, mentre le milizie delle parrocchie latitano, più di tutte proprio quelle di Portoria[569]. D’ora in avanti la guerra di farà come si deve: in uniforme e sotto il comando dei professionisti. Non ne scapitano i miliziani arruolati, che godono di soldo e pane assicurati, con gran dispetto di Degola: ma è stato proprio allargando i cordoni della borsa e dando generoso sussidio ai combattenti di dicembre che il governo ha evitato che i moschetti gli venissero rivolti contro. Dal punto di vista dei plebei, miliziani e no, le settimane del disordine urbano sono state una felice parentesi. Ora che in città c’è un duca e pari e maresciallo di Francia e arrivano rinforzi regolari la guerra torna ad essere un affare dei signori: siano dunque i soldati di mestiere a dare l’esempio.
Quando nel novembre 1747 il marchese Imperiale annuncia il suo ritorno (l’ha già fatto in primavera, ma le notizie dei persistenti disordini l’hanno spinto a ripensarci[570]), Degola osserva candidamente che non sa se Genova gli piacerà. Abbandonati rapidamente gli entusiasmi dei giorni di dicembre, Degola condivide la probabile preoccupazione degli oligarchi nei confronti di quello che egli stesso nel dicembre 1746 ha esaltato come un “popolo così indomito”, ma ora gli appare piuttosto un “popolaccio” incline alle ruberie e riluttante a combattere ancora, come dimostra la “somma indolenza nel non voler pensare ad alcuna diffesa” che a quanto pare fa alzare il sopracciglio anche al generale francese Marillac[571]. “Qui si dorme saporitamente”, rincara la dose Conti: e meno male che gli austriaci sono pochi e privi di artiglieria. Né Degola né l’abate si chiedono però perché mai i popolani dovrebbero versare spensieratamente sangue quando hanno visto tanti dei governanti mettersi in salvo di gran carriera (Domenico Orero travestito da frate![572]), invece di emulare l’eroico Pier Maria Canevari, subito promosso a icona del valore patrizio e onorato con un “magnifico interro” pubblico di palesemente politica solennità[573].
Nel frattempo la città, bloccata dal mare in maniera molto imperfetta (i navigli inglesi disturbano, ma non troppo; dal canto loro le galee della Repubblica si guardano bene dallo sfidare quello scampolo di Royal Navy che hanno di fronte: capitan Di Negro, nonostante gli ordini, preferisce rischiare la degradazione piuttosto che uscire a combattere[574]), non manca di niente: si respingono bastimenti carichi di grano, pur sapendo che andranno a sfamare gli austriaci, tanto se ne abbonda; al Ponte Reale si sono aperte taverne e rivendite di commestibili in quantità[575]. Dietro le “continue, giornali, e divote processioni d’ogni rango e sesso”[576], le mobilitazioni frettolose, gli allarmi ripetuti, si scorge una cuccagna popolare (soldo facile e pronta cassa, pane fresco, divise nuove per tanti, gabelle sospese, commerci e contrabbandi a volontà[577]: e che soddisfazione vedere i nobili con il moschetto in spalla marciare e fare le ronde![578]) destinata a finire con la pace e il definitivo ritorno all’ordine.
Le valutazioni preoccupate di Degola, Conti, Durazzo (come fare, ora che il governo è “ridotto … totalmente Democratico”, a “ripigliare l’Aristocratico”?[579]) eccedono, ormai lo sappiamo, in pessimismo: ma non a caso il più tranquillo dei tre è il ricco patrizio, che la sa lunga. Peccato perderli di vista prima di assistere al finale della storia. La Repubblica oligarchica ha fibra assai più robusta di quanto non vogliano credere gli osservatori, e ancora un bel tratto di strada da percorrere[580]. E sugli avvenimenti registrati dai corrispondenti del marchese Imperiale in tutta la loro confusa ma vitale complessità cala quasi subito una spessa e resistente cortina di mistificazioni, luoghi comuni e falsi problemii[581], che a due secoli e mezzo di distanza si fa ancora fatica a sollevare. Nelle pagine della storia ufficiale della guerra, ad opera di Gian Francesco Doria, come in quelle, giudicate sovversive dal governo, del prete Francesco Maria Accinelli le vicende del 1745-1748 verranno subito presentate alla luce del mito della concordia d’intenti di patrizi e popolari (Doria) o di quello dell’indefettibile patriottismo popolare (Accinelli). Una visione in entrambi i casi unanimista e rosea, volutamente dimentica di ambiguità, opportunismi, asprezze realpolitiche e conflitti intestini, che le lettere di Degola, Conti e Durazzo smentiscono in presa diretta[582].
Chi riprenderà criticamente in esame l’esperienza genovese del 1745-1748 farà bene a ripercorrere questa corrispondenza.
APPENDICE
La rivolta del dicembre 1746 nelle lettere dei corrispondenti di Lorenzo Imperiale
Della corrispondenza inviata a Lorenzo Imperiale abbiamo scelto di presentare soltanto le lettere relative all’insurrezione del dicembre 1746, sia per la notorietà e l’importanza dell’evento, sia per arricchire la serie di resoconti che su quelle giornate è stata pubblicata, integralmente e no, nel corso della lunga polemica balilliana, sia infine perché è un buon esempio della diversità dei punti di vista e dei modi di presentazione dei fatti che caratterizza tutto l’epistolario.
Criteri di edizione.
Si è voluta conservare la patina originale delle lettere, evidenziandone in questo modo le diversità di stile. Mentre sono state pertanto sciolte, senza darne segnalazione, le abbreviazioni, sono state mantenute ortografia, punteggiatura, maiuscolazione e accentazione originali, che nonostante le numerose scorrettezze e oscillazioni non impediscono la piena comprensione dei testi. Le sottolineature riproducono anch’esse quelle del testo originale. Tra parentesi uncinate sono state poste le parole o lettere cancellate; tra parentesi quadre le integrazioni al testo. La numerazione delle lettere e la paginazione del manoscritto sono state apposte, rispettivamente a penna e a matita, dai due successivi archivisti.
153
[Gio. Antonio Degola al marchese Lorenzo Imperiale]
[c283r] Eccellenza
Genova li 16 dicembre 1746
Riccevei Gratissima di Vostra Eccellenza arrivata in tempo apponto della rivoluzione, e liberazione di questa Città dalle mani de Tedeschi, che miracolosamente seguì il Giorno 3[583] come ne averà avuta la distinzione da’ Fogli trasmesegli dal Signor Abbate Conti, astenendomi io ora d’inviarglieli per non tediarlo. Un fatto così memorabile mai più inteso hà posto di nuovo la Corona à questa Città, non potendosi attribuire ad altro, che ad un vero, e perfetto miracolo. Ora il Popolo comanda tutta la Città, avendo tutte le Porte nelle sue mani.
Tutto si dispone dal Quartier Generale del Popolo, che rissiede nel Colleggio de Padri Gesuiti. Hanno fatto piantare le Forche sotto il Palazzo della Signora Pimpetta per intimorire i Ladri.
D’ogni ora corrono Tamburi à promulgare Leggi quiete alla Città. Passa ottima corrispondenza frà il Palazzo, et il Quartier Generale, essendone direttore di questo il Signor Giacomo Lomellino[584], che in queste circonstanze si è segnalato, essendo stato il suo maggior disgusto l’absenza di Vostra Eccellenza in queste circonstanze, essendosi più volte udito, e in [283v] Consiglietto, e nè Colleggi, dove è, dove è Lorenzo Imperiale, et il suddetto Signor Giacomo più volte meco s’andava sopra di ciò esalando, già era stato stabilito minacciato dal Botta di volere prendere il possesso di tutte le Porte si di Mare, che di Terra, e ponere Quartieri in Città, con avere mandato preventivamente un numero d’Ufficiali à cavallo per prendere il numero de soldati che la Republica teneva per guardia delle Porte, uscì ordine dal Governo à tutti l’Ufficiali delle Porte della Città, che se fossero andati soldati Tedeschi alle Porte, li dovessero lasciar entrare: Il giorno di detta essequzione era stato stabilito per il dì 13 <che> si era il detto Generale lasciato intendere, che solam.te in 26 Case averebbe mandato à fare detta essequzione per cavare immediatam.te dà queste il valore dei due Millioni di scuti argento, e fiorini duecentomilla, che onninamente voleva essigere. Tutta la Nobiltà à vista di detta minaccia si posero i Nobili à scapar via confusam.te fuori di Città portando via tutto quanto potevano, li basti sapere, che per levare un Gosso per Quarto vi vollero 11 doppie; à vista di questa confusione quattro bastonate date ad un zembo[585] di Portoria, che ricusò di voler mettere la mano per aiuttare à strascinare [c 284r] un Mortaro sono state la caosa di una cosi bella sollevazione. Averessimo avuto una perfetta Vittoria, e non si sarebbe salvato nepure uno Tedesco, se nell’inseguir detta Truppa il Nostro Popolo non si fosse straviato, et indormentato al saccheggio delli ricchi, et abbondanti Magazeni de Tedeschi; Nonostante l’insistenza del Popolo il Governo non volle mai adderire à dare al Popolo le armi migliaia, e migliaia di Popolo s’addunorono in Piazza Nuova gridando ad alta voce Viva il Governo e la Libertà, ma che ci dia Armi, passorono quasi due giorni in detta confusione andando à tutti i Posti à disarmare i soldati, correndo à tutte le Case de Cittadini in Truppa à prendere tutte le armi, che vi ritrovavano, accorsero pure alle Case di tutti li Ufficiali ove ritrovavano gran copia di schioppi, scoprirono ancora varj Magazeni di Schioppi, et Armi bianche, che erano per Città, accorsero ad impadronirsi delle Polveriere, cacciando giù botteghe ove speravano ritrovar Piombi dà tutte le parti si strascinavano Cannoni, talmente che intimorito sempre più il Governo della debolezza dà lui creduta del Popolo fedele, il giorno primo alla sera sortì decreto dà Colleggi, che dal corpo di Guardia del Palazzo ordinandole far fuoco sopra del Popolo, allorquando avesse voluto tentare con violenza l’intento dell’armi. Già il Popolo [c 284v] avea determinato di far condurre Cannoni in Piazza nuova e s’era dichiarato che averebbe amazzato tutti li Nobili se non le concedevano Le Armi; s’immagini Vostra Eccellenza come era del stare in Città, il Signor Giacomo il giorno 2[586] entrò cinque volte ad essortarli à conceder l’Armi per non avere tutta la Nobiltà dà rimanere sacrificata tanto fece, che ottenne l’intento, entrava à fiummi il Popolo in Palazzo à prender l’Armi alle ore 19 si diede universale Campana martello che non mancò intimorire il Botta, il quale mandò subbito un Tamburo per sapere le pretensioni del Popolo, con chiamare da lui i Capi, andorono varj Bindoli capo di tutti questi era un’ Guercio, che si diceva Generale del Popolo fece il detto guercio la sua instanza à nome del Popolo, del che il Botta si rideva, ma poi doppo poche ore il giorno 3[587] il detto Generale abbandonò l’impresa, e se ne fugì, e montò à cavallo sù la piazza della Trinità, vi vorrebbero fogli molti per dire tutte le circonstanze, ma queste spero se le diremo à viva voce. Quel che preme ora si è la liberazione della Fortezza di Savona, che stà cadente se non si soccorre già dà molti giorni sostiene vigoroso attacco dà nemici per Mare non può darseli soccorso, che viene impedito dalle Navi Inglesi, si fà gran sforzo dal Popolo per formare un grosso corpo d’essercito per vedere di attaccare li Piemontesi non si cessa di dare per tutto il Dominio campana martello per indurre tutto il <Poppj> Popolo possibile dandosegli due Filippi di regallo [c 285r] per una volta tanto, e soldi quaranta il giorno per ogni Uomo e pure sono ora cosi avviliti, che non si trova forma di mettere assieme quel numero, che sarebbe necessario. Il Popolo si fece Padrone delle Gallee in poche ore se ne allestirono trè poco doppo anche la quarta, oggi stanno per partire con la Barca dà corso, e molti altri bastimenti carrichi di Truppa per vedere se trovassero modo di sbarcare in Arbisola se non verrà impedito dalle Navi in tal caso sbarcheranno ove potranno: Essendo punto di conseguenza la liberazione di Savona, senza di che nulla averessimo fatto. L’incendio del Palazzo di Agostino Airolo[588] doppo d’un essatto saccheggio con tale barbaria essequito che nulla averebbero potuto far di più li antichi Goti per opera del Signor Giacomo Lomellino stato liberato dal saccheggio il Palazzo Airolo in Genova Signora Annetta Pallavicina[589] si è ritrovata alle strette col Palazzo pieno di sollevati, che volevano darle il sacco Grazie à Dio e del Signor Gio. Lucca de Franchi[590] uno de capi di quel gran numero de sollevati, che fatta fare esatta perquisizione per tutto il Palazzo, e non ritrovatovi Ufficiali Tedeschi presero il partito di quietarsi Il gra[n] mottivo che aveva il Popolo di dar questo saccheggio fù perché credevano, et anche forze sapevano [c 285v] che quelle 18 case, <che aveva> de proprj Parenti che avevano ottenuto per mezzo della medema Dama le salvaguardie per li loro Palazzi, avessero <po> mandato nel Palazzo suddetto tutte le loro più ricche suppeletili, et argenti, l’essere io cascato à letto gravemente travagliato dà Febre, e Podraga m’impedisce di poterle dire altro, si pensa à mandare un Inviato in Inghilterra, e si è parlato della Persona del Signor Checco Doria[591] non sò cosa sia stato rissoluto oggi. In quanto à i mobili già il Signor Cardinale[592] si era provisto per quattro stanze però continuando Vostra Eccellenza nel pensiere di volerli levare dà Genova si unirebbero con quelle del Signor Cardinale, come ne ricceverà notizia dal Signor Abbate Conte, che è quanto.
Perdoni l’informità della lettera ma ritrovandomi in questo ponto con una gran febre finisco. [c. 286r]
155
[L’abate Ambrogio Conti al marchese Lorenzo Imperiale]
[c 287r] Eccellenza.
Stanco, e fatigato a maggior segno per le angustie, ed anscietà della Casa afinché da Forusciti nel rumor Popolare non fosse sorpresa come alcune altre, da Lunedì 5 corrente sino aj 15 non hò tempo da respirare. Grazie a Dio si và rimettendo la quiete, e quantunque ogni casa si tenga ancora ben chiusa, pure non v’è più tanto timore. Dall’aclusa relazione[593] Vostra Eccellenza resterà intesa della gloria del Popolo Genovese nell’aver il giorno 10 scacciato à forza l’armi Austriache obligate ad una precipitosa fuga perduto tutto l’equipaggio, la Tesoreria, gran parte della Tesoreria, tutti j magazeni d’ogni sorte, e tutto il Bagaglio, oltre 1600 frà morti, e feriti, e 4mila Priggionieri senza l’Ufficialità in gran numero, e d’ogni sfera, custoditi j primi entro la Fabrica dell’Albergo in Carbonara, Lazaretto, e varij Oratorij, e guardati ò distribuiti i secondi entro quatro Palazj, rimasti solo de nostri 18 morti e 42 feriti, da che si vede quanto vi abbia giocato L’alta mano di Dio.
Lunedì solo 12 corrente ricevei la sua, e già avevo scritto con la spedizione che si fece alla Domenica sera, per mezzo della quale averà inteso il sucesso de 10 alla confusa, perche in tutta fretta.
Oggi ricevo altra di Vostra Eccellenza de 6 corrente e sul dubio che sia gia partito da Napoli, a caotela diriggo questa à Monsignor Cosimo suo Fratello[594].
Finche le cose sono in confusione non si parla, ne di bosco ne di legna così ne meno di riscossioni, perche ognuno è in moto. [c 287v]
Questa matina hò riverito l’Eminentissimo Marini[595], che stà per partire frà due, o tre giorni. Circa il darle robba, o altro dice che lascia qui ancora la sua, e siamo restati che me l’intenda con Prete Marrè circa il modo, e buona e sicura ocasione per unire alla sua quella di Vostra Eccellenza per spedirla assieme; Vedendo ora però assai lontano il rischio, attenderò l’ultime determinazioni di Vostra Eccellenza, per non fare una spesa assai grande di Casse, di Nolo, et altro superfluo.
Allora quando cominciò il sussurro per la Città Lunedì 5 corente son venuto a dormire quì in casa, ne più mi sono partito, e sicome doppo la grida publica restavo anche privo di Mateo, che andò pure a far il valoroso nel combattimento, dove poi li è toccata la sua buona parte di Buttino, così feci tornare in casa Lorenzo per avervi una Persona fidata passandoli quello che li dava Vostra Eccellenza. Una volta però che tutta la Città sia in ordine, e quieta lo licenzierò, se Vostra Eccellenza non mi avisa in contrario.
Nella Relazione hò sempre escluso il Governo, e la Nobiltà dall’impegno Popolare, ma per altro molti nobili eran nella mischia distribuendo denari, e animando il Popolo aiutato ed assistito dall’Uficialità, e Truppa regolata travestita da Popolare.
In tutta questa settimana si è spedito rinforzo per mare, e per terra alla Fortezza di Savona che si spera debba presto liberarsi dall’assedio, e oggi vi sono andate 4 Galere, la Barca da Corso, e la Galeotta con Gente pagata à soldi 40 il giorno. [c 288r]
I Capi Popolo non nominati nella relazione sono Tommaso Asereto Figlio dell’Indiano, un tale Signor Camillino, il Pittor Comotti, Carlo Bava, Carbonino, il Calzuolaro detto lo spagnoletto, Monsieur Moulè, e Carlo Galuppi che era alla testa de suoi Catalani, e Spagnuoli, avendo egli avuto l’onore di condur priggioniero di Guerra un Battaglione intiero con tutti li Ufficiali, armi, e Bandiere fermato in Albaro[596].
Giovedì giorno 15 si fece la solita estrazione del Seminario, e ne sortirono: 49 Gio. Luca Pallavicino, 39 Felice Pinello, 99 Gio. Francesco Morando, 33 Fran.co Maria d’Aste, 114 Stefano Lomellino q. Gio. Francesco[597].
La sua Casa, e robba grazie a Dio è tutta salva, perché Iddio mi hà aiutato a non ricevere, ne custodir mai robba de Tedeschi; vi hò guadagnato dentro una soma di vino Monferrat, che non è malo, a lire 34 <f> in Casa, perche allora non v’era gabella alle Porte di San Tommaso, e l’hò posto in Damiggiana per Vostra Eccellenza, e la Signora.
Non si può dire quanto il Popolo minuto siasi utilitato in tale congiuntura. I Paesani di Polcevera anno preso a Tedeschi 4 muli carrichi di Denaro, che fermarono a mezza strada, a Sestri sono state prese a un Ufficiale priggioniero 2mila Doppie, e ad un’altro Comisario à Cornigliano 50mila Genovine. Per Città vi è una fiera continua di robba d’ogni sorte, e chi hà denari fà facende, io pero non mi curo di tali guadagni bestemmiati. [c 288v]
Il Signor Michelino[598] come che aveva appiggionato il Palazzo in Castelletto cioè il primo appiggionato alla Posta nuova di Milano[599], ed il 2° ad un Comissario di guerra è stato sacheggiato, ed hà perduta la maggior parte de suoi mobili, tra quali due salotti di Damasco, avendovi lasciate 4 tele per misericordia.
In queste confusioni non hò avuto tempo di cangiare in oro la moneta di argento, mà lo farò nell’entrante, sperando che l’aggio de biglietti anderà rimettendosi; ma come dissi, non mi pare bisogno di tanta fretta presentemente, e la raguaglierò di tutto.
E’ morto il Signor Paolo Geronimo Pallavicino[600], e il Signor Gio. Carlo Brignole[601].
Credo che vi sarà presto una Procession Generalissima, e una bella fonzione, quando j Capi Popolo, come si spera, andranno a restituire il comando al Senato, con cui, per quanto posso sapere, và benissimo d’acordo secretamente, e l’errario publico fà le spese.
Altro non hò da soggiungere; dell’interessi ne scriverò col venturo; La prego de miei rispetti alla Signora che si divertirà nel veder vendicato il suo genio, e castigato quello del Signor Macaggi, che finita la guerra si fece veder Domenica in Banchi con spada, e schioppo, e riverentemente a suoi comandi mi rasegno
Genova 17 dicembre 1746
Di Vostra Eccellenza
Umilissimo et obligatissimo Servitore
Ambrogio Conti
156
[Giacomo Filippo Durazzo al marchese Lorenzo Imperiale]
[c 289r] Genova 17 dicembre 1746
Con la vostra de’ 29 novembre ricevo la procura, che avete in me fatta, ma per ora non credo, che occorra valermene, ne che abbiate dalla dilazione a soffrirne pregiudetto alcuno. Il nostro Popolo hà pazientato le durezze del Botta sino che hà saputo. Ad un tratto per certe bastonate date da Tedeschi, che con Cavalli tiravano un Mortaro incagliato in Portoria, la Plebe hà fatto un’atto d’impazienza, e con sassi posto in fuga i Condottieri, sebbene armati di Schioppo[602]. Il restante del Popolo preso dalla bile si avventò in gran copia verso San Tommaso, e dopo qualche contrasto si impadronì della Porta, come ancora delle altre sino alla Lanterna. Botta per fortuna si è salvato in Gavi, così Codech[603]. Circa a 3000 sono Prigionieri, divisi all’Albergo, in Darsena, et altrove ben guardati; Inoltre da 130 Uffiziali distribuiti in varie Case. La Plebe hà fatto grosso Bottino sì in Città senza risparmiare Conventi di Frati, ove erano sostanze Tedesche, come in Bisagno, e Sanpierdarena, saccheggiando senza riguardo le Case de Patrizj, cioè quelle de’ Luoghi aperti. L’affare è riuscito felicemente, ma temo della Fortezza di Savona, e senza una grazia speciale del Cielo frà due, ò tré giorni può cadere. [c 289v]
Molte altre cose sentirete da Lettere di Preti, e Frati; io hò accennato la sostanza. Se vostro Padre fosse vivo, le Galere averebbero fatto qualche cosa di buono rispetto a Savona, e fatto diversivo, guadagnando le alture dalla parte di Terra, ma egli è morto, e voi siete lontan per nostra disgrazia.
Si dice, che un grosso Presidio di Orbitello si ponga in moto, e che un grosso Corpo di Napolispani sia al Garigliano.
Si sono arrestati circa 18 Bastimenti con provisioni per li Tedeschi dirette in Provenza, ove si soffrirà fame, e diserzione. I nostri Cannoni sono ricuperati, sicche sarà un’imbroglio anche questo all’armata del Braun[604]. Ciò, che sia per succedere lo sà Dio, al quale dobbiamo raccomandarci.
In pochi giorni è morto il Signor Gian Carlo Brignole, et il Signor Paolo Gerolamo Pallavicino.
Il ceto dirigente della Repubblica di Genova alla vigilia della guerra di Successione austriaca[605]
- Si devono a Franco Venturi gli spunti più illuminanti e stimolanti sulla politica genovese negli anni attorno alla guerra di Successione austriaca. Una trentina d’anni fa il grande storico tracciò un quadro della Repubblica alla metà del Settecento che confluì poi largamente nel capitolo ‘genovese’ del primo volume di Settecento riformatore[606]. Da lì deve tuttora prendere le mosse occorre una ricerca che voglia rispondere alla domanda semplice ma fondamentale posta da Venturi: perché Genova, pacifica per vocazione e interesse come tutte le repubbliche mercantili coeve, e programmaticamente neutrale sin dalle sue origini cinquecentesche, prese la decisione, che si rivelò rovinosa, d’intervenire nella guerra di Successione austriaca[607]?
La Repubblica aveva già combattuto nel secolo precedente guerre difensive, contro il duca di Savoia nel 1625 e nel 1672, e contro Luigi XIV nel 1684, e guerre di repressione contro i ribelli corsi alla metà del Cinquecento: e di nuovo dovette fronteggiare la ribellione della Corsica dall’inizio degli anni ’30 del Settecento[608]. Ma le guerre di Corsica erano considerate affari interni dai magnifici, i quali guerre offensive non ne avevano mai intraprese. In ogni emergenza diplomatica il ceto di governo cittadino aveva ponderato cautamente, e rinviato quanto più possibile, le scelte. Aveva praticato insomma una politica estera dei piccoli passi, la sola compatibile, agli occhi degli oligarchi, con le modeste risorse militari dello Stato genovese, dimostratesi efficienti soprattutto nella difesa, e contro un nemico non molto temibile quale era stato il duca di Savoia nel Seicento.
In realtà, per quasi due secoli la Repubblica aveva contato sull’aiuto spagnolo, e sulla disponibilità dei mezzi finanziari necessari per procurarsi i rinforzi nel bisogno. Così uno Stato apparentemente inerme, come la Genova remissiva del Seicento, era uscito indenne dalle guerre combattute sul fronte terrestre. D’altra parte, il rafforzamento dell’esercito della Repubblica, quando pure era stato proposto, aveva suscitato generalmente diffidenze e opposizioni. Nel Seicento i critici ‘patrioti’ dell’oligarchia, riallacciandosi alla polemica navalista del secolo precedente, avevano visto l’avvenire di Genova sul mare e sostenuto, conseguentemente, un rafforzamento della flotta pubblica suscettibile di sviluppi espansionisti[609]. Tutto questo apparteneva però al passato. All’aprirsi del ‘700 la già scarna squadra delle galee era stata ridotta e aveva perso ogni funzione dissuasiva[610]. Nel Mediterraneo solcato dai vascelli delle grandi potenze lo stuolo della Repubblica non poteva più nutrire alcuna ambizione. Per contro, dalla guerra di Successione di Spagna il tradizionale nemico sabaudo era uscito con le forze accresciute e con il vecchio appetito intatto.
- Le ragioni immediate dell’entrata in guerra della Repubblica nel 1745 sono note[611]. Il trattato di Worms, stipulato nel settembre 1743, prevedeva l’esproprio del marchesato del Finale, acquistato da Genova nel 1713, a vantaggio del re di Sardegna, come parte del prezzo pagato da austriaci e inglesi per l’alleanza con Carlo Emanuele III. A sua volta, Genova stipulò, con il trattato di Aranjuez del maggio 1745, un’alleanza difensiva e offensiva con francesi e spagnoli. L’acquisto del Finale da parte della Repubblica, il “capolavoro della diplomazia genovese” a giudizio di Vitale, non era mai stato davvero accettato dai Savoia. E ora Carlo Emanuele III traeva dal desiderio degli anglo-austriaci (degli inglesi soprattutto, perché anche gli austriaci erano chiamati a concessioni territoriali) di averlo dalla loro parte lo spunto per acquistare quello che invano Vittorio Amedeo II aveva ambito. Proprio l’estremo ponente, non a caso, era stato negli anni precedenti lo scenario di una lunga controversia (una tra le tante, per la verità, che misero di fronte Genova e Piemonte) per i confini tra Rezzo e Mendatica: il cartografo genovese Matteo Vinzoni vi si recò in missione nel 1730-31 per definire i confini delle due comunità, soggetta a Genova la prima e ai Savoia la seconda, col collega piemontese Gallo e col mediatore francese Pierre de la Naverre. La controversia originava dal tentativo dei Savoia di rompere la soluzione di continuità tra il Piemonte e la sua enclave rivierasca di Oneglia, stabilendo nel contempo una via diretta per l’approvvigionamento del sale in Piemonte[612].
Negli anni ’30 e ’40 il problema del Finale finì con l’intrecciarsi, nell’agenda della diplomazia genovese, al problema corso con conseguenze inizialmente non previste dalla Repubblica. Dopo lo scoppio della ribellione corsa, sul finire del 1729 e gli inizi del 1730, l’evidente difficoltà incontrata nel domare gli insorti costrinse ben presto il governo genovese a cercare l’appoggio diplomatico e militare di una grande potenza: l’Austria nei primi anni ’30, la Francia dal 1738 in poi[613]. Il soddisfacimento di questa esigenza implicava la ridefinizione della politica estera della Repubblica, che doveva o rinunciare a scegliere nel gioco complesso e altalenante delle combinazioni diplomatiche caratteristico degli anni ‘20-’30 del Settecento, o individuare un saldo punto di riferimento nel sistema degli stati europei[614]. Entrambe le linee di condotta presentavano evidenti rischi per un piccola potenza neutrale ma situata in una posizione strategicamente importante. Per capire il dilemma della politica estera genovese negli anni ‘30 e all’inizio della guerra di Successione d’Austria bisogna perciò ripercorrerne brevemente i precedenti.
Per quasi due secoli la Repubblica era stata inserita in un circuito politico-finanziario coerente, quello spagnolo, che sommava ad un sistema di protezione militare un rapporto di simbiosi economica. Alla fine del ‘600, però, questo sistema non esisteva più. La Francia poteva anzi offrire occasioni di rilancio armatoriale, con la copertura del suo commercio durante la guerra della lega d’Augusta, e di investimenti finanziari[615].
Proprio agli anni ’90 del Seicento risalgono due fatti importanti: per la prima volta la Repubblica venne accusata dall’antico protettore e alleato spagnolo di coprire gli interessi francesi, di essere schierata di fatto con gli ex-nemici[616]; e per la prima volta ai confini dello stato genovese si fece sentire la presenza politica e militare dell’imperatore, che chiamava gravando chiamati a contribuire al mantenimento delle sue truppe i piccoli stati del centro-nord, e in particolare la Repubblica, sempre perseguitata dalla fama dei suoi forzieri privati e pubblici[617]. Di lì a poco, nel corso della guerra di Successione spagnola, si produsse un terzo fatto, egualmente importante, le cui premesse risalivano agli anni ’90: il sostegno dell’Inghilterra al duca di Savoia. Con la Successione spagnola venne bruscamente a termine mezzo secolo di buone relazioni e simpatia tra la Repubblica e l’Inghilterra, da lì in avanti sostenitrice degli interessi sabaudi con “fanatismo”, come ebbe a dire Gian Francesco Doria, storico della guerra del 1745: un sostegno che si spinse sino ad esprimere per bocca di Carteret, negli anni ’40 del secolo, la più sprezzante definizione della Repubblica: “un principe inutile”[618].
- Durante la guerra di Successione spagnola Genova aveva ospitato la famiglia del duca di Savoia profuga dai suoi stati, senza però ricavarne molta gratitudine[619]. Un gesto amichevole, che non coinvolgeva le scelte politiche della repubblica e che mirava ad accreditarne la neutralità, non compensava il sostegno, coperto ma non abbastanza da sfuggire agli avversari, prestato allo schieramento borbonico. Le grandi famiglie genovesi legate alla corona spagnola, gli Spinola de los Balbases, i Doria di Tursi, i Grillo, i Grimaldi scelsero Filippo di Borbone, non Carlo d’Asburgo. Dopo la guerra, nel 1715, la squadra di galee del duca di Tursi passò al servizio del re di Francia, mentre un intraprendente patrizio, Stefano De Mari, si propose al cardinale Alberoni come organzizatore di una squadra [620].
Genova aveva anche pagato, come nella guerra della Lega d’Augusta, e sempre cercando di strappare sconti, le contribuzioni chieste dal principe Eugenio e dai suoi successori nel governo di Milano ormai austriaca; ma aveva commerciato e lucrato sostenendo sottobanco i borbonici. E in quegli anni di difficile neutralità, con l’Inghilterra padrona di una serie di basi nel Mediterraneo occidentale, e l’esercito imperiale ai confini, la Repubblica riuscì a mettere a segno un colpo diplomatico da tempo accarezzato acquistando il marchesato del Finale da un imperatore come al solito a corto di contanti. Il successo della diplomazia genovese, il suo ‘capolavoro’ secondo Vitale, chiudeva una questione vecchia di un secolo e mezzo[621]. Ma realizzata a metà ‘600, nel momento della massima debolezza simultanea di Francia, Spagna, Impero e Savoia l’acquisto di Finale (o Pontremoli, o Massa) quella mossa avrebbe chiuso la partita, creato il fatto compiuto con gli stati confinanti[622]; realizzata nel corso di una guerra, come quella di Successione spagnola, conclusa con la sanzione dell’ascesa dei Savoia a potenza regionale, diventava materia di un delicato contenzioso. Restava un successo, ma avvelenato: mai veramente accettato dal vicino piemontese, il quale continuò ad esercitare una forte pressione sulla frontiera della repubblica acquistando il feudo di Seborga nel 1729, e incamerando i feudi imperiali delle Langhe nel 1735, e Loano l’anno seguente[623], col risultato di avvolgere i confini genovesi lungo tutto l’arco dell’Appennino ligure occidentale e centrale[624]. Per giunta, l’acquisto del Finale era stato male accolto dalle popolazioni interessate, sottratte alla lucrosa condizione di lontana e mal controllata appendice di una grande monarchia per diventare giurisdizione periferica di una repubblica nella quale erano prevalenti gli interessi metropolitani, e che aveva mirato a quell’acquisto proprio per eliminare le attività di contrabbando, di frode delle gabelle di San Giorgio, e di corsa dei finalini.
Negli anni seguenti la guerra di Successione spagnola la Repubblica conobbe perciò una serie di crisi diplomatiche: da quella con la Spagna per il caso della cattura del cardinale Alberoni a quella con l’Imperatore per i disordini provocati dai profughi catalani filoasburgici fermatisi a risiedere a Genova, al veto posto dalle grandi potenze ai progetti di acquisto del ducato di Massa dallo squattrinato Alderano Cybo nel 1723-1724[625]. Inoltre, nel mezzo di una difficile congiuntura economica, la Repubblica si trovò di fronte, nel 1729, all’erompere del malumore interno del Dominio (la prima rivolta settecentesca di Sanremo e un tumulto dei finalini[626] e, con significativa coincidenza, al riaprirsi dopo un secolo e mezzo della questione corsa.
In quanto l’oligarchia metropolitana cercava di difendere le posizioni commerciali e fiscali della capitale rispetto al Dominio, in tanto suscitava le reazioni dei popoli soggetti. Il rapporto tra metropoli e popolazioni soggette trovava un concreto terreno di verifica nei tentativi di ristrutturazione amministrativa. E non casualmente proprio nel 1730 il governo genovese sentì il bisogno di riproporre il manuale del Perfetto giusdicente elaborato a metà ‘600 da Tomaso Oderico[627]. Nel 1737, inoltre, i Consigli discussero lungamente un progetto di riorganizzazione amministrativa del Dominio che solo vent’anni dopo andò in porto[628].
- La questione corsa ha campeggiato largamente nella storiografia sul Settecento genovese. Eppure sarebbe azzardato sostenere che la condotta della Repubblica di fronte alla ribellione sia nota in tutte le sue sfaccettature e oscillazioni. A qualche oligarca genovese la rivolta parve, già dall’inizio dell’avventura di Teodoro di Neuhoff, irreprimibile[629]. Nel maggio 1736, avendo la Giunta ad medios[630] chiesto i “ricordi” dei consiglieri sul progetto di finanziare la guerra di Corsica imponendo una nuova tassa, un anonimo magnifico esordì: “sarebbe bene non potendosi più sustenere la Corsica abbandonarla, e quel poco denaro vi resta spenderlo per il ritiro”[631]. La diffidenza per i corsi si mescolava all’acuta considerazione che combattere una guerriglia, come era quella degli isolani insorti, con truppe regolari, per giunta insufficienti, significava gettar via denaro: “ivi giovano”, osservava un patrizio, “solo quelli sanno combattere nelle maccie; e lo provano quelli vi sono stati: mentre hanno provato mortali sciupettate; né altro hanno veduto, che un poco di fumo dalla maccia, e soldati da combattere non ne hanno veduto, e nascosti subito quelli hanno sbarato”[632].
Visto che la causa era persa, meglio affidare la controguerriglia “ai pochi soldati che sono in Terraferma di natione corsa”, cercando di giocare sulle divisioni tra i corsi e di costituire fra loro un ‘partito’ genovese[633]. Nella discussione del 23 agosto seguente, la proposta di imporre una nuova tassa dell’1% sulle fortune superiori a 6000 lire (dunque una nuova capitazione anche sulla nobiltà) e un sussidio che gravasse sulla popolazione in generale sollevò larghe riserve. Pier Maria Giustiniani fece osservare che il gettito di una capitazione non poteva superare le 600/700.000 lire, mentre la Corsica ne costava circa 1.800.000 all’anno: “quando non vi siano denari da poter rimmettere la Corsica, converrà pensare a dar quei passi che si è sempre avuto per massima di non dare per il passato”. Giustiniani proponeva di ricorrere, anziché ad un palliativo come la capitazione, ad uno sforzo più massiccio ed utile, come il prendere a cambio 2 o 3 milioni tutti assieme. Carlo Spinola, oltre a suggerire l’allargamento della base imponibile a tutte le fortune superiori alle 1000 lire, spostava l’attenzione dalla Corsica allo stato di Terraferma: “questo doveva premere sopra ogni altra cosa”. Anche Giacomo Lomellini osservò che “dovesse fissarsi sin dove si voglia arrivare per gli affari di Corsica”. Di fronte all’eventualità di una tassazione troppo estesa, che colpisse la popolazione, Gian Carlo Brignole (un personaggio che ritroveremo) disse che “chi non ha lire 6000 di capitazione è povero, et i poveri non è tempo di vessarli”; al che Paolo Geronimo Pallavicini ribatté che “i miserabili non devono essere sottoposti, che li rimanenti, come bottegari e tant’altri puonno contribuire qualche cosa al publico”. Matteo Franzone aveva già respinto, come difficilmente praticabile, il suggerimento del Giustiniani di stanziare 2-3 milioni: “tassa e sussidi erano un mezzo più pronto”. Botta e risposta sul tema dell’opportunità di far gravare sul popolo nuovi pesi fiscali erano già state scambiate un mese avanti, il 17 e 18 luglio, alla prima consulta del Consiglietto sulla proposta di tassa. A Gian Carlo Brignole, che aveva giudicato “troppo estesa e generale l’imposizione del sussidio, vedendosi in essa compresa la povera gente benché si dicano esclusi li miserabili”, ed aveva ricordato che “li poveri pur troppo pagano i carichi nella compra a minuto del vino, pane et altri comestibili”, Gian Francesco Brignole Sale e Carlo Spinola avevano ribattuto che “li sudditi della Repubblica sono i più felici”. Secondo Spinola, inoltre, “il stabilire la massima che i poveri o sia meno facoltosi non soggiacino a carrichi è un esempio pernicioso”[634].
Il 23 agosto l’intervento più lungo, articolato e foriero di sviluppi fu però quello di Ippolito De Mari. Si trattò di una delle prime e più chiare espressioni dell’intenzione di una parte del ceto di governo genovese di allineare saldamente la Repubblica alla Francia facendo perno sulla questione corsa, ma in vista di un confronto con il re di Sardegna. Come a Carlo Spinola, a De Mari stava a cuore la Terraferma. Più nettamente di Spinola, De Mari illuminava l’alternativa potenziale che si prospettava alla politica estera della Repubblica: l’impegno in Corsica o quello sui confini con il re di Sardegna. De Mari rifiutava di “sacrificare le sostanze de’ magnifici cittadini inutilmente in Corsica dopo il devastamento di tanti pubblici introiti col rischio di perdere per un tale impegno lo stato tutto di Terraferma esposto ad essere in pochi giorni occupato da vicini”[635]. Giacché la Repubblica, “abbandonata da prencipi d’Europa più potenti e dalla più parte riguardata con dispetto e disprezzo”, scontava un pericoloso isolamento internazionale, e non aveva la forza di vincere da sola la ribellione, per salvare l’isola (perché, beninteso, De Mari non riteneva che l’attenzione per la Terraferma dovesse comportare l’abbandono dell’isola) occorreva un aiuto esterno, che non poteva venire se non dal re di Francia, “arbitro dell’Europa” dopo la conclusione della guerra di Successione polacca, e “destinato in tutti i tempi […] al soccorso dei principi oppressi”[636]. Che un uomo che, assieme ai consorti e alleati, tanto contava nella cosa pubblica genovese coltivasse questa opinione sul re di Francia mostra bene quanto fosse cambiato a poco più di una generazione dalle bombe del 1684 l’atteggiamento dei magnifici.
In effetti, nel 1738 (lo stesso anno in cui la discussione sulle emergenze fiscali del 1736 si tradusse in una nuova capitazione), la Francia, come si è detto, diede il cambio all’Imperatore nell’aiutare Genova contro i ribelli corsi[637]. Scelte emblematiche: entro il ceto di governo genovese la polarita partito spagnolo/partito francese aveva lasciato il posta a quella partito borbonico/partito asburgico. Il primo poteva far valere l’importanza degli antichi legami finanziari e mercantili con l’area iberica (certamente ridimensionati, ma non del tutto trascurabili, come testimoniava la vitalità della colonia genovese di Cadice[638]) e di quelli più recenti con la Francia; il secondo l’esistenza di una forte corrente di interessi con la corte imperiale e con Milano ora austriaca: interessi finanziari, ma anche politici, legati questi ultimi proprio alla spinosa questione del Finale e dei feudi imperiali[639]. In definitiva, però, i genovesi avevano interessi un po’ dappertutto. Nell’ottobre 1744 l’agente piemontese Lorenzo Bernardino Clerico inoltrò alla corte sabauda il memoriale di un informatore genovese, che nell’esaminare i pro e i contro all’impegno della Repubblica con le corti borboniche segnalava nel contempo: “molti de’ patrizj anno de riguardevoli interessi nelli stati austriaci”, e “i grandi e rilevanti interessi che la nazione genovese tiene nelle due monarchie, principalmente in quella di Spagna”. Da qui lo “scisma interiore” che l’informatore riscontrava nelle agitate sedute del Minor Consiglio dedicate a discutere l’opportunità o meno per la Repubblica di scendere in campo aa fianco di uno degli schieramenti belligeranti[640]. Dal canto loro, i residenti francesi a Genova non si stancavano di lamentare le inclinazioni filoasburgiche, aperte o latenti, dei magnifici. Le istruzioni all’inviato straordinario del Cristianissimo, Chaillon de Jonville, nel 1739 ricordavano che
“plusieurs des nobles sont nés et nourris dans l’aversion à l’égard de la nation françoise, les uns par la prévention sans fondement que le Roy voudroit envahir leur Etat; quelques-uns ayant herité du penchant naturel et aveugle de leurs pères pour la maison d’Autriche; d’autres ayant succé avec le lait la mémoire et le ressentiment du dommage que le bombardement de Genes a cause autrefois à leurs familles. Ce dernier motif est aussy celuy de l’antipathie assez générale du peuple pour les François”[641].
Nei primi mesi del 1741 Jonville, la cui missione inizialmente doveva riguardare soprattutto la Corsica, giudicava i governanti genovesi “très zélés” per casa d’Austria. In quegli stessi mesi, infatti, il granduca di Toscana Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa, ottenne da banchieri genovesi un prestito, mentre non lo ottenne Carlo VII, ovvero l’elettore di Baviera. “Questi repubblicani”, affermava sempre Jonville nel marzo 1741, “saranno più portati a favorire la corte di Vienna e anche quella di Londra che qualsiasi altra”[642]. Nella sua relazione al re del 1737 l’ambasciatore francese a Genova Campredon, predecessore di Jonville e come lui antipatizzante dei magnifici, aveva segnalato addirittura l’esistenza di un gruppo di pressione filopiemontese, costituito da quanto erano divenuti feudatari dei Savoia in seguito all’ingrandimento dei possedimenti di questi nel Monferrato e nelle Langhe[643].
Nelle piazze e nelle conversazioni si confrontavano, ancora una volta, i “geniali verso le respettive potenze”. Nel maggio 1742, in un battibecco a Banchi, il patrizio Agostino Peirano (un patrizio di scarsi mezzi) derideva gli spagnoli presenti “con dirle che è la natione spagnola incapace alla guerra; al che li spagnoli hanno risposto che ben sanno che li genovesi hanno l’aquila in petto”[644]. Fino addentro la guerra esistette tra i magnifici una corrente d’opinione, impersonata nelle discussioni del Consiglietto da Gian Domenico Spinola, diffidente verso la Francia, e rivolta piuttosto a cercare il sostegno della Spagna[645]. Vale la pena, a questo proposito, di segnalare come il tema delle relazioni politiche tra Genova e la Spagna nella prima metà del Settecento sia stato curiosamente negletto. Eppure, il lungo regno di Filippo V fu caratterizzato dal tentativo, in buona misura riuscito, di riaffermare la presenza spagnola in Italia; senza contare che gli affari di Corsica vennero seguiti con attenzione da Madrid: il che non poteva lasciare indifferente la Repubblica[646]. A dare un’immagine eloquente della fluidità e della contraddittorietà delle posizioni, si noti che lo stesso Spinola nel 1743 si pronunciò per l’abbandono della Corsica, ciò che non poteva implicare se non un subentro della Francia ad intervenire contro i corsi ribelli sotto la bandiera di re Teodoro. A meno che egli non pensasse al passaggio dell’isola a Filippo V[647].
- La Genova di quegli anni inquieti non cessava di sconcertare i viaggiatori stranieri, spesso e volentieri ostili, ma anche disinformati o indotti in equivoco sulla costituzione politica della Repubblica. Ad Addison, all’aprirsi del secolo, era sembrato che San Giorgio assicurasse al popolo una qualche forma di partecipazione al governo, perché i più doviziosi esponenti dell’ordine non ascritto avrebbero avuto parte nella gestione della Casa. Il giudizio, ripreso da Montesquieu, che visitò Genova e la riviera di ponente dal 9 al 20 novembre 1728, si insinuò nell’Esprit des Lois, provocando un’immediata richiesta di rettifica da parte del governo genovese: e si capisce: pubblicato nelle edizioni del 1748 e del 1749, a ridosso dell’insurrezione del ’46, quel giudizio poteva accreditare e diffondere un’immagine di debolezza del governo[648].
Dal 28 giugno al 2 luglio 1739 fu invece in visita a Genova il presidente Charles de Brosses, tanto favorevolmente impressionato dalle bellezze artistiche e naturali, quanto sfavorevolmente dalle persone. A de Brosses si devono però alcune acute osservazioni sul sistema politico genovese: sul Seminario (“le elezioni dei magistrati vengono fatte tutte a sorte”: esagerazione, perché il sistema vigeva soltanto per le estrazioni dei Collegi), e sulle divisioni all’interno della nobiltà. A questo proposito de Brosses scriveva: “trovai, ad un canto di strada, una gran folla di nobili, seduti su delle poltronacce, riuniti in solenne assemblea. Sono i nobili del primo rango; quelli del secondo non osano neppure avvicinarsi a loro, che si ritengono infinitamente superiori. Ma è l’unico vantaggio che hanno; per il resto, infatti, le cariche vengono conferite senza far distinzioni, e il titolo di doge spetta alternativamente alle due classi”. De Brosses rilevava dunque il persistere di pratiche di socialità separate tra nobili vecchi (il primo rango) e nobili nuovi (il secondo rango); ed era informato della bipartizione tacita del dogato tra le due antiche fazioni nobiliari[649].
Negli osservatori stranieri, negli stessi genovesi che scrivevano per lettori estranei, negli storici dell’epoca che cercarono di descrivere le ragioni interne dell’entrata di Genova in guerra riaffiorava insomma il tema antico delle divisioni nella nobiltà. Innocenzio Montini contrappose “le case vecchie della repubblica e i senatori più vecchi e di esperienza più consumata” a “quei delle case nuove e giovinotti o di spirito altiero e vivace e bollente, detti anche giovani repubblichisti”. Il letterato e avventuriero francese Ange Goudar (un antipatizzante dei genovesi) giudicava neutralisti gli “anciens nobles”, intendendo le antiche case dei Doria, Grimaldi, Spinola[650]. Per il piemontese Gaspare Galleani d’Agliano neutralisti erano “i vecchi senatori”. La Storia dell’anno 1746 contrapponeva “le case antiche” e le “case nuovamente aggregate alla nobiltà, che, essendo in numero di 437, quando si tratta di risolvere con la pluralità dei voti, debbono sempre vincerla sopra le case antiche, che non sono più di 28”. Una commedia stampata a Francoforte e Lipsia nel 1746 metteva di fronte un nobile filoaustriaco e un nobile di data recente filoborbonico[651]. Avevano finito insomma col confondersi la antica classificazione per “portici” (famiglie vecchie/ famiglie nuove), e quella per generazioni (vecchi/giovani), che si era affacciata un secolo innanzi, negli anni ’30-’40 del Seicento, quando si era trattato di discutere gli orientamenti di politica internazionale e gli indirizzi commerciale e produttivo della repubblica. Anche allora “giovani” era stato sinonimo di innovatori, di interventisti, di bellicisti potenziali. Ed anche allora la spinta dei “giovani” si era alimentata dell’orientamento repubblichista, cioè indipendentista, teso ad una politica di difesa degli interessi statali anziché a quella degli interessi privati identificati con la lobby filoasburgica dei feudatari e degli assentisti di galee[652]. Ma il passare del tempo e il mutare delle situazioni aveva prodotto curiose inversioni nel vocabolario. Nel 1744 il residente piemontese Clerico vedeva i patrizi genovesi divisi in “repubblichisti” e “vassalli”, intendendo però con questo termine i detentori di feudi negli stati del re di Sardegna; mentre nel secolo precedente i feudatari erano stati considerati i filoasburgici per antonomasia[653]. Sia lecito nutrire qualche dubbio sulla attendibilità di questa contrapposizione. Gli osservatori coevi non erano del resto sempre bene informati. La Storia dell’anno 1746 citava cifre desunte dalla pubblicistica politica genovese dei secoli precedenti, per esempio dalla Relazione di Genova del 1597 o dai libelli seicenteschi dell’Ansaldi, non certo dall’osservazione della realtà genovese. Equivoco era infatti il riferimento alle 28 famiglie vecchie (un fraintendimento delle 28 case titolari di albergo nel 1528?); errata per eccesso la stima di 437 case nuove, risultato della somma indistinta di case estinte e case viventi[654]. Anche l’identificazione dei bellicisti o filoborbonici con le “case nuove” va presa con beneficio d’inventario, dal momento che la famiglia più impegnata nel promuovere l’alleanza borbonligure, come ha segnalato Venturi, fu quella dei De Mari, casa antica e vecchia quant’altre mai. E’ vero che Campredon aveva classificato i De Mari come alleati delle principali cse nuove (i Durazzo, i Balbi, i Brignole Sale). Ma, a parte il fatto che non si ha prova che queste famiglie fossero schierate in blocco da una parte sola, gli esponenti del partito della guerra citati da Venturi (Paolo Gerolamo Pallavicini, Giacomo Lomellini, Agostino Grimaldi, Gian Francesco Brignole Sale) appartenevano a tre casate vecchie e a una casata nuova (i Brignole Sale) che da oltre un secolo era sul proscenio della politica genovese: nuova, dunque, secondo la terminologia faziosa genovese, non certo perché di prestigio o fortuna recenti[655]. A sua volta, Vitale citava come punti di riferimento dell’ala neutralista Gian Carlo Brignole, e dell’ala interventista Matteo Franzone, entrambi di famiglie nuove[656]. Per avere un quadro realistico delle forze in campo occorrerà perciò avvicinare l’obiettivo al gruppo di governo.
- Lungi dall’essere oltre 400, le famiglie del patriziato genovese nel corso del primo quarantennio del secolo furono poco più di 150. 155 cognomi che ebbero almeno un ascritto tra l’1 gennaio 1700 e il 31 dicembre 1740[657]. Questo significa che il patriziato comprendeva anche altre famiglie, che però in quel quarantennio non contarono nuovi ascritti al Liber; in compenso, i 155 cognomi citati includono le 18 famiglie ascritte al patriziato proprio durante quell’arco di tempo, che furono presenti, di conseguenza, nel Liber solo per frazioni più o meno lunghe del quarantennio. Per impreciso che sia, il campione delle 155 famiglie dà un totale di 1194 individui ascritti al patriziato sull’arco dei quarantuno anni in questione. Il movimento di ricambio della nobiltà genovese si era notevolmente ridotto: fatto 100 l’indice degli ascritti annui, ordinari e straordinari, nel periodo 1576-1600, nel decennio 1696-1705 esso era sceso a 63,4, e nei decenni seguenti scivolò via via a 48,4; 44,7; 30,4; sino a 28,8 nel decennio 1736-1745: quello precedente per l’appunto l’entrata in guerra della Repubblica, che segnava pertanto il punto più basso (per allora) del turnover patrizio[658].
(Questo implica, per inciso, che il ceto dirigente che si divise sull’entrata in guerra era un gruppo sociale invecchiato come non mai. I sessantenni che si confrontavano in Consiglietto e nella Giunte erano personaggi che avevano iniziato il cursus honorum negli anni dell’acquisto del Finale e del dispiegamento di ambizioni di rilancio mercantile e di espansione territoriale che avevano caratterizzato gli anni ‘10 e i primi anni ’20: senza voler azzardare esercizi di psicologia storica, si può forse ricondurre a quelle esperienze formative della loro cultura politica la disposizione a combattere, nel 1745, per difendere un’acquisto a suo tempo salutato come un grande successo politico e la premessa di ulteriori successi a venire.)
Per tornare alla fisionomia del patriziato nei primi annni ‘40, si aggiunga che il calcolo delle famiglie e delle persone sulla base del Liber porta a conteggiare anche chi era genovese solo di nome: tra i 155 cognomi citati figurano infatti i Botta Adorno, lombardi a tutti gli effetti, e i Vernazza, napoletani; per non dire dei rami espatriati delle casate più numerose. Quando, dopo la capitazione del 1738, venne redatto un elenco dei patrizi “esenti … per non esser abitanti né aver domicilio nella presente città o Dominio, né ritrovarsi fuori stato per accidente” si contarono 54 nuclei fiscali. Il principe Giustiniani, i De Marini marchesi di Genzano, Gian Tommaso raggio, il marchese Costaguta, la famiglia Lombardi costituivano la colonia genovese a Roma; Domenico Federici era palermitano; a Napoli risultavano residenti alcuni Cattaneo, Paolo Mattia Doria, un buon numero di Imperiale, Carlo De Mari, i Valdettaro, i Saluzzo di Corigliano e di Lequile, i Ravaschiero di Satriano, un Serra; mentre in Spagna, oltre agli Spinola de los Balbases, ai Grillo, ai Centurione di Estepa (grandi di Spagna da generazioni), si trovavano i Pichenotti, i Panesi, i Recagno[659].
Non va dimenticato, inoltre, che le famiglie avevano consistenze assai diverse: i 10 cognomi con più di 20 ascritti nel periodo in esame sommavano un terzo abbondante (il 35,2% per l’esattezza) degli individui; all’opposto, 21 cognomi rappresentati da un solo ascritto, il 13,5% del campione, totalizzavano l’1,7% degli individui. Si manifestavano già le conseguenze del diverso dinamismo demografico delle casate patrizie. Se gli Spinola restavano il cognome più numeroso, al secondo posto non c’erano più i Doria, come era stato consueto nel Cinque-Seicento, ma i Giustiniani; al quarto posto emergevano i De Franchi, precedendo Centurione e Lomellini; e poi si affacciavano a sorpresa i Curlo, che sopravanzavano (sia pur di poco) Grimaldi, Cattaneo, Pallavicino e De Mari; e, a considerare l’insieme delle famiglie, Botto, Mainero, Oldoini, Recagno, Galliani, Segni pareggiavano o sopravanzavano i Sauli e i Serra, i Lercari e i Gentile, e lasciavano a netta distanza i Salvago e i De Marini, i Raggio e i Pinelli. Nella seconda metà del Settecento i rapporti di forza numerici tra queste famiglie variarono ancora: altre casate manifestarono un dinamismo demografico più accentuato, mentre alcune di quelle citate rallentarono il proprio. Ma non cambiò il quadro d’assieme: nell’ambito del patriziato cittadino era sempre più evidente il peso numerico delle famiglie a lungo minori; per contro i cognomi più celebri declinavano paurosamente. Nel dicembre 1744 Gian Carlo Brignole osservava preoccupato che “molte case principali de’ nobili non anno prole, e che molti altri, in ragione delle grandiose spese che si fanno, si astengono dal fare matrimonij”[660]. Il barbogio Brignole individuava nel contempo un fenomeno, ben reale, e una causa, tutta da verificare. La sua reazione, probabilmente non isolata, aiuta in ogni caso a comprendere il senso di allarme nel Consiglietto e le ragioni della fin troppo nota inchiesta di Giovanni Francesco Doria del 1747, che si dimostrava preoccupata soprattutto dall’esaurimento delle principali casate[661]. Del Maggior Consiglio fece parte, negli anni ‘30, un numero di patrizi oscillante tra un massimo di 680 (nel 1733) e un minimo di 628 (nel 1737); ma nel 1743 l’assemblea si ridusse a 589 membri, e tranne due eccezioni rimase per un trentennio tra i 500 e i 600 componenti, in atttesa di un’ulteriore contrazione[662]. In questo quadro di declino demografico non vanno sottovalutati gli apporti di casate neoascritte come i Crosa, i Cambiaso e i Marana, non disprezzabili sul piano numerico, e influenti abbastanza da essere presto proiettate tutte ai vertici del governo, e i Cambiaso persino al dogato, nella seconda metà del secolo[663].
La crisi demografica rendeva d’altra parte più evidente la disaffezione dei grandi nomi per gli incarichi pubblici: un fenomeno in realtà antico e lamentato dagli osservatori genovesi un po’ per tutto il ‘600, ma dissimulato dalla maggiore ampiezza della base nobiliare. Caratteristico del ‘700 fu piuttosto il sommarsi del frequente rifiuto delle cariche anche più prestigiose da parte dei grandi, e della caccia all’incarico da parte dei nobili di secondo piano[664]
- I dati fiscali disponibili sulla nobiltà genovese degli anni ’30-’40 comprendono la capitazione nobiliare del 1731 (la più completa, o la meno incompleta, se si vuole, tra quante se ne conoscano: oltre 800 nuclei fiscali per un momento di bassa demografica), quella del 1738, analizzata oltre mezzo secolo fa da Di Tucci, e quella del 1744[665]. Gli elenchi del 1731, con la quota di 233 incapaces di tributo danno le dimensioni del problema della nobiltà povera, problema non soltanto settecentesco, ma balzato all’evidenza soprattutto in quel secolo, e solitamente collegato alla questione della Corsica. Gli elenchi del 1738 forniscono a loro volta un quadro ufficiale dei rapporti tra le fortune dei singoli. Tra i dodici imposti milionari (con imponibili da un milione a 3,625 milioni), cinque vecchi e sette nuovi: in testa a tutti Domenico Grillo, al quale fra le antiche casate tengono compagnia il marchese Imperiale e tre Spinola[666]. Un quadro aggregato per casati degli imponibili superiori alle 20.000 lire mette in risalto la solidità di famiglie come i Durazzo, che con 12 imposti sommavano metà dell’imponibile di 67 Spinola, i De Mari e gli Imperiale, e l’opulenza di famiglie più piccole come i Grillo e i Carrega; risultano invece distanziate le fortune di case neoascritte come i Cambiaso e i Crosa[667]. I dati del 1744 riguardano un numero minore di imposti (584, di qualcuno dei quali manca l’indicazione dell’imponibile; e oltre a questi altri 40 contribuenti aggiunti nella primavera 1746) e rettificano generalmente in meno gli imponibili, senza però alterare sostanzialmente i rapporti[668].
E’ possibile connettere in qualche modo la gerarchia dichiarata delle fortune agli orientamenti politici e finanziari? Limitandoci all’elenco del 1738, Grillo e l’Imperiale gravitavano verso il mondo spagnolo; ma come classificare gli Spinola, nel Seicento spagnardi e filoasburgici? Tra i nuovi tre Durazzo, a conferma della strapotenza finanziaria di questa famiglia, un Brignole, un Carrega, e a rappresentare il nucleo antico delle casate nuove un Giustiniani e un Sauli. Dell’orientamento filoborbonico e interventista di Gian Francesco Brignole già sappiamo; quanto ai Durazzo, erano stati nella seconda metà del Seicento la punta di diamante del partito detto francese. Parrebbe, insomma, che i plutocrati contassero un buon contingente di filoborbonici. Tra i sottoscrittori dei prestiti contratti da Carlo VI, però, figurano ancora due Durazzo e il solito Gian Francesco Brignole Sale: milionari che evidentemente avevano investimenti un po’ ovunque; con loro, anche l’interventista anti-imperiale Matteo Franzone era della partita. Ma spiccano maggiormente la presenza di quattro Serra e tre Cattaneo nel prestito di Boemia, di quattro De Franchi tra i sottoscrittori del Banco della Camera della Città di Vienna. E spiccano, all’opposto, il disinteresse per questi investimenti dei De Mari e dei Grillo, vecchi “spagnardi” per eccellenza, la scarsa presenza dei Doria e dei Centurione.
Una più larga conoscenza della geografia degli investimenti nobiliari chiarirebbe certamente il senso di alcune scelta individuali, senza per altro esaurire il campo delle spiegazioni. Se è vero che a governare la Repubblica era un’oligarchia all’interno della quale predominavano gli uomini di finanza, è anche vero che gli interessi di questi solo raramente si identificavano con una sola area geografica e con un solo tipo di impiego. Per dir meglio: conoscere la composizione dei portafogli patrizi sarebbe senz’altro utile e importante. Ma a parte la possibilità di scoprire che molti investitori patrizi collocavano puntate su poste diverse, non era detto che gli investimenti fossero condizionati in eguale misura dalle contingenze politiche, e che a loro volta condizionassero strettamente la condotta politica dei patrizi. L’eventualità di rappresaglie sugli investimenti variava probabilmente da una monarchia all’altra (e sarebbe interessante sapere chi fosse miglior debitore, tra il re di Francia, l’Imperatore, il re di Spagna). Inoltre, nella preferenza per l’alleanza asburgica piuttosto che per quella francese o spagnola si potrebbe ravvisare anche la spia di un diverso modo di intendere il ruolo di Genova nel concerto politico italiano ed europeo. Per qualcuno il Finale non valeva comunque una guerra: la Repubblica sarebbe potuta sopravvivere alla sua perdita; allo stesso modo, lo si è visto, qualche voce si alzò sin dagli anni ’30 per suggerire l’abbandono della Corsica e il dispiegamento di una maggiore attenzione per la terraferma. Per altri la sottomissione alle clausole di Worms significava il ripiegamento alla dimensione cittadina di due secoli innanzi, la rinuncia a quel poco o tanto di stato messo in piedi nel frattempo. Nelle argomentazioni dei neutralisti traspariva l’accettazione, più o meno consapevole, per Genova di un ruolo non dissimile da quello di Ginevra coeva: la sopravvivenza come puro centro finanziario, senza preoccupazioni territoriali[669]. Gli interventisti scommettevano, ovviamente, sulla rapida fine della guerra. L’unico vero nemico restava pur sempre il Piemonte; tra i magnifici era invece prevalente il desiderio di non rompere i ponti con l’Impero: come è noto, la guerra venne dichiarata al re di Sardegna, ma non alla regina d’Ungheria e aspirante imperatrice Maria Teresa in omaggio al collaudato gioco di equilibrio tra forze in campo che contavano entrambe dei simpatizzanti e dei finanziatori tra i magnifici, e che addirittura arruolavano esponenti di famiglie genovesi nel proprio personale di governo: si pensi ai De Mari e ai Grimaldi ministri spagnoli, e ai Pallavicino e ai Cristiani servitori di casa d’Austria. Beltrame Cristiani venne addirittura ascritto alla nobiltà genovese alla fine di gennaio del 1745, mentre erano in corso le trattative per schierare la repubblica sul fronte opposto[670].
- Chi erano gli uomini che reggevano la Repubblica nel momento cruciale della stipulazione del trattato di Aranjuez[671]?
Nella primavera 1745 questi erano i componenti i Collegi: senatori, in ordine di anzianità nella carica, Massimiliano Sauli, Paolo Gerolamo Pallavicini, Gerolamo De Ferrari, Giovanni Scaglia, Gian Andrea Spinola, Gian Stefano Monsa, Carlo Morando, Agostino Di Negro, Giulio Gavotti, Giambattista Imperiale, Gian Benedetto De Franchi, Ottavio Grimaldi; procuratori, nello stesso ordine, Giacomo Maria Pallavicini, Giambattista Grimaldi q. Pier Francesco, Giacomo De Franchi q. Francesco, Stefano Veneroso, Domenico Della Torre, Gian Antonio Spinola, Ambrogio Negrone, Pier Maria Canevari; procuratori perpetui gli ex dogi Benedetto Viale, Luca Grimaldi, Francesco Maria Balbi, Nicolò Cattaneo, Domenico Canevari. Doge, dal 27 febbraio 1744, Lorenzo De Mari: capace, a quanto sembra, di gettare il peso della carica dalla parte dell’intervento, coerentemente ad un orientamento che accomunava tutta la sua casata[672]. Va aggiunto che, com’era consuetudine, all’indomani della notizia del trattato di Worms la trattazione della politica estera era stata demandata a una giunta apposita, che includeva membri dei Collegi e del Minor Consiglio[673]. Dei senatori, la metà avevano tra 45 e 50 anni (Sauli, De Ferrari, Spinola, Morando, Imperiale, Grimaldi), mentre uno solo (De Franchi) era ultrasettantenne. Più anziani, nella media, i procuratori, che con Giacomo Maria Pallavicino contavano un quasi ottantenne. A considerare il solo Senato, si comprende come i bellicisti passassero per i “giovani” della situazione. Buona parte dei componenti i Collegi erano, in realt\`, almeno al secondo incarico; Scaglia era senatore per la quarta volta, Di Negro, Gavotto e Pallavicino per la terza; ma indubbiamente il governo che portò Genova in guerra comprendeva un certo numero di reclute: Sauli, De Ferrari, Spinola, Morando, Imperiale, De Franchi e Grimaldi (la maggioranza assoluta del senato), che erano tra l’altro i più giovani del consesso, venivano estratti per la prima volta. La vigilia della guerra vide perciò un parziale ma significativo ricambio generazionale. Inoltre, alcuni personaggi si autoesclusero dal governo: anche se le rinunce ad esercitare la carica di senatore o procuratore erano, come si è detto, abbastanza frequenti, colpisce la circostanza che nei primi mesi del 1745 declinassero l’incarico tre Serra (Francesco Maria, Marcello Maria, Gian Pietro), Federico De Franchi, Gian Agostino Grimaldi: tutti compresi negli elenchi dei sottoscrittori di prestiti imperiali. Certo, assieme a loro si dimisero Ippolito De Mari, interventista per la pelle, un Durazzo e Paride Fossa. Ma non sembra inverosimile che gli oligarchi più compromessi con le fortune imperiali si astenessero, per convenienza o per coerenza, dal governo.
- La guerra era affare dei magnifici. L’ordine non ascritto e, soprattutto, il popolo minuto non sembra ne fossero entusiasti. Jonville segnalava la riluttanza del secondo ordine a pagare per la conservazione della stessa Corsica[674]. I preparativi bellici mettevano come sempre a nudo le insufficienze militari della repubblica e la necessità di trovare denari. E la via regia per sovvenzionare le casse dello stato era quella dell’imposizione fiscale indiretta, cioè del trasferimento di gran parte dello sforzo finanziario sulle spalle del popolo. Negli anni ’20, e poi in conseguenza della crisi corsa, erano state approvate nuove ascrizioni alla nobiltà: un modo collaudato, nonostante il dettato della legge sulle ascrizioni, di far entrare contante nelle casse pubbliche. Nell’ascrizione del gennaio 1722, ad esempio, Luca Marcello Ferrero di Alassio si propiziò l’ingresso nel patriziato mediante il versamento di 30371.15.5 lire fatto dal nonno. Gli Inquisitori di Stato ricevettero dai Collegi l’incarico di controllare con particolare attenzione “i novellarij o sia foglietti di notizie della presente città per evitare che “in essi si faccia menzione alcuna d’offerta, o de’ denari o di altro motivo per causa dell’ascrizione”[675]. Nel 1727 Gian Lorenzo Pareto accompagnò le richieste di ascrizione per sé e i due figli con la consegna al doge di un biglietto di cartulario di 100.000 lire. I magnifici del Consiglietto, nel gennaio di quell’anno, bocciarono due volte la proposta dei Collegi di ascrivere, che passò soltanto dopo due altre confuse votazioni, nelle quali il numero dei voti risultò maggiore di quello dei votanti. Gian Agostino Centurione espresse apertamente l’opinione del governo, giudicando “proficua la proposizione, tanto più che si presenta che si possano essere più soggetti che desiderino farsi ascrivere con qualche vantaggio camerale, il che sarebbe opportuno in queste congiunture, senza cercar di far tasse o imporre altri aggravij”[676].
Non vanno però sottovalutate le resistenze alle nuove ascrizioni. Nel gennaio 1732, dopo che erano stati approvati sette dei dieci candidati all’ascrizione della città, venendosi al voto sui candidati di riviera, Gian Domenico Spinola “poneva in riflesso di havere in vista l’utilità ch’è venuta alla republica dalle precedenti ascrizioni di riviera, e perciò apprendeva che non vi sia luogo di andare in fretta”[677]. Tuttavia, come risultato delle pressioni, o della disponibilità, del governo, i Crosa e i Pareto furono ascritti nel 1727, i Cambiaso nel 1731, i Buonarroti nel 1732, i Marana nel 1733: e nelle successive capitazioni sul patriziato queste case risultarono tutte quotate per imponibili di riguardo[678].
Ma la vera risorsa del governo stava pur sempre nel ritoccare le gabelle e nell’intaccare, soprattutto nei loro effetti fiscali, le antiche convenzioni dei popoli soggetti: applicata alle riviere questa politica aveva suscitato le rimostranze dei ponentini alla fine degli anni ’20 e innescato l’annosa questione di Sanremo[679], applicata alle genti delle valli vicine a Genova suscitò le rimostranze dei polceveraschi nel 1743-44, ponendo le premesse per la vera e propria astensione degli abitanti della vallata dall’insurrezione antiaustriaca del dicembre 1746[680]. D’altra parte, ad approfondire i dissensi tra neutralisti e interventisti c’era appunto il problema del carico fiscale che la nobiltà si sarebbe dovuto assumere, dopo essersi già tassata a due riprese negli anni ’30. Di una nuova capitazione dell’1% sulle fortune nobiliari, sommata ad un sussidio da far pagare a tutta la popolazione della città e giurisdizione, deliberata infine nell’aprile 1744, la Giunta ad medios cominciò a discutere almeno dalla fine del 1742. Nel dicembre di quell’anno in Consiglietto si contrapposero Carlo Spinola (“la capitazione non può essere di quel profitto che si suppone”) e l’inevitabile Matteo Franzone (“vi è bisogno urgentissimo di danaro”). La capitazione sulle fortune sembrava alternativa ad una tassa sugli affitti degli immobili, che secondo Carlo Spinola era suscettibile di portare un maggior gettito nelle casse della Repubblica. La capitazione, in definitiva, andava a vantaggio proprio dei patrizi più ricchi, che come grandi proprietari immobiliari, sarebbero stati più pesantemente colpiti da una tassa sugli affitti[681]. Al tempo stesso, però, Carlo Spinola protestava contro l’ipotesi di esentare dalla tassa le riviere: “per qual ragione gli abitanti delle riviere e del Dominio, si domandava, non debbano contribuire al sollievo della Repubblica?”[682]
I semplici preparativi di guerra esaurirono la Cassa militare, cioè il fondo permanente destinato alle spese belliche: tanto più che la rivolta corsa aveva già logorato le riserve logistiche della Repubblica. Secondo la relazione dei deputati camerali del 18 novembre 1744, dall’aprile precedente erano state spese 685.234.8.7 lire fuori banco e occorrevano per le sole paghe dei soldati di dicembre e gennaio altre 185.000 lire[683]. Opponendosi duramente alle richieste dei deputati, Agostino Spinola q. Felice accusò in sostanza i governanti (i deputati alla scrittura erano membri del collegio dei Procuratori) di truccare i conti, di stornare le cifre stanziate per altre destinazioni, di confondere i conti della Cassa militare, cioè un capitolo di spesa ordinario, con quelli del contributo straordinario per la guerra. “Crede”, concludeva, “che l’idea sia di prendere tutto il denaro che vi è nel peculio per poter poi dire ‘non vi è più denaro’, e facilitare le rimanenti proposizioni delle capitazioni”. L’argomento sollevato da Spinola era di quelli fatti per raccogliere consensi nei Consigli; ma è difficile dire dove passasse il confine tra desiderio di una sana gestione finanziaria e di rispetto dei consiglieri e gretto egoismo di casta. Toccò a Matteo Franzone ribattere con molte ragioni contrarie e rovesciare l’accusa: “l’idea di chi si è opposto alle anteriori proposizioni era di non accumular danari per non entrare in impegni con altri Principi … ma la presente idea proposta avanti ci porta a non volersi tampoco diffendere”[684]. I neutralisti, insinuava insomma Franzone, volevano lo Stato povero per impedire l’entrata in guerra. In un certo senso, veniva ritorto sui filoborbonici l’espediente usato dai filofrancesi prima dello scontro con Luigi XIV nel 1684[685].
Le stesse reali esigenze di cassa venivano apertamente messe in dubbio. Dopo aver scelto, al termine di lunghe discussioni, la via della capitazione, nell’autunno 1744 il governo propose di accelerare i tempi di riscossione facendo anticipare ai tassati le loro quote di imposta in tre rate mensili, secondo gli elenchi del 1738. Il 30 ottobre Agostino Spinola, uno tra i più eloquenti e polemici oppositori di questo e degli altri provvedimenti governativi volti a sostenere le finanze pubbliche, affermò che restava ancora da spendere una parte delle somme raccolte con la precedente tassa, e protestò decisamente contro quella che sembrava una espropriazione dei poteri del Consiglietto (“il Padrone … che ha dato la facoltà a lor Signorie Serenissime”). La protesta antifiscale si faceva forte, per l’occasione, del richiamo alla natura del governo repubblicano e ai diritti dell’assemblea patrizia: “una volta dato il denaro più non sarà tan poco chiamato il Minor Consiglio, e sarà all’oscuro d’ogni cosa, il che non sarebbe governo della Repubblica”[686]. Senza gli accenti polemici dello Spinola, anche Gian Carlo Brignole riprese l’argomento del denaro non ancora speso per sostenere moderazione nelle esazioni. A queste obiezioni rispose distesamente, nella seduta del 4 dicembre 1744, Gian Francesco Brignole Sale. Non bisognava “aspettare l’urgenza del bisogno”; occorreva “prevedere le necessit\` e non lasciar venire il tempo di dover pensare ad altro, che a cercar i mezzi di aver denaro”. Le “giattanze” di cattiva o oscura amministrazione del denaro pubblico avanzate nel Minor Consiglio non avevano valore alcuno: a vigilare sulle irregolarità provvedevano i Supremi Sindicatori, che sino ad allora nulla avevano obiettato; e quanto alla sotterranea pretesa del Consiglietto di rivedere i conti della Camera, Brignole Sale aveva buon gioco a ritorcere che “bisognerebbe che si unisse più frequentemente”. Nessuno, del resto, era “tassato a rigore”, nonostante le proteste che si erano levate. Mettendo mano ad uno strumento retorico collaudato, Brignole Sale contrapponeva la generosit\` dimostrata “dall’antichi genovesi verso la Repubblica” (testimoniata dalle statue erette ai benefattori) alla “renitenza che si scorge ne’ loro eredi di presente”. “Chi ha molto”, concludeva, “deve dar molto per conservar il poco, e chi ha poco deve dar il poco per non perder il tutto”. Non contento, Agostino Spinola ribatté che “quando si parla di pensare alle disgrazie che ponno venire si dice minuzie, e quando si parla di deliberar denaro non si dicono più minuzie ma cose gravi, e però esser indispensabile grosse somme di contante”[687].
Era una buona anticipazione del comportamento dell’oligarchia nei mesi cruciali della sconfitta militare e dell’occupazione, di quella “fatale disgrazia” che Matteo Franzone vedeva “sovrastare la Repubblica” se non fosse entrata in guerra. Ma va ricordato che un anno innanzi lo stesso Agostino Spinola era stato favorevole a stanziamenti per rafforzare le difese; e che per contro Matteo Franzone aveva sostenuto a lungo l’opportunità di “stare bene” con Vienna e mantenere buone relazioni con l’Inghilterra. I bellicisti stessi, d’altronde, erano divisi e incerti nelle loro inclinazioni: Gian Domenico Spinola sosteneva nel contempo una politica rigida con la Francia sulla questione del dazio sui vini, e la collaborazione con la Spagna. Ed anche i Collegi erano incerti sul da farsi. La risolutezza dei magnifici, destata dai timori suscitati dalla notizia degli accordi di Worms, si era alquanto attenuata una volta che il pericolo rappresentato dagli austro-sardi era sembrato ridimensionato dalle sconfitte da questi subite: tanto che i magnifici avevano cercato disperatamente di far marcia indietro e rimangiarsi le imprudenti promesse di intervento a fianco dei gallispani[688]. Il 3 febbraio 1745 una maggioranza di 14 a 5 respinse la proposta di firmare subito il trattato di alleanza con i gallispani; una maggioranza di 13 a 6 votò lo stesso giorno per dare istruzioni all’ambasciatore a Madrid dirette ad assicurare quella Corte che “la Repubblica firmerà il trattato subito che veda verificato il progetto di campagna stato communicato circa le forze delle due corone in Italia”: prima di scendere in campo, Genova chiedeva che i gallispani “fissassero il piede in Italia con la presa di qualche piazza”[689]. Ancora nella primavera del 1745, del resto, permanevano dubbi e dissensi. In città c’era “scarsezza di moneta minuta”; e la gabella della carne era stata aumentata, con evidente scontento della popolazione. Anche un bellicista come Gian Domenico Spinola si mostrava preoccupato. Le diserzioni, tra le truppe arruolate dalla Repubblica, specie quelle corse, erano numerose; e lo stesso Spinola vedeva come solo rimedio l’esecuzione di molti disertori. Gian Carlo Brignole, sconfitto sul punto di principio dell’entrata in guerra, si batteva perché la Repubblica mantenesse aperto un canale con l’Inghilterra, ed evitasse atti di ostilità contro la squadra inglese dell’ammiraglio Mathews. Anche dopo che il trattato di Aranjuez fu stipulato, Brignole insisté perché non solo la spedizione del corpo di truppe genovesi fuori dei confini, ma la stessa dichiarazione ufficiale di alleanza con le corone borboniche, fosse rinviata sino all’arrivo nella pianura padana dei gallispani, e perché le truppe fossero concentrate intanto alla difesa di Genova. Ma, così facendo, proponeva in sostanza di non cooperare allo sforzo bellico delle truppe spagnole del de Gages, che chiedevano invece rifornimenti di artiglieria subito. Il coinvolgimento genovese nella guerra, insomma, iniziò con la Repubblica pur sempre a rimorchio dei più potenti alleati[690].
- A dividere, anche aspramente, i magnifici non era però soltanto la preferenza per diverse alleanze internazionali. Il motivo di dissenso più sottile riguardava la preferenza per diversi modelli di Repubblica. Negli interventisti, come Ippolito De Mari, traspariva il desiderio di uno stato più forte: l’emergenza internazionale e la prova della guerra venivano viste come occasioni per riaffermare l’autorità del governo sui popoli soggetti. Il 12 agosto 1744 Ippolito De Mari propose in Consiglietto che forzato ai finalini “per farli entrare in se medesimi, e per frenare all’occasione la loro animosità contro del proprio sovrano”. Nella stessa circostanza Matteo Franzone invitò alla severità contro i capi dei polceveraschi ammutinati, e chiese di utilizzare le truppe “a publico vantaggio con farne passare un corpo di esse a San Remo per freno di quel paese, che continua ad essere male affetto alla repubblica”; ed aggiungeva: “se si perde questa congiontura nella quale il re di Sardegna, e tutti gl’altri prencipi anno altro che pensare, non sa quando mai sarà per presentarsene un’altra più favorevole della presente”. Giambattista De Mari asserì a sua volta che “devono pur anche i Principi esiggere da loro sudditi il dovuto rispetto, e che questi non sarà mai per conseguirsi se non ne concepiscono all’occasione un giusto timore”. De Mari si spinse a proporre che, a questo scopo, venisse formalizzata una procedura giudiziaria separata per i nobili (“come per essempio, che per condannare un nobile alla forma di detta legge vi si richiedessero tutti i voti del Tribunale a cui ne competesse la facoltà”); e, quanto al problema corso, suggerì spicciativamente di far assassinare Teodoro di Neuhoff: “quando il levarlo da mezzo dovesse costarle scudi 20.000 non doverebbero risparmiarsi”[691]. Preoccupante, del resto, sembrava anche la situazione dell’ordine pubblico cittadino. Nelle sedute del Minor Consiglio del 1743 più d’un intervento segnalò la pericolosa novità del “formarsi squadriglie di … giovinastri per tirar sassate le une contro le altre, il che prima non si faceva in città”: l’insorgere, insomma, come denunciò Matteo Franzone, di uno “spirito di rivolta”[692]. Le sassate del dicembre 1746, insomma, si comprenderebbero meglio se si ricostruisse il contesto della politica popolare degli anni ‘30-’40[693].
Nelle proposizioni del più esplicito dei neutralisti, Gian Carlo Brignole, confluivano invece una vena devota e barbogia; la diffidenza per i gallispani, in omaggio all’antico principio del non fare alleanze; il rispetto per le ragioni dei sanremaschi difensori delle loro convenzioni, in linea con la preferenza per l’amore dei popoli piuttosto che per il timore, “non sufficiente a sostenere il Principato”; al contrario di Giambattista De Mari, Brignole riteneva che “la legge stata ricordata farsi con disparità non sarebbe giusta, mentre per esser tale deve avere uguaglianza, così rispetto a’ nobili come riguardo a quelli che non lo sono”[694].
Brignole dava insomma voce a un’idea antica e tradizionalista dello stato genovese, che mescolava paternalismo, devozione e pacifismo, considerava scontata la debolezza delle strutture statali, e nella circostanza si opponeva alla guerra e si rivelava sensibile alle espressioni di scontento dei governati, metropolitani e del Dominio. Al contrario più d’una voce, quella di Matteo Franzone come quelle di Ippolito e Giambattista De Mari o di Gian Domenico Spinola sosteneva che si doveva “temere più la pace che la guerra”[695]. Gli interventisti, fiduciosi nell’aiuto gallispano, timorosi dell’insubordinazione della plebe cittadina e delle vicine podesterie e delle turbolenze del dominio, animati da una visione forte dello stato genovese, che portava a ribadire il peso del governo metropolitano, e a tenere in poco conto le lamentele dei sudditi, prevalsero.
Gli sviluppi, non calcolati, del loro successo nel dibattito all’interno del ceto dirigente si videro nell’autunno-inverno del 1746.
- La storia del triennio di guerra 1745-1748 esige uno studio a sé. Per la prima e ultima volta nelle sua storia bisecolare la Repubblica affrontò una guerra offensiva. Per la prima volta dopo oltre due secoli Genova fu minacciata di espugnazione e di sacco. Le devastazioni della guerra lasciarono pesanti tracce nelle zone attraversate dall’esercito invasore. Inoltre, le finanze della Repubblica vennero quasi dissestate: il loro risanamento richiese provvedimenti straordinari e l’istituzione di una giunta apposita[696]. Per la prima volta dal Cinquecento il patriziato dovette accettare l’esistenza di un governo parallelo che coinvolgeva gli esponenti del ceto mercantile e professionale, e fronteggiò inusitate iniziative plebee. Il fatto che i magnifici riuscissero a controllare la situazione non deve indurre a sminuire l’interesse storico di quel momento: come spesso nelle vicende degli antichi regimi, le occasioni di rivolta e insubordinazione sociale sono manifestazioni rivelatrici delle forze in campo nella società, e per questo terreni di indagine privilegiati. E’ un pecccato che le pur pregevoli indagini sul 1746 condotte dagli storici della prima metà del nostro secolo abbiano finito col discutere soprattutto del ruolo svolto dal patriziato nella rivolta, assumendo in polemica con la tradizione risorgimentale, la difesa d’ufficio dei patrizi. Il ‘46 genovese ha ancora molto da dire.
Appendice
La Repubblica alla vigilia dell’entrata in guerra secondo un informatore genovese del re di Sardegna
Come si è detto, Franco Venturi segnalò nel primo volume di Settecento riformatore l’interesse della corripsondenza del residente piemontese a Genova, Lorenzo Bernardino Clerico, con il suo governo, e ne utilizzò alcuni dispacci. Tra i documenti più interessanti è senz’altro quello che qui si presenta, vale a dire un memoriale riassuntivo delle discussioni e delle deliberazioni della Repubblica tra la stipulazione del trattato di Worms, nel settembre 1743, e l’autunno del 1744. L’inviato piemontese Clerico sentì il bisogno di sottolineare l’affidabilità della sua fonte, della quale confessiamo di non aver cercato per il momento di precisare l’identità. Possiamo supporre che si trattassea, vista anche l’entità abbastanza modesta del compenso,di un funzionario minore addetto a una cancelleria, forse quella degli Inquisitori di Stato. In ogni caso, più che l’identità della spia interessa il taglio del giudizio portato sulle incertezze del processo decisionale genovese.
Si trascrive la lettera di accompagnamento di Lorenze Bernardino Clerico al goverro piamontese, seguita dal memoriale dell’anonimo informatore. Il docuemnto si trova in Archivio di Stato di Torino, Lettere Ministri, Genova, 16.
Nella trascrizione si sono aciolte: le abbreviazioni, si è normalizzata la maiuscolazione uniformandola all’uso atttuale, si è rispetatta la punteggiatura salvo modifiche dove l’uso dell’epoca rendeva inintelligibile il testo.
Eccellentissimo signore signor padrone colendissimo
Mi do l’onore d’umiliare a vostra eccellenza copia di un scritto esibitomi da personaggio, che altre volte ha diggià comunicate notizie. Esso è relativo a tutto quello, che può verisimilmente avere operato questo governo nelle presenti circonstanze per i suoi fini. Da varie digressioni, che vi sono l’eccellenza vostra potrà congetturare della sussistenza dell’esposto, e se convenga al serviggio di sua maestà ricercarne, e attivarne la continuazione, massime per le notizie di Spagna, delle quali si compromette la regolarità,e sicurezza. Per l’esibita dello scritto // suddetto le ho dato di recognizione una mezza doppia. Per le successive, ove convenghino, non si è voluto spiegare, solocché si sarebbe rimesso al giudicio, e discretezza di chi doveva essaminarne la sostanza.
Questi è un personaggio molto accorto, che si suppone stipendiato dalli Inquisitori di Stato, da cui le sono state in diversi tempi appoggiate varie commissioni, per le quali è stato in pericolo di perdervi la vita, particolarmente in una nella passata guerra del 1734 per Firenze, dove fu colto da spagnuoli con tutte le cifre, e dal quale impegno per mezzo del marchese signor Agostino Grimaldi allora inviato di questa Repubblica presso il Gran Duca, perché amico intimo del signor conte Santo Steffano, fu liberato. Ho creduto dover fare all’eccellenza vostra succintamente il ritratto di detto personaggio, per porle in vista, e osservazione l’utilità sua, e perché si possa dalla // sostanza delle notizie, se siano artificiose, e con intelligenza o no delli sudetti Inquisitori di Stato, cognoscere, tuttocché m’assicuri della sua probità e fedeltà.
Indi facendomi ad aggiongere alcune poche notizie, la prima si è quella di un decreto fatto da serenissimi Colleggi, che per tutto il dì 20 del corrente debbano li soggetti del Consiglietto, che sono al vileggio, essersi restituiti in città, avendo loro prescritta, e fissata una pecuniaria di tre scuti d’oro per ciascheduna volta a quelli, che senz’impedimento legitimo mancheranno ad ognuna delle officiature.
E’ stato commandato per parte del governo a tutti li parrochi della città, e distretti di dare una nota distinta del numero de respettivi parrocchiani, e loro età, affine di poter obligare dalli anni 17 sino alli 70 li capaci alle armi. //
Dalle disposizioni, che si danno sembra, che questo governo sia in aspettativa di qualche corpo di truppe, poiché oltre gl’oratorj, si sono anche visitati li conventi de regolari per valersi de siti, e de chiostri più commodi, e più riparati per alloggio di truppe, se forsi non sono quelle che s’attendono dalla Corsica.
E’ giunto frattanto in questo porto un sciabecco spagnolo carico di soldati, correndo la voce che altri se n’attendino, per unirsi alli corpi di questa Repubblica.
La fondita de cannoni, deliberata dal governo sudetto, è oramai terminata, mentre venti di essi nella scorsa settimana erano alla Foce, dove se ne fa il gettito, fuori delle forme.
E qui rinovando la mia divozione a vostra eccellenza gl’atti dell’ossequiosa incomparabile rassegnazione, con rispetto sempre costante, e sempre profondo mi confermo
di vostra eccellenza
umilissimo, e divotissimo servitore
Genova li 15 ottobre 1744 Lorenzo Bernardino Clerico
Memoria inviata dal signor Clerico li 15 ottobre 1744 continente notizie secrete
Fino dall’anno prossimo passato appena fu conchiuso, e sottoscritto il trattato di Vorms sotto li 13 settembre, il marchese Gio. Francesco Pallavicino inviato della Repubblica a Francfort ne mandò copia per corriere espresso al governo.
Letto il capitolo di esso trattato che riguarda il marchesato del Finale, e li feudi imperiali che gode al presente la Repubblica e fatte sopra di tale divisamento diverse consulte fu deliberato formare una nuova gionta (chiamata la Gionta di Vorms) e fu nominato per capo, e presidente della medesima l’eccellentissimo Paolo Gerolamo Pallavicino, e per colleghi l’eccellentissimo Giacomo Lomellino, il signor Agostino Grimaldi, il signor Gianfrancesco Brignole, et altri.
Per questa nuova giunta fu conferita da serenissimi Colleggj, indi dal Minore Consiglio la facoltà di consultare, deliberare, e proporre a detti Colleggi, e Consiglio tutti li spedienti che avesse giudicati opportuni, e necessarj per la pubblica indennità, e per la conservazione del marchesato, e feudi sudetti.
La prima deliberazione fu di porre in avvertenza tutti li inviati residenti presso le corti di Vienna, Pariggi, e Madrid, e quello di Francfort, cioè l’inviato Giuseppe Spinola, presso della regina d’Ungheria, Francesco Maria Doria presso del Cristianissimo,e l’abbate Grimaldi presso del re Cattolico,e Gio. Francesco Pallavicino dell’Imperatore, in oltre li due agenti, Curlo a quella di Torino, e Gastaldi a quella di Londra, e fu respettivamente imposto a ciascheduno di invigilare sopra questo articolo portato dal trattato sudetto, e di scrivere ciascheduno in cifra sopra di tale affare.
Specialmente fu ordinato all’inviato Spinola a Vienna di fare instanza al conte di Ullefelt, et alla regina austriaca per la circonscrizzione dell’articolo che riguarda sudetti feudi, e le fu trasmesso prima il sommario, indi difusamente la serie delle ragioni che competono alla Repubblica, e li giusti titoli del possesso sopra li sudetti marchesato, e feudi, e si ebbe in risposta che la regina non darà alcuna assistenza a sua maestà di Sardegna, all’intento di fare aquisto del sudetto marchesato, e feudi, ma che conveniva fare queste instanze, e raccorso al re d’Inghilterra il quale l’aveva costretta a consentire, ed accordare il mentovato trattato, cui essa per altro non inclinava, per il notabile sbembramento [sic], che in vigore di esso doveva farsi // di tanti feudi, e provincie dallo stato di Milano.
A tale risposta fece il governo più vive le sue instanze alla corte di Londra et alle camere de Communi, per la riforma dell’articolo di sudetto trattato che riguarda il Finale, e feudi mentovati. Fu letto nel Parlamento di Londra il trattato, e riuscì alla Repubblica di farlo disapprovare, e ritrattare.
Contro di questo disapprovamento, oppose i suoi fervorosi ufficj il cavalliere Osorio ministro di sua maestà di Sardegna, e le riuscì di fare che fosse nuovamente letto, et essaminato il trattato di Vorms, ed anco che venisse approvato in tutti li suoi articoli, inclusive a quello del Finale, e feudi, che gode la Repubblica.
Rinforzò allora la Repubblica le sue premure alle corti di Parigi, e Madrid per mezzo de suoi respettivi inviati, ed implorò patrocinio, ed assistenza dalli due monarchi di Francia, e Spagna.
Furono da ambe le corti ascoltate, e compiaciute le instanze, e fu risposto che la Repubblica si armasse, ed aumentasse le sue truppe, perché le sarebbe data ogni opportuna assistenza. Successivamente poi si maneggiò tra essa e le due corone un trattato come di alleanza, e fu sottoscritto.
Il sostanziale del trattato si ristringe che la Repubblica provveda un’armata di 10.000 soldati di truppe regolate, e 5.000 milizie del paese da impiegarsi secondo porteranno le circostanze nelle azzioni che verranno accordate.
In oltre dando la Repubblica li detti 15.000 uomini, e concorrendo con essi alle conquiste da farsi in Italia, sarà essa a parte di esse conquiste per ingrandimento del suo dominio.
In questo stato di cose prese il governo a cambio un millione di scuti d’argento per la spesa dell’aumento delle truppe sino al numero di 15.000 convenuto.
E’ nota la chiamata delle milizie della riviera orientale, e la spedizione delle medesime nella occidentale, le nuove patenti per far nuove leve in Corsica, e terraferma: tutto è noto.
In proseguimento poi delle cose si è ampliato il trattato di quest’aleanza tra le due corone, e la Repubblica, e si è convenuto che il principato d’Oneglia, il feudo di Loano, quelli delle Langhe stati ceduti nella passata guerra d’Italia al re di Sardegna, e la provincia di Tortona saranno ceduti alla // Repubblica, e stabilita nel loro pacifico possesso ratificato, e confermato dal trattato, che si farà della pace universale.
Si è fatto intanto la conquista di Nizza, e Villafranca, e dopo la espugnazione di questa piazza voleva l’armata gallispana proseguire per la riviera, ed avvanzarsi per penetrare in Piemonte dalla parte di Novi, ma perché nel trattato di questa alleanza tra le due corone, e la Repubblica vi era l’espressa condizione, che la Repubblica non dovesse aggire offensivamente contro del re di Sardegna, sennon quando le truppe delli re Cristianissimo, e Cattolico averanno piede fermo nel Piemonte, fu spedito il marchese Gianfrancesco Brignole a Ventimiglia, e di colà passò a Monaco a conferire col principe di Conti, per ottenere, che la Repubblica si conservasse in disimulazione e nell’apparenza di neutralità sino all’adempimento della sudetta condizione: cioè sino a tanto che le armi delle due corone avessero piede fermo nel Piemonte, e passando l’armata gallospana per la riviera, e per lo stato della Repubblica si sarebbe veduta costretta ad una immatura, ed intempestiva dichiarazione, così è riuscito al marchese Brignole di fare in sorte, che le truppe spagnuole già avvanzate alli confini retrocedessero, ed elleggessero la strada del Delfinato, e della Savoja per entrare nel Piemonte, come è seguito.
In questo intermedio la Repubblica ha fatto compilare una legazione in forma di manifesto sotto il titolo di “Lettera di cavaliere genovese ad uno de membri del Parlamento di Londra sopra il trattato di Vorms”, e se ne è mandato copia a Londra, e Vienna, qual lettera ha incontrato più compatimento, che approvazione.
Doppo di avere li gallospani superato il colle dell’Agnello, ed espugnato il castello di Demont, la corte di Francia ha insinuato alla Repubblica, che disponga uno accampamento delli 15.000 uomini accordati, nella pianura di Novi per fare da quella parte una diversione al re di Sardegna, e diminuire la resistenza delle truppe piemontesi alle ulteriori conquiste delle reggie truppe gallospane.
Consultata quest’insinuazione, ed invito già stava la Repubblica per // esseguirlo; epperò diede nuove patenti per nuove leve, tanto per Corsica quanto per terraferma per avere li 10.000 uomini di truppe regolate; già ha eletto il commandante per mandarlo alla testa di questo accampamento (questo è un ufficiale, che sta all’attuale serviggio de Stati Generali d’Ollanda, cui si è dato titolo di sargente generale di battaglia, e già sono tre settimane, che si sono trasmessi duemilla pezzi per il suo viaggio) ma li vocali del Minor Consiglio attuali vassalli del re di Sardegna, siccome si opposero sino dal principio, che si ebbe notizia del trattato di Vorms alla risoluzione di mettersi in armi, così ora con più franchezza procurano divvertire il partito contrario, che qui si chiama de republichisti, dal proseguimento dell’impegno preso colle due corone, adducendo per ragione fundamentale, che ritrovandosi al presente il re di Sardegna più in necessità di difendere il proprio stato, che alla portata di fare delle conquiste, doveva bene misurarsi la risoluzione già presa, anzi rivocarsi per le molte sinistre conseguenze, che potrebbe produrre in pubblico svantaggio.
Questa considerazione, et altre molte, che sono l’attuale soggetto della maggiore occupazione del governo, e che si diranno in apresso anno persuaso l’animo de Colleggi, della Gionta sovra mentovata, e di quantità di vocali, onde si è deliberato di cercarne l’uscita dall’impegno preso colle due corone.
In coerenza di questa deliberazione si è scritto all’inviato Pallavicino a Francfort, che di colà si porti a Metz, sotto il titolo di complimentare il re Cristianissimo per la ricuperata salute, ma colla precisa incombenza (cui si è giudicato essere insuficiente l’inviato Doria) di adoperarsi in modo con sua maestà Cristianissima, di ottenere, che la Repubblica si ritiri, e sottragga dall’accordato di quest’alleanza, poiché al presente era cessato il pericolo di qualche spedizione di truppe, che averebbe potuto fare il re di Sardegna per tentare la conquista del Finale.
E’ partito l’inviato Pallavicino da Francfort, ed è passato a Metz; ha colà inchinato, e felicitato il re Cristianissimo per il suo ristabilimento // in salute a nome della Repubblica. Ha indi intrapresi gl’ufficj d’insinuazione con il ministro de Chavigny affine di averlo presente nella instanza, che si disponeva a fare a quella maestà, di voler dispensare la Repubblica dall’impegno di unire le proprie forze a quelle della maestà sua secondo l’accordato. Prese sopra di sé Monsieur de Chavigny di fare presente a re una tala istanza, ma la risposta è stata, che per conto veruno voleva il Cristianissimo accordare una tale istanza, ma che la Repubblica proseguisse nell’intrapreso impegno, e si disponesse ad avere pronti li 15.000 uomini promessi.
Una così risoluta sinistra risposta ha non poco afflitto l’animo del governo, e molto più perché l’inviato Pallavicino aggiunge, che il regio consiglio se n’era scandalizzato, dicendo, che la Repubblica era volubile, et inconstante nelle sue deliberazioni (in sua lettera aggiunge ancora il Pallavicino, che veniva assicurato che il re Cristianissimo non ha voluto ricevere due pieghi stati spediti a Metz con due successivi corrieri straordinarj dal re di Sardegna).
La medesima incombenza d’impetrare l’uscita dall’intrapreso impegno è stata appoggiata all’abbate Gerolamo Grimaldi a Madrid, cui è stato spedito corriere espresso, e la spedizione si è fatta sotto apparenza, e nome di questo padre Celle gesuita procuratore del re di Portogallo con voce, che lo spediva il deto padre a Lisbona, come tal volta succede. Il corriere si è fermato a Madrid in casa del sudetto abbate, tanto che ricavasse da sua maestà Cattolica le risposte intorno alle intenzioni del governo di sottrarsi dell’impegno più volte nominato.
Sono state le risposte, che sua maestà Cattolica non ha in questa guerra domandato alla Repubblica, che il solo passaggio delle sue truppe per questo dominio; che essa è quella, che implorò il reale patrocinio, ed assistenza delle reggie forze per garanzia de proprj stati; quella, che ha desiderato, che l’ingresso della sua armata in Piemonte si facesse dalla parte della Savoja; che in tutto era stata compiaciuta; che era fuori di ordine la instanza dopo le misure già prese, e passate ad effetto; epperò non poteva condiscendere tanto più che l’impegno della Repubblica comprendeva ancora la corte di Francia, alla quale conveniva di adrezzare li raccorsi, e le instanze, perché incontrassero la desiderata compiacenza.
Aggiunge poi l’abbate Grimaldi, che don Zenone di Gavarro, primo segretario di stato, le aveva detto, che sua maestà la regina, che era constantemente contraria a questo desiderio della Repubblica, che li motivi del suo regio risentimento contro del re di Sardegna erano troppo giusti, e forti da non deporli per qualunque cagione di sinistro, o di sacrificio, che convenga da fare, o in contrario.
E perché l’abbate sudetto ha qualche confidenza con don Zenone, scrive, che si è avvanzato ad interrogarlo intorno alli motivi del reggio risentimento, e le aveva risposto, che già ben sapeva la corte la massima inviolabile della casa di Savoja di non ammettere in Italia albero di alta statura, che colle loro frondi possano fare l’ombra, o maggiore, o eguale alli cedri del Libano piemontese. Che per essecuzione di questa massima il re di Sardegna nella passata guerra d’Italia, tuttocché collegato con sua maestà Cattolica, ricusò di provedere al duca di Montemar le artiglierie per l’espugnazione della Mirandola, perché doppo lòa conquista delle due Sicilie non si dilatassero le reggie forze con altri progressi nella Lombardia.
Che l’avere mancato all’osservazione del trattato fatto sottoscrivere dal commendatore Solari ministro del re di Sardegna in Parigi, sotto il pretesto della ratifica, e molto più l’abuso fatto di esso trattato, sottoscritto, quando fu trasmesso nel suo originale al re Brittannico statole presentato dala cavaliere Osorio, ed in un esemplare all’arciduchessa in Vienna per vantaggiare di partito, e conchiudere seco loro altro trattato di aleanza, ed averne dal primo le lire 50.000 sterline annue ed alla principessa cognata le provincie e feudi del Milanese, portava le maestà Cattoliche alla risoluzione, ed impegno // d’impiegare le reggie forze contro d’un maneggio così sregolato, ed inconveniente.
In oltre, che se il re di Sardegna la passata guerra ebbe motivi di dolersi della corte di Francia, perché contro gl’articoli della triplice alleanza trattò, e conchiuse la pace con l’Imperatore senza intervento, e partecipazione, li medesimi motivi correvano a sua maestà Cattolica.
Che se il medemo re di Sardegna vidde rigettato il suo manifesto, appoggiato al diploma dell’imperatore Carlo Quinto, per la successione allo stato di Milano, questo dovea produrlo alla corte di Vienna, che n’era all’attuale possesso.
Conchiude in fine la lettera dell’abbate Grimaldi citata per digressione, ma forse non fuori di caso, che l’idea delle due corti di Madrid, e Francia era di fare più che mai vigorosa la guerra contro del re di Sardegna, di occupare li di lui stati, ed il Milanese, poco potendosi compromettere di rinforzo dall’armata austriaca di Romagna, che ha di fronte quella de re comandata dal conte di Gages, e quella del re di Napoli, e meno della Germania per le conquiste, che si disponeva a fare nella Boemia le armi prussiane, e per ultimo, che per qualunque futuro trattato di pace non verranno le due corti suddette ad accordare al re di Sardegna la restituzione della Savoja, volendo quella di Francia avere facile l’ingresso nell’Italia. Riflette qua il Grimaldi, che nel discorso di don Zenone ha scoperta non poca essagerazione, familiare alla nazione spagnuola, e forse dell’imprudenza.
Questo governo in vista del rifiuto delle due corti di Francia, e Spagna, che non inclinano a dispensarlo dall’impegno, da cui pur vorrebbe sottrarsi, ha trasmesso questo affare alla sopra menzionata Gionta di Vorms.
La Giuntta doppo diverse sessioni non ha fatto alcuna definitiva deliberazione, solamente ha giudicato di fare presenti alli Colleggi le seguenti considerazioni. //
Che veramente può giudicarsi cessato, o diferito almeno il pericolo della pretensione del Finale, che ha dato origine alli movimenti militari, ed al raccorso che si è fatto per avere l’assistenza delle armi delle due corone, onde quando potesse ottenersi con la medesima facilità l’uscita da quest’impegno, e senza loro indignazione sarebbe spediente opportuno il tentarlo per le seguenti ragioni.
Perché l’aumento delle truppe, e li movimenti militari anno causato un scisma interiore nella Repubblica, specialmente per li patrizj vassalli del re di Sardegna, che anno feudi nel Monferrato, e nel Piemonte.
Perché il mantenimento di 15.000 uomini riesce gravoso alla Repubblica, i di cui redditi sono notabilmente mancati per le note cagioni, e l’errario camerale affatto esausto di denaro per le precedute eccessive spese fatte per risoggettare la Corsica, né esservi modo di fare nuove imposizioni per compenso del millione di scuti argento, preso l’anno passato a cambio, e per li 155.000 che si sono presi lo scorso mese, non essendo stata approvata la capitazione, né la tassa sopra li redditi e fondi, né quella sopra li artieri più volte proposta, e sempre mancante delli suffraggj necessarj per la deliberazione.
Perché se mai venisse ad esseguirsi l’accampamento divisato nelle pianure di Novi, sarebbero frequenti, e numerose le diserzioni de soldati, quando fossero in campagna, potendosi argomentare dalle molte seguite nella riviera, e più in questa città, non ostante la difficoltà di dover scalare le mura, e fare molte miglia di strada, perché li fuggitivi si mettessero in sicuro.
A queste considerazioni prese ab intrinseco, e suggerite dall’interiore stato della Repubblica doversi aggiungere, che //
non ostanti le disposizioni dell’armata gallospana di fare delli progressi nel Piemonte, che uscendo il governo dalla sua neutralità le due riviere restano esposte alle scorrerie, ed insulti delle flotte navali d’Inghilterra, e che molti de patrizj anno de riguardevoli interessi nelli stati austriaci.
Che la navigazione verrebbe continuamente infastidita dalle squadre inglesi, le quali oltre le rappresaglie, che farebbero delle bandiere suddite, impedirebbero ancora il recesso, et accesso a qualunque bastimento volesse uscire, ed entrare in questo porto, e mettere la capitale in una specie di bloco maritimo.
Per ultimo, che restarebbe incerto l’ingrandimento promesso dalle due corone quando la Repubblica venisse ad unire le proprie colle loro forze, non essendo quelle della Repubblica sufficienti a farsi ragione quando s’incontrassero dififcoltà in ottenerla secondo gli accordati, potendosi temere d’irreligiosità.
Deve al contrario considerarsi che l’indignazione delle due corone portarebbe alla Repubblica delle funeste conseguenze. Primo per li grandi rilevanti interessi che la nazione genovese tiene nelle due monarchie, principalmente in quella di Spagna.
Secondo per il pregiudicio, che risultarebbe al commercio, quando restasse sospesa la communicazione colli porti della Francia, e molto più quelli della Spagna.
Che potrebbwero succedere tali avvenimenti nella guerra d’Italia, o d’Europa, che dassero il motivo a qualche nuovo trattato tra le potenze belligeranti, in quale trattato venisse ad essere sacrificata la Repubblica in qualche membro del suo dominio, di maggiore conseguenza, che non sarebbe il Finale e li feudi desiderati, o forse, il che Dio non voglia, in tutto il di lei essere, non potendo assicurarsi di moderazione nella armata gallospana quando le riuscisse dilatare le sue conquiste nel // Piemonte, e Lmbardia, che fanno circonferenza al dominio della Repubblica quanto per tutto il longo di terraferma.
Che la corte spagnola ha delle pretensioni sopra il porto della Spezzia per le antiche ragioni della casa Farnese, potendosi comprendere che non siano ignorate, stanti le proteste fatte dal marchese San Filippo, in tempo che si fabbricò colà il lazzaretto.
Che finalmente, se si viene alla essecuzione del trattato di quasi alleanza colle due corone puole sperarsi un raggionevole ingrandimento di dominio in terra ferma, vantaggio da disperarsi per qualunque tempo, ed in altra maniera, mentre è recente l’esempio delle contrarietà delli plenipotenziarj del congresso di Cambray, quando cercò la Repubblica di fare la compra del ducato di Massa dalla casa Cibo, e già stava per conchiudersi il trattato, ed effettuarsi la compra.
Queste sono le considerazioni, che la Gionta detta di Vorms ha sottoposto all’essame delli Colleggi. Questi volevano che si convocasse il Minor Consiglio ma per non rinovare lo scisma, al presente mortificato, sennon del tutto estinto, hanno dopo diverse consulte deliberato di ordinare alli due ministri Pallavicino presso del re Cristianissimo, et al Grimaldi presso del re Cattolico, di fare nuovi ufficj, e nuove instanze per ottenere alla Repubblica la continuazione di sua neutralità, e di ritirarsi dalla essecuzione del trattato di quasi alleanza.
E perché si congettura, che guadagnandosi la propensione a questa instanza della corte di Francia debba condiscendervi ancora per concomitanza quella di Madrid, si è scritto all’inviato Pallavicino di fare offerta di considerabile regalia per facilitazione dell’intento.
Per interina deliberazione poi si è scritto al nuovo sargente generale di battaglia in Ollanda, destinato al commando dell’armata ligure, // di soprassedere sino ad ulteriore avviso la sua venuta, si è sospesa ancora la deliberazione di mettere sul piede di reggimenti li battaglioni di questa truppa, e di rallentare la sollecitudine delle nuove leve, e del completare li battaglioni.
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Indice
Premessa | p. 5 |
Città, Repubblica e Nobiltà nella cultura politica genovese fra Cinque e Seicento |
7 |
Il governo genovese e Savona nell’età di Chiabrera. Appunti di ricerca | 27 |
Appendici:
La relazione di Marc’Aurelio Lomellini sui bussoli di Savona, 1599 La lettera di Ansaldo Cebà e Lazzaro Pichenotti al Senato, 1599 I Governatori di Savona nella prima metà del Seicento Le istruzioni ai commissari inviati nella fortezza di Savona, 1596 |
36 40 43 44 |
Un pittore cappuccino tra i Magnifici | 49 |
Grimaldi agli Spinola: gli abitatori del palazzo Spinola di Pellicceria | 57 |
Da Levanto a Genova. Famiglie levantesi nel patriziato genovese | 63 |
Opere citate | 121 |
[1] Queste pagine sono nate comeioni: ASLSP = “e di Storea,tività di studioso, testo di una conferenza presentata in successive versioni dal gennaio 1993 in poi davanti a pubblici diversi, a Genova e altrove, e da ultimo (marzo 2002) all’università di Teramo, su invito di Francesco Benigno e Fausta Gallo, che ringrazio per la generosa ospitalità. Il testo, pubblicato in un forma ulteriormente rielaborata negli “Annali della Facoltà di Lettere dell’Università di Ferrara”, è stato ancora rivisto per questa raccolta. Lo scopo di queste pagine è stato sin dall’inizio quello di offrire a lettori interessati all’argomento, ma non specialisti, una interpretazione molto sintetica e aggiornata della storia politica genovese nell’età moderna.
[2] Edoardo Grendi e i curatori del volume sulla storia della letteratura ligure in età moderna hanno qualificato la Repubblica come aristocratica; Rodolfo Savelli l’ha definita invece oligarchica.
[3] M. G. Canale, Cenni della storia di Genova, opuscolo offerto ai partecipanti al congresso degli scienziati tenuto a Genova nel 1846, citato più estesamente in C. BITOSSI, Il Governo dei Magnifici, p. 29.
[4] Per un profilo di Canale rinvio ad A. Benvenuto Vialetto, ‘Canale, Michele Giuseppe’. Suona paradossale la circostanza che Canale avesse sposato una discendente di una famiglia della più antica nobiltà genovese, Paola Spinola.
[5] Per ulteriori considerazioni su questo punto rimando a C. Bitossi, ‘Lo strano caso dell’antispagnolismo genovese’.
[6] J.-C.-L. Simonde de Sismondi, Storia delle repubbliche italiane. Si veda, a p. 351, il ritratto di Andrea Doria: “[…] Aveva costituito, per governare la repubblica, un’aristocrazia ristretta sulla quale dominava ancora, con il nipote Giannettino; nello stesso tempo legava la patria alla casa d’Austria, con una sottomissione che la maggior parte dei genovesi sentivano come una profonda umiliazione”.
[7] Sulle istituzioni politiche genovesi nel Medioevo si veda V. Piergiovanni, Lezioni di storia giuridica genovese. Il Medioevo. Le leggi del 1413 e del 1443 modificavano le regulae del 1363 e quelle ancora precedenti, e non conservate, del primo doge vitalizio e popolare, Simon Boccanegra, salito al potere nel 1339.
[8] Un panorama ancora utile delle istituzioni genovesi, al quale rimando qui una volta per tutte, è G. Forcheri, Doge Governatori Procuratori.
[9] Si veda ora R. Ferrante, La difesa della legalità.
[10] Cfr. C. Costantini, La Repubblica di Genova; A. Pacini, I presupposti politici del ‘secolo dei genovesi’.
[11] La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797); C. Costantini, La Repubblica di Genova.
[12] F. Guicciardini, Storia d’Italia, p. 1974 (XIX, 6).
[13] Dal confronto tra la ‘Nota dei personaggi più distinti Genovesi, tanto nobili che plebei boni viri de Tabula, del 7 gennaio 1499’, pubblicata in ‘Documents pour l’histoire de la domination française à Gênes (1498-1500), pp. 357-363, e le liste del primo Liber civilitatis, troviamo ad esempio che nel 1528 gli albi Serra e De Mari furono aggregati, rispettivamente, agli alberghi dei nigri Lercari e Usodimare. I nigri Invrea confluirono invece con gli albi Doria. Rispetto ai ‘colori’ guelfo e ghibellino, sembra che alcuni spostamenti di campo siano stati operati deliberatamente. Ma va ricordato che più d’una casata risultava sin dal 1499 divisa tra diverse appartenenze, e che la ‘Nota’ del 1499 non riporta tutti i cognomi (manca ad esempio un albergo importante come i De Franchi).
[14] E. Grendi, ‘Profilo storico degli alberghi genovesi’; J. Heers, Il clan familiare nel Medioevo.
[15] Si vedano le citazioni di scrittori e diplomatici riportate da A. Pacini, ‘«El ladrón de dentro casa»: congiure e lotta politica a Genova dalla riforma del 1528 al tradimento di Gian Luigi Fieschi’, in particolare p. 603; più ampiamente Id., La Genova di Andrea Doria.
[16] Cito da Les Memoires de Messire Philippe de Commines …, Paris, Jacques Chouët, 1593, p. 793; la traduzione italiana è Delle Memorie di Filippo di Commines … Tradotte dal Mag.co Lorenzo Conti, Genova, eredi di Geronimo Bartoli, 1594, p. 775; nella stessa pagina Conti omise inoltre di tradurre l’osservazione di Commines: “Et ainsi les nobles font bien un duc a Gennes, mais ils ne le peuvent estre”; sul traduttore si veda R. Savelli, ‘Conti, Lorenzo’.
[17] Nel Sogno sopra la Republica di Genova veduto nella morte di Agostino Pinello ridotto in Dialogo (un libello politico del 1566 [ctrl]), uno degli interlocutori, Agostino, afferma: “A voler osservar i costumi e legge de Venetiani bisogneria che noi Genovesi fussimo situati in le tartare paludi sicome sono i venetiani, e sotto quello clima così stabile e fermo e non sotto questo volubile”. Cito dall’esemplare conservato in Archivio Storico del Comune di Genova, Manoscritti Pallavicino, 164.
[18] Cfr. A. Spinola, Scritti scelti; F. Vazzoler, ‘Letteratura e ideologia aristocratica a Genova nel primo Seicento’, in particolare pp. 245-251.
[19] Bonfadio scriveva: “[…] quantunque volte è paruto loro valersi dell’autorità e potenza di genti straniere, essi spontaneamente e con certe condizioni se li sono eletti, sicché potevano ritenerli piacendo loro, e non piacendo levarli, come il più delle volte avveniva. […]”. Cfr. J. Bonfadio, Annali, Genova, Gerolamo Bartoli, 1586, trad. di Bartolomeo Paschetti. Sul personaggio e l’opera cfr. C. Bitossi, ‘Città, Repubblica e nobiltà’, in particolare pp. 14-15, e R. Scrivano, ‘Iacopo Bonfadio’.
[20] Cfr. ASCGE, Manoscritti Brignole Sale, 108.A.5, “Discorso dell’ambasciatore della serenissima Repubblica di Vinetia seguito col gentiluomo residente della serenissima Repubblica di Genova presso sua maestà Cesarea li 14 ottobre 1637 in Vienna”, cc. 51v-52r. L’ambasciatore genovese Gerolamo Rodino riferì di aver detto: “Le discordie civili, che per disgratia nostra ci travagliorno, nel che la loro Republica è stata più fortunata, ci astrinsero per non agiustare noi il governo di noi medesimi a chiamar hora un Prencipe, hora un altro, perché ci governasse, et se bene questo seguì sempre con conventioni tali, che si poteva chiamar più presto appoggio, che sogettione, poi che furono sempre con risalvarsi il governo delli stati, armate, entrate, e Casa di S. Giorgio, il poter mandare Ambasciatori à Prencipi, et particolarmente à Roma, dove non ostante questo essere sottoposti noi al [c 52 r.] governo d’altri, fù da più Sommi Pontefici, e poi l’anno 1526 da Carlo V a loro imitatione dichiarato che precedessimo alli Fiorentini, e al Duca di Ferrara….”.
[21] Della rivolta ha lasciato una colorita narrazione un oligarca che ne era stato giovanissimo testimone: Giovanni Salvago, Histories di Genova, manoscritto, Genova, Biblioteca della Facoltà di Economia, Archivio Doria, scat. 417, n. 1912.
[22] E. Grendi, ‘Le conventicole nobiliari e la Riforma del 1528’.
[23] M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, p. 16.
[24] La presenza genovese in Castiglia a fine Quattrocento e primo Cinquecento è illustrata largamente da E. Otte, Sevilla y sus mercaderes. Benché meno noti di quelli di Ramón Carande e Felipe Ruiz Martín, i lavori di Otte presentano un eccezionale interesse per gli storici di Genova, perché documentano la forza e la capillarità dell’insediamento genovese nella penisola iberica, e segnatamente in Castiglia e in Andalusia, in una fase anteriore e meno esplorata di quella che è stata al centro dei grandi e noti studi sulle finanze degli Austrias.
[25] Cfr. G. Parker, The Army of Flanders and the Spanish Road.; Id., Spain and the Netherlands. 1559-1659, in particolare pp. 122-133 (un articolo scritto in collaborazione con I. A. A. Thompson); Id., The Grand Strategy of Philip II,.
[26] Prudentemente Andrea Doria e i suoi fecero acclamare la libertà nella piazza di San Matteo, il loro quartiere. Poiché gran parte dei maggiorenti si erano rifugiati fuori città, fu necessario farli richiamare. L’acclamazione della libertà, il 12 settembre, ebbe perciò le parvenze di un colpo di mano, attuato sotto la protezione delle armi private dei Doria.
[27] A. Pacini, I presupposti politici del ‘secolo dei genovesi’ è la lettura indispensabile sull’argomento.
[28] Della sterminata bibliografia su Venezia si segnalano soltanto: G. Maranini, La costituzione di Venezia; G. Cozzi-M. Knapton, La Repubblica di Venezia nell’età moderna. Sulla serrata in particolare S. Chojnacki, ‘In search of the Venetian patriciate: families and factions in the fourteenth century’ (non ripreso in Id., Women and Men in Renaissance Venice).
[29] Il riferimento d’obbligo è a F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo.
[30] Nel caso di Machiavelli, suo malgrado: cfr. C. Dionisotti, Machiavellerie, pp. 407-409; R. Savelli, ‘Tra Machiavelli e San Giorgio. Cultura giuspolitica e dibattito istituzionale a Genova nel Cinque-Seicento’. Vedi anche in C. Bitossi, “La repubblica è vecchia”, alcuni esempi della ripresa (o per meglio dire della persistenza) della polemica contro San Giorgio alla vigilia della fine della Repubblica.
[31] Cfr. G. Salvago, Histories, c. 76v-77r. Autore dell’incredibile impresa fu Francesco Pallavicino q. Babilano, condannato l’anno seguente soltanto a venti anni di esilio: “Sententia et penitentia, tanto vituperosa et infame per uno Senato, quanto dire si possa, et che peggio per non dovere essere osservata”, dal momento che Pallavicino fu “prima assai del tempo rimesso”, con grande scandalo del Salvago e di “molte persone, desiderose de la conservatione de la republicha”.
[32] Cfr. G. Salvago, Histories, cc. 171v-172r. Essendosi dato alla fuga il notaio Nicolò Tasso, i protettori “lo ritrovorono debitore de molte migliaia de scuti et de più molte altre persone incognite, facendo de poi pervenire li denari in lui et de più in molti altri cittadini, a li quali li premetteva valerse de denari, per haverli benivoli a mantenerlo in quello esercicio”. Anche in questo caso il Tasso e Giulio Pasqua, uno dei profittatori della situazione, se la cavarono senza danno, mentre le indagini sui retroscena dell’incendio e sulle manomissioni delle contabilità vennero prontamente insabbiate.
[33] Su questo personaggio si veda G. C. Roscioni, Sulle tracce dell’Esploratore turco.
[34] A. Spinola, Ricordi, ‘Che habbiamo molte cose in publico, per le quali dobbiamo stimare la nostra Patria’, BCB, m. r. XIV.1.4 (2), p. 123.
[35] Archivio di Stato di Genova, Inventario dell’Archivio del Banco di San Giorgio (1407-1805).
[36] L’autore della Relatione di Genova del 1597 (o 1598) citato in C. Costantini, La Repubblica di Genova, che va molto probabilmente identificato in Jacopo o Giacomo Mancini da Montepulciano, cavaliere di Santo Stefano, un letterato assassinato a Genova nel 1603, pare per una vendetta personale. A lui venne ufficialmente attribuita la relazione, fatta bruciare dal governo per mano del boia nei primi mesi del 1604. Le ragioni e la destinazione dello scritto (un rapporto al granduca di Toscana del quale il Mancini sarebbe stato un agente?) restano tuttavia da chiarire.
[37] E. Grendi, ‘Genova alla metà del Cinquecento: una politica del grano?’ e ‘La costruzione del sistema assistenziale genovese (1470-1670)’; R. Savelli, ‘Dalle confraternite allo Stato: il sistema assistenziale genovese nel Cinquecento’.
[38] Oltre ai Doria, le famiglie coinvolte nell’appalto delle galere alla Spagna furono i Cicala, Di Negro, Lomellini, Centurione, Lercari, De Mari, Grimaldi, De Marini, Negrone, Sauli. Solo questi ultimi appartenevano alla ex fazione popolare, ma ne erano non a caso tra gli esponenti più antichi, illustri e facoltosi. Sull’organizzazione militare spagnola fra Cinque e Seicento e i suoi problemi si veda ancora I. A. A. Thompson, War and Government in Habsburg Spain, con numerosi riferimenti al ruolo di Genova e dei genovesi.
[39] Vedi infra, § 9.
[40] Gian Luigi (1522-1547) era il giovane figlio di Sinibaldo Fieschi (1485-1531/32), il quale aveva dato alla svolta del 1528 un appoggio importantissimo, perché i Fiechi controllavano, attraverso la catena dei loro feudi e castelli, l’entroterra della Liguria di Levante. Il ruolo eminente del conte era stato riconosciuto con l’attribuzione a Sinibaldo della carica di Supremo sindicatore a vita, al pari di Andrea Doria, al quale venne però riconosciuto in più il ruolo di priore del magistrato. La morte prematura di Sinibaldo, che lasciò Gian Luigi erede bambino di una fortuna terriera e priva di addentellati con le nuove fonti di influenza e ricchezza (il mare e la finanza), indebolì senza dubbio la posizione della casata sulla scena genovese. La percezione del declino diede esca al tentativo di rivalsa di Gian Luigi, sostenuto dall’esterno dai nemici della Spagna: papa Paolo III, Pier Luigi Farnese, e sullo sfondo la Francia. Cfr. O. Raggio, ‘Fieschi, Gian Luigi’; M. Cavanna Ciappina, ‘Fieschi, Sinibaldo’.
[41] Giannettino (1510/1520-1547) era un cugino più giovane (non un nipote, come talvolta si è scritto) di Andrea. Valente uomo di mare (catturò lui il temibile corsaro Dragut), comandava la squadra delle galee del vecchio Doria, del quale era l’erede designato. Fu ucciso da un soldato dei Fieschi alla porta di San Tommaso, essendosi imprudentemente affrettato senza scorta dalla sua residenza di Fassolo in città per vedere che cosa stesse accadendo. La preoccupazione non era infondata: i congiurati, guidati dallo stesso Gian Luigi Fieschi, intendevano impadronirsi delle galee dei Doria alla fonda nella Darsena: e fu realizzando questa impresa che Gian Luigi cadde accidentalmente in mare ed affogò, determinando il fallimento della congiura. In effetti la squadra doriana subì dei danni, sia per la fuga di una galea, della quale si impadronirono i rematori schiavi barbareschi e forzati cristiani, solidali nello sforzo di riguadagnare la libertà, sia per il saccheggio delle attrezzature di bordo operato dalla plebe cittadina nella confusione. Cfr. G. Salvago, Histories, cc. 70r-73v. M. Cavanna Ciappina, ‘Doria, Giannettino’.
[42] V. Vitale, ‘Congiure del Rinascimento e congiure genovesi’; A. Pacini, La Genova di Andrea Doria.
[43] L’espressione “garibetto” deriva, secondo tutti i commentatori, dal termine dialettale “garibo”, e riprenderebbe una frase di Andrea Doria, il quale avrebbe detto che con la riforma del 1547 si voleva dar garbo, assestare, mettere a posto la Repubblica.
[44] R. Savelli, La repubblica oligarchica; e ora A. Pacini, La Genova di Andrea Doria.
[45] Nel 1553 [quando?]un’armata franco-turca invase e occupò quasi tutta l’isola, che il contrattacco genovese recuperò soltanto in parte. La Corsica venne restituita a Genova solo nel 1559, alla pace di Cateau-Cambrésis, per le pressioni spagnole. Nel 1562 l’isola, sino ad allora governata dal Banco di San Giorgio, venne trasferita sotto l’amministrazione diretta della Repubblica. Nel 1564, però, il condottiero corso fuoruscito Sampiero di Bastelica riaccese nell’isola una rivolta che durò, nonostante la sua morte in combattimento nel 1567, sino al 1569. Cfr. R. Emmanuelli, Gênes et l’Espagne dans la guerre de Corse; A.-M. Graziani, La Corse génoise; A. P. Filippini, Chronique de la Corse, 1560-1594 (è l’ottima edizione, in traduzione francese, della più nota cronaca corsa della guerra); M. Vergé-Franceschi-A.-M. Graziani, Sampiero Corso.
[46] Al contrario, le prime esperienze in mare di Gian Andrea (1539/1540-1606) furono infelici. Al momento di succedere al vecchio ammiraglio, Gian Andrea si trovò addirittura, stando alla sua testimonianza, in crisi di liquidità. Inoltre non correvano buoni rapporti tra lui e il figlio adottivo di Andrea, Marc’Antonio del Carretto, nato dal primo matrimonio della moglie dell’ammiraglio, Peretta Cibo Usodimare, del quale era diventato [quando?] genero sposandone la figlia Zenobia. Cfr. Vita del Principe Gian Andrea Doria.
[47] Vita del Principe Gian Andrea Doria; ma vedi anche R. Savelli, ‘Honore et robba: sulla vita di Giovanni Andrea Doria’, versione più ampia della voce scritta dallo stesso autore per il Dizionario Biografico degli Italiani. Vilma Borghesi sta ora preparando una biografia di Gian Andrea.
[48] Non bisogna dimenticare che Andrea Doria (1466-1560) non detenne mai un potere incontrastato e personale a Genova. Il suo ascendente in città si basava, oltre che sul ruolo di garante e intermediario presso l’Imperatore, anche sull’alleanza con il consuocero (in senso lato: una sua figlia, Ginetta, aveva sposato l’erede politico e militare di Andrea, Giannettino) Adamo Centurione (?-1568), uno dei più importanti finanzieri del tempo, e sulla solidarietà di influenti casate “vecchie”, come i Lomellini e i Grimaldi, coinvolte negli appalti della flotta doriana, e i del Carretto coi quali Andrea era imparentato attraverso la moglie. Per contro, sia al momento della congiura dei Fieschi sia in seguito, emerse chiaramente l’ostilità nei suoi confronti di altri importanti maggiorenti “vecchi”, alcuni dei quali appartenevano alla stessa famiglia Doria, come il cardinale Gerolamo (?-1557) e il figlio di questi, Nicolò. Andrea, ricordiamolo, proveniva da un ramo periferico e non molto dovizioso della famiglia (“nasciuto nobile, ma de pocho essere”, così G. Salvago, Histories, c. 106v): era in definitiva un arrivato, un condottiero di ventura asceso tardi alla ricchezza e al potere, circondato da un clan di suoi simili, onegliesi e uomini di mare soggetti agli incerti della guerra di corsa. Cfr. G. Nuti, ‘Centurione, Adamo’; M. Sanfilippo, ‘Doria, Gerolamo’.
[49] E. Poleggi, Strada Nuova.; L. Grossi Bianchi-E. Poleggi, Una città portuale; Una reggia repubblicana. Va aggiunto che dopo la prima ondata di costruzioni da parte di nobili “vecchi” (Lomellini, Grimaldi, Spinola, Pallavicini, Lercari), anche alcune famiglie “nuove” (Saluzzo, Adorno, Brignole Sale) vennero a insediarsi nella fastosa via, o costruendo per sé nuovi palazzi o acquistandone di esistenti dai precedenti proprietari. Nella prima metà del Seicento alcune grandi famiglie “nuove” di recente ascesa (Balbi, Durazzo) diedero a loro volta vita a un’ambiziosissima e fastosa operazione immobiliare costruendo Strada Balbi. In quel caso però il modello non era quello di Strada Nuova, una via residenziale condivisa, ma quello, antico, dell’addensamento di un clan in un solo quartiere: come i Doria attorno alla piazza di San Matteo e gli Spinola lungo i due assi viari di San Luca e di Luccoli.
[50] Una messa a punto recente del rapporto tra finanza genovese e monarchia spagnola che dà conto della bibliografia precedente è G. Muto, ‘Una vicenda secolare: il radicamento socio-economico genovese nella Spagna de Los Austrias’.
[51] Cfr. G. Doria, ‘Un quadriennio critico: 1575-1578’.
[52] R. Savelli, La Repubblica oligarchica, illustra molto bene le vicende del 1575-1576 e la genesi delle Leggi di Casale.
[53] L’urna (o bussolo) del Seminario conteneva 120 nomi, patteggiati dai legislatori di Casale ed elencati in appendice al testo stesso delle leggi. Ogni sei mesi (a novembre per prendere servizio il primo gennaio seguente, e a maggio per prendere servizio il primo luglio) venivano estratti cinque nomi: tre per il Senato e due per la Camera: beninteso, se dei consagnuinei erano già presenti in quel momento nel collegio il nome estratto veniva rimesso nel bussolo. Inoltre venivano effettuate estrazioni straordinarie in caso di decesso di un senatore o procuratore. A metà anno, sino al 1629, e a fine anno, da allora in poi, venivano reimmessi nell’urna tanti nomi quanti erano quelli dei personaggi estratti, deceduti, o radiati in quanto falliti o passati alla condizione di ecclesiastici. Sulle estrazioni vennero presto organizzate scommesse, antenate del gioco del lotto, che il governo regolamentò e diede in gestione a una società privata, traendone un gettito annuo. Chi era stato senatore o procuratore poteva essere reimbussolato ed estratto di nuovo: e di fatto gli oligarchi influenti venivano imbussolati ed estratti più volte.
[54] Nonostante l’assonanza del nome con la magistratura veneziana, nell’ordinamento genovese gli Inquisitori di Stato non occuparono mai un rilievo paragonabile. La loro rete di controspionaggio si dimostrò in ogni caso efficace, per quanto si può ricavare dalla documentazione diretta (scarsa: l’archivio della magistratura fu distrutto) e indiretta (molto più abbondante) che ne è rimasta.
[55] Contestualmente, la durata del Minor Consiglio divenne biennale. In questo modo, ogni anno seguitavano a essere eletti cento consiglieri, ma per due anni anziché per uno soltanto, e l’assemblea era composta per metaà di reclute e per metà di persone che avevano già conoscenza degli affari avviati.
[56] Nel 1671 tuttavia l’accesso al Maggior Consiglio venne nuovamente sottoposto a una limitata scrematura. Il raddoppiamento di dimensioni del Minor Consiglio fu invece definitivo.
[57] Cfr. A. Spinola, [Ricordi], BCB, Mss rari, XIV.1.4 (1), pp. 355-357, al capitolo “Che per li interessi del Re di Spagna, fa che le cose di stato, si trattino nel minor consiglio, e non dalli due Serenissimi Collegij soli”.
[58] Lo sventagliamento dei candidati “nuovi” su molte famiglie fu caratteristica dei primi decenni di funzionamento del sistema del seminario. Alla lunga anche tra i “nuovi” emerse un nucleo di casate monopoliste delle alte cariche e fittamente imparentate tra loro.
[59] C. Bitossi, Il governo dei magnifici, p. 37. Troviamo la notazione nel diario dell’ex doge Alessandro Giustiniani, riferita all’elezione dogale del 1619. Non è escluso che la prassi si sia prolungata senza incidenti anche oltre quella data. Beninteso, le denominazioni di mercanti e artigiani (“artesi”) erano del tutto prive di qualsiasi nesso con le attività svolte dagli interessati, e lo erano state per la verità almeno dal secondo Quattrocento.
[60] Il solo sondaggio sui matrimoni si trova in E. Grendi, ‘Capitazioni e nobiltà’.
[61] Nel Settecento la denominazione portico di San Luca era stata sostituita da quella di portico di San Siro; cfr. C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”.
[62] C. Bitossi, Il governo dei magnifici. In una fase successiva, negli anni ’30-’40 del Seicento, ad animare l’Accademia fu il letterato Anton Giulio Brignole Sale, appartenente a una ricca famiglia “nuova”. L’osservazione sul reclutamento omofazioso degli Addormentati riguarda la sua fase iniziale. Come ha osservato Edoardo Grendi, l’Accademia per statuto non aveva alcun carattere esclusivo. Sta però di fatto che tutti gli Addormentati meno uno erano “vecchi”.
[63] C. Bitossi, Il governo dei magnifici.
[64] M. Nicora, ‘La nobiltà genovese dal 1528 al 1700’.
[65] La bibliografia, soprattutto ottocentesca e primo-novecentesca, sul Vachero è consistente: se ne veda la sistemazione in C. Costantini, La Repubblica di Genova; sul Della Torre si vedano S. Adorno, ‘Della Torre, Raffaele [junior]’, e il pregevole lavoro di F. Cacciabue, ‘Per una biografia di Raffaele Della Torre’, al quale rimando anche per riferimenti alla bibliografia precedente. Si noti che mentre Vachero era un popolare arricchito di origini provinciali ponentine, Della Torre (1646-1681) era il nipote omonimo di un illustre esponente del ceto di governo, il giurista, storico e politico Raffaele Della Torre senior, sul quale si veda qualche notazione più avanti. Inoltre, mentre Vachero era al centro di una rete cospirativa, quella di Della Torre appare l’impresa di un desperado, di un patrizio malfattore emarginato e rovinato. In entrambi i casi la congiura non poteva fare a meno di un supporto esterno, cioè del coordinamento con un’iniziativa militare del duca di Savoia. Nel caso di Vachero la congiura seguiva lo stallo delle ostilità tra savoini e genovesi, e doveva servire a rilanciare l’offensiva di Carlo Emanuele I; nel caso di Della Torre la congiura doveva aprire la strada all’invasione organizzata da Carlo Emanuele II. [CTRL]
[66] Voltri, oggi circoscrizione compresa nel territorio del comune di Genova, ma in età moderna località extraurbana, sede di capitanato, era il principale centro di produzione della pregiata carta genovese, largamente esportata non solo in Italia ma anche nella penisola iberica. Le famiglie dei principali imprenditori del settore vennero tutte ascritte al patriziato, tra gli anni ’20 e gli anni ’80 del Seicento. Cfr. M. Nicora, ‘La nobiltà genovese’; M. Calegari, La manifattura voltrese della carta.
[67] Cfr. A. Spinola, Ricordi, alla voce ‘Ascrizioni’. I “Ricordi” si presentano come una sorta di dizionario di politica genovese; non a caso alcune copie dell’opera vennero intitolate da lettori settecenteschi “Dizionario filosofico-politico”.
[68] Cfr. A. Spinola, Ricordi, BCB, m. r., XIV.1.4 (2), p. 173: ‘Che chi pretende di giustitia, la nobiltà, si deve udir volontieri, e fargliela compitamente, quando l’habbia’: “[…] Item, chi con l’ocasione di qualche urgente bisogno, darà venticinque milla scudi alla Rep.a e mostrerà, restargliene altretanti almeno, sia dichiarato [nobile], come sopra”.
[69] Cfr. M. Knapton, G. Cozzi, La Repubblica di Venezia nell’età moderna.
[70] L’espressione “secolo dei genovesi”, coniata e messa in circolazione da storici non solo non genovesi, ma non italiani (Fernand Braudel, Frank Spooner, Felipe Ruíz Martín), ha finito coll’entrare nel circuito mediatico locale e col diventare una sorta di etichetta delle iniziative culturali municipali. Si veda da ultimo la mostra allestita a Palazzo Ducale, della quale citiamo il catalogo: El Siglo de los Genoveses.
[71] G. Doria, ‘Investimenti della nobiltà genovese nell’edilizia di prestigio (1530-1630)’. Sul mondo produttivo genovese e sulle dinamiche delle corporazioni si vedano i saggi raccolti in P. Massa Piergiovanni, Lineamenti di organizzazione economica in uno stato preindustriale; la stessa autrice è tra i coordinatori di un’indagine su scala italiana del fenomeno corporativo, i cui risultati più recenti si trovano in Corporazioni e gruppi professionali nell’Italia Moderna, dove, a pp. 390-403 si legge un ulteriore contributo della stessa Massa.
[72] Le espressioni “catene d’oro” e “invisibile ma inespugnabile fortezza dell’interesse” si trovano in un parere attribuito a don Bernardino de Mendoza, opera in realtà dell’erudito e politico Federico Federici (1579-1647) e scritto negli anni ‘30-’40 del Seicento, che si trova manoscritto nelle principali biblioteche genovesi. Questa datazione tarda non significa però che i concetti attribuiti al Mendoza non circolassero già da tempo nel dibattito politico genovese. Sulla questione cfr. R. Savelli, ‘Tra Machiavelli e San Giorgio’.
[73] C. Costantini, La Repubblica di Genova; Id., ‘Politica e storiografia: l’epoca dei grandi repubblichisti’; C. Bitossi, Il governo dei magnifici.
[74] Dell’ormai nutrita bibliografia cebaiana ricordo solo F. Vazzoler, ‘Letteratura e ideologia aristocratica’, in particolare pp. 251-274, M.Corradini, Genova e il Barocco, e A. Cebà, Tragedie, ai quali rimando per ulteriori riferimenti. G. Doria, ‘Investimenti della nobiltà genovese’, finisce per dare retrospettivamente ragione ai critici “repubblichisti” dello sciupio vistoso: l’immobilizzo di capitali nell’edilizia di prestigio fu così consistente da privare il patriziato cittadino delle risorse indispensabili alla riconversione, una volta venuti meno i profitti degli investimenti finanziari in Spagna. [vedere eventuale riferimento al repubbicanesimo classico nel caso di Cebà; edizione del Cittadino fatta da Conti]
[75] R. Savelli, ‘La pubblicistica politica genovese durante le guerre civili del 1575’. Monsignor Oberto Foglietta (1518ca.-1581), letterato, storico e politico, aveva dato alle stampe a Roma, nel 1559, presso Antonio Blado, un Dialogo della Repubblica di Genova che costituì la prima esplicita critica all’assetto del 1528. Nel dialogo si attaccava la nobiltà “vecchia” e si criticava il ruolo dello stesso Andrea Doria, esortando nel contempo il governo a costituire una forte flotta di stato. A Genova i Collegi fecero bruciare il libro, che ebbe tuttavia grande fortuna. Foglietta sosteneva la necessità per Genova di ridiventare una potenza navale. Qualche anno più tardi il fratello Paolo, letterato e poeta, espresse nelle sue Rimme pe armà garíe (rime per armare galee) una posizione analoga. Cfr. C. Bitossi, ‘Foglietta, Oberto’.
[76] Il titolo del libro annunciato (e citato in F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo, p. 475) di Felipe Ruiz Martín suonava El siglo de los genoveses en Castilla (1528-1627); capitalismo cosmopolita y capitalismos nacionales. Si veda però F. Braudel, ‘Le siècle des Génois s’achève-t-il en 1627?’; e il già citato G. Muto, ‘Una vicenda secolare: il radicamento socio-economico genovese nella Spagna de Los Austrias’.
[77] La narrazione coeva più eloquente e significativa, anche perché opera di un personaggio di parte, si trova nelle Historie di Raffaele Della Torre; cfr. C. Costantini, ‘Politica e storiografia’.
[78] C. Bitossi, Il governo dei magnifici.
[79] C. Bitossi, ‘Un oligarca antispagnolo del Seicento: Giambattista Raggio’.
[80] Cfr. O. Pastine, ‘Gio. Bernardo Veneroso’.
[81] Cfr. R. Savelli, ‘Della Torre, Raffaele’; C. Bitossi, ‘Federici, Federico’.
[82] Cfr. C. Bitossi, ‘Navi e politica’; Id., ‘Il «Genio ligure risvegliato»’; Id., ‘«Il dominio del mare e l’impero della terra»’; e ora T. Kirk, Genoa and the Sea; ma si veda sempre C. Costantini, La Repubblica di Genova.
[83] C. Bitossi, Il governo dei magnifici; Id., ‘Mobbe e congiure. Note sulla crisi politica genovese di metà Seicento’: qui, a pp. 618-626 è pubblicata la ‘Copia de la relación que hizo Juan Pablo Balbi del tratado que se tenía contra Génova’, cioè l’apologia redatta dal Balbi nel 1650, quando era in trattative per ingraziarsi il governo spagnolo; e per una ricchissima ricostruzione dell’intera vicenda familiare dei Balbi nel Cinque-Seicento E. Grendi, I Balbi. Grendi è però poco interessato alla figura del cospiratore; e il centro del suo libro non sta nell’esame del ruolo politico della famiglia.
[84] La politica genovese nell’epoca della guerra della Lega d’Augusta e soprattutto della guerra di Successione spagnola non ha ricevuto l’attenzione che merita. Il punto di partenza restano i lavori di Carlo Morandi. Si veda C. Morandi, Scritti storici, I, pp. 314-352; 433.-525; Id., Relazioni di ambasciatori sabaudi, genovesi e veneti (1693-1713).
[85] Su questo importante momento della storia genovese si vedano ora i contributi a Genova 1746.
[86] L’espressione è di V. Vitale, Breviario della storia di Genova.
[87] Il bombardamento di Genova nel 1684; C. Bitossi, ‘Una mostra così gagliarda’ e Id., ‘«Il piccolo sempre succombe al grande»’.
[88] Esempio clamoroso i Cambiaso, ascritti negli anni ’30 del Settecento, che figuravano tra le case più ricche di Genova. Cfr. G. Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa, con l’analisi di un patrimonio Cambiaso. Il modello di arricchimento era però ormai diverso; né era soltanto il commercio con la Francia a costituire una via d’ascesa: un ramo collaterale dei Cambiaso e una famiglia relativamente minore come i Buonarroti trovarono fortuna in Portogallo; inoltre in Spagna continuarono a sciamare genovesi di varia condizione, che lì trovarono il trampolino di lancio per l’America spagnola, ma che qualche volta vi si fermarono con successo: alcuni ascritti settecenteschi, come i Piuma e i Causa, esibivano fortune di origine spagnola; cfr. C. Bitossi, «La Repubblica è vecchia». E nella borghesia barcellonese di primo Ottocento già Jaime Vicens Vives citava dei genovesi o liguri (Bacigalupi, Dodero e altri) di recente immigrazione nel novero di coloro che si erano rapidamente arricchiti col contrabbando e i commerci semilegali del periodo dell’occupazione francese; cfr. J. Vicens Vives, ‘Coyuntura económica y reformismo burgués’.
[89] S. Pugliese, Le prime strette dell’Austria in Italia; Dilatar l’impero in Italia.
[90] L’edizione di fonti archivistiche di facile accessibilità e di immediata utilità come le relazioni degli ambasciatori, per non parlare di quella dei principali testi politici del Cinque-Seicento, è proceduta con grande lentezza e presenta tuttora moltissime lacune: e questo nonostante la più che secolare attività della Società Ligure di Storia Patria, i cui “Atti” rappresentano la lettura obbligata per chiunque si volga a studiare la storia genovese e ligure.
[91] Ma si vedano i contributi e le riflessioni di G. Assereto, Le metamorfosi della Repubblica.
[92] O. Raggio, Faide e parentele; E. Grendi, Il Cervo e la Repubblica. Prendendo lo spunto da questi due lavori la rivista “Società e Storia”, n. 67, 1995, pp. 111-167, ha ospitato una vivace discussione sul tema ‘Stato e società locale’.
[93] Rimando ai già citati lavori di Antoine-Marie Graziani, il miglior conoscitore della storia moderna della Corsica.
[94] Cfr. I duchi di Galliera; L. Tagliaferro, La magnificenza privata.
[95] Il miglior profilo biografico è E. Grendi, ‘Andrea Doria uomo del Rinascimento’ [1979], in Id., La repubblica aristocratica dei genovesi, pp. 139-172, che riprende e sviluppa ‘Doria, Andrea’, DBI, XLI, pp. 264-274. Ma si vedano ora per il ruolo politico del Doria tra il 1528 e il 1547, A. Pacini, I presupposti politici, e Id., La Genova di Andrea Doria.
[96] Forte sarebbe la tentazione di affrontare lo studio del “secondo ordine” come una galleria di storie di successo. In effetti, questa è una faccia della medaglia: come alcune casate di operatori economici costruirono fortune che valsero loro l’accesso al patriziato. Ma anzitutto occorre indagare il rapporto che intercorse tra le fortune dei popolari e le attività delle casate patrizie. Il notaio Bartolomeo Pareto comiciò come agente e raccoglitore di sottoscrizioni per prestiti di privati genovesi, generalmente patrizi, alla Francia e all’Impero, a fine Seicento. Nel contempo era un burocrate della Repubblica e un avviato professionista privato. La famiglia si impegnò via via più proficuamente nel commercio e nell’intermediazione finanziaria, fino a compiere il salto nel patriziato nel giro di due generazioni. (Ho qui riassunto il risultato di alcuni sondaggi archivistici molto approssimativi). Quanto questa vicenda sia esemplare resta però da vedere. Inoltre le storie di successo vanno viste nel contesto di una molteplicità di percorsi che furono spesso senza sbocco o si conclusero con lo scacco delle ambizioni o con il fallimento letterale delle attività imprenditoriali. I maggiori studiosi dell’economia genovese in età moderna, Giorgio Doria e Giuseppe Felloni, hanno ammonito ripetutamente a non scambiare la storia della finanza cinque-seicentesca (così come quella della industrializzazione ottocentesca) genovese per un’autostrada verso la ricchezza: i fallimenti, i ripiegamenti e i guadagni precari furono altrettanto, se non più, frequenti che non gli arricchimenti rapidi e strepitosi. Per un bilancio del lavoro più che trentennale del secondo degli studiosi citati si veda ora la raccolta dei suoi saggi: G. Felloni, Scritti di Storia Economica.
[97] Il solo a suggerire il tema, non a caso riprendendo una nozione attinta dalla storiografia anglosassone, ma pochissimo praticata da quella nostrana, è stato ancora una volta Edoardo Grendi.
[98] A. Musi, Mercanti genovesi nel Regno di Napoli; G. Brancaccio, “Nazione genovese”.
[99] C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”.
[100] Nato dall’invito di Franco Croce Bermondi a collaborare alla storia letteraria della Liguria della quale è uno degli ideatori e direttori, questo testo è comparso ne La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), alleggerito per esigenze di spazio nelle citazioni. In questa sede ripristino la stesura originale. Poiché il taglio dell’opera escludeva la possibilità di apporre note, i riferimenti bibliografici, per altro sommari, sono concentrati in una nota finale. Nel redigere il saggio ho avuto modo di constatare ancora una volta la scarsezza di studi aggiornati sui principali esponenti della cultura politica genovese del Cinque-Seicento. Ludovico Spinola resta assolutamente misterioso. Giovanni Salvago attende ancora un editore, come anche la citatissima Relazione di Genova del 1597, che tra l’altro si presterebbe a un esercizio di virtuosismo filologico, nella ricerca dell’identità dell’autore, degno dei “giochi di pazienza” di Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi. Oberto Foglietta meriterebbe quell’ampio lavoro al quale per molto tempo aveva atteso il compianto Gian Giacomo Musso. In breve, sembra quanto mai auspicabile una riapertura dei cantieri sugli autori e i testi della grande stagione della pubblicistica genovese, cantieri avviati a suo tempo da Claudio Costantini ma ormai da parecchi anni inattivi.
[101] Stato, società e giustizia nella Repubblica Veneta, I e II. Il titolo dato a queste pagine reca una non casuale assonanza con G. Ruggiero, Patrizi e malfattori (ma il titolo originale suona più semplicemente Violence in Early Renaissance Venice, New Brunswick [N. J.] 1980) [ci sono altri contributi più recenti?]
[102] R. Savelli, Repressione penale, controllo sociale e privilegio nobiliare.
[103] E. Grendi, Falsa monetazione e strutture monetarie.
[104] O. Raggio, Faide e parentele.
[105] M. D. Floris, La repressione della criminalità organizzata nella repubblica di Genova tra Cinque e Seicento, con riferimenti ad altre ricerche della stessa studiosa sulla storia della repressione penale a Genova.
[106] Cfr. la voce ‘Genova’ nella Guida generale degli Archivi di Stato italiani.
[107] Va fatta l’ovvia eccezione dei lavori di Edoardo Grendi, sempre ricchissimi di spunti.
[108] E’ il caso di Masone, dove il marchese Spinola fatica a tenere sotto controllo la comunità, negli anni ’30 del Seicento, e ricorre agli uomini di mano. Cfr. T. Pirlo, Un clamoroso caso di capitalismo feudale.
[109] E’ il caso del conflitto tra gli Spinola di Francavilla, feudo del Monferrato, e il potente clan dei Guaschi di Alessandria, sudditi milanesi. [dire che ne scrive Schiaffino]
[110] Archivio che si trova, come è noto, a Roma, Palazzo Doria Pamphilj. Segnalo però che documenti giudiziari sul feudo di Torriglia erano conservati qualche anno orsono presso l’archivio della pretura di Torriglia, ed ora si trovano nell’Archivio di Stato di Genova. Si tratta di materiale quantitativamente scarso, ma non privo di interesse, e non ancora utilizzato.
[111] Cfr. L’archivio dei Durazzo Marchesi di Gabiano.
[112] Resta però da indagare sistematicamente il fondo ‘Curia delle valli e dei monti’, nell’Archivio di Stato di Genova, putroppo non ordinato, certamente incompleto, e di npn agevole utilizzazione.
[113] Inventione di Giulio Pallavicino.
[114] Racconto delle Cose successo in Genova Dall’anno 1600 sino al 1610, ASCGE, Manoscritti Brignole Sale, 109.D.4. Benché anonimo e non autografo, a differerenza del precedente, anche questo diario è senz’altro opera del Pallavicino.
[115] Agostino Schiaffino, Memorie di Genova 1624-1647. E’ questa la parte edita del più ampio manoscritto dello Schiaffino, conservato in …………………….. Carlo Cabella, curatore dell’edizione, ha opportunamente concentrato l’attentione sull’arco di tempo nel quale lo Schiaffino rese testimonianza diretta degli eventi.
[116] Cfr. A. Spinola, Scritti scelti; l’opus magnum dello Spinola è conservato in BUG, Manoscritti, B.VIII.25-29, e in ASCGE, Manoscritti Brignole Sale, 105.C.5-7 (copie incomplete anche altrove); ma si tengano presenti anche i materiali preparatori conservati in BCB, Manoscritti rari, XIV.1. 4 (1-7): si tratta di sei volumi di materiali sugli otto originariamente esistenti, oltre a un volume di indici, che conserva il sommario dell’intera opera, poi rifusa, con correzioni che sarebbe interessante studiare, nella versione più nota.
[117] Insieme, va da sé, al fondo “Zecca antica”.
[118] Giulio Pallavicino, appartenente al ramo della famiglia reso ricco, tra l’altro, dall’appalto delle miniere di allume di Tolfa, nacque nel 1554 e morì nel 1635. Fu tra i maggiori cultori di erudizione storica cittadina della sua generazione, e possessore di una ricca biblioteca. Sul personaggio si veda l’introdozione a Inventione di Giulio Pallavicino ; notizie utilissime sui suoi manoscritti nell’appendice a R. Savelli, La Repubblica oligarchica.
[119] Nel marzo 1584 il diarista si reca a Roma; l’amico Gio. Batta Spinola, incaricato di tener nota al suo posto degli avvenimenti, non essendosene occupato, Pallavicino ricostruisce a posteriori il diario. Cfr. Inventione , p. 37.
[120] Per il significato di questa divisione nella Genova del tardo Cinquecento, e l’identificazione delle famiglie appartenenti alle due fazioni, mi permetto di rinviare a C. Bitossi, Il governo dei magnifici.
[121] Si vedano le osservazioni su Gian Andrea Doria in E. Grendi, ‘Autobiografia’.
[122] Inventione, p. 228, alla data del 12 giugno 1589. Il ventenne Ambrogio Spinola con tre uomini aggredisce alcuni altri giovani; nella rissa “restò ferito malamente sopra la testa di due ferite mortali il figlio di Pasquale Spinola q. Battista”.
[123] Inventione ,pp. 10; 19; 27; 113; 127.
[124] Nel corso del Cinquecento i nobili “vecchi” e quelli “nuovi” erano stati designati rispettivamente come ‘portico di San Luca’ e ‘portico di San Pietro’, dai luoghi di ritrovo rispettivi ai lati opposti di piazza Banchi. Ancora negli anni ‘20 del Seicento Andrea Spinola faceva riferimento a queste denominazioni tradizionali. Nel Settecento troviamo correntemente adoperata la denominazione ‘portico di San Siro’ al posto di ‘portico di San Luca’; ma risulta che questa variazione si fosse introdotta almeno dalla metà del Seicento: la si trova ne Le politiche malattie della Republica di Genova, e loro medicine, Amberga [Torino], 1655, opera di Gaspare Squarciafico. Se ne veda l’ottima edizione recente a cura di E. Villa, Genova 1998.
[125] Cfr. G. Pesce – G. Felloni, Le monete genovesi.
[126] Nonché autore di una storia della guerra civile del 1575 a Genova. Cfr. R. Savelli, La repubblica oligrachica, p. ????
[127] Inventione, p. 154., alla data del 5 giugno 1587.
[128] Alcuni esempi di due decenni successivi, tratti stavolta non dalla diaristica, ma dalla documentazione d’archivio: ASGe, Rota criminale, 9, “Actorum MDCXVI”. Alla data del 3 febbraio 1616 si leggono le deposizioni a discarico di Geronimo De Franchi di Federico, arrestato da un bargello (ubriaco, secondo i testimoni) perché, avendogli strappato una cintura durante la perquisizione, quello lo ha minacciato di far querela alla Rota. Al 4-5 febbraio risalgono invece le deposizioni a discarico di Gio. Gioacchino Da Passano, arrestato all’uscita da una festa in casa Lomellini. Il bargello ferma un gruppo di patrizi. Durante la perquisizione, quando il bargello gli avvicina la lanterna vicino alla faccia, Gio. Gioacchino esclama: “Casso ascondi quel lume”. Il bargello procede ad arrestarlo.
[129]Un altro esempio tratto da ASGe, Rota Criminale, 9, alla data dell’8 giugno 1616. Un Vivaldi, incarcerato per offese al bargello e ai birri nel corso di una perquisizione nel suo domicilio, dichiara che “doppo fatta la diligenza et visto che non vi era in soa casa ne vi si faceva cosa che men degna fu a esso m[agnifi]co cons[titu]to da un fameglio domandata la manchia, o qualche cosa da bere et essendo sul taulero delli gittoni ne prese doi, o tre e gli cachio con la mano a esso famiglio per aria ma però non per dispregio loro ne della giustitia”. Vivaldi sostiene che il bargello era salito in casa “e contendeva con le donne et che loro parlava indiscretamente li disse che non stava bene fosse andato dove erano figlie et che se si passava cosi discortese lo farebbe castigare, ne disse contro essi famegli parola alcuna minatoria ne d’insolenza ne meno discortese ne meno gli impedi che facessero l’ufficio loro anzi parlandoli con parole piene d’ogni cortesia gli portò quella riverenza che si conveniva dandoli la casa piana”.
[130] Inventione, p. 84, alla data del 26 luglio 1585. Mandante dell’agguato sarebbe Ottavio Imperiale (“per havergli fatto mote forfanterie”), un cui staffiere viene fatto arrestare dalla Rota pochi giorni più tardi assieme all’organizzatore dell’aggressione, Battista Genochio. Ma quest’ultimo dev’essere rilasciato per insufficienza di prove. Ivi, pp. 86-87.
[131] Inventione, p. 51, 7 luglio 1584.
[132] Inventione, p. 182, 6 febbraio 1588.
[133] Inventione, p. 1; 14; 17; 87-100. Antoniotto Lomellini è il personaggio sospettato di informare Salvago.
[134] Inventione, p. 224; 226.
[135] Sul duello e le problematiche relative cfr. V. K. Kiernan, Il duello; e per l’area francese J.-F. Billacois, Le duel dans la société française des XVIe-XVIIe siècles; P. Brioist, H. Drévillon, P. Serna, Croiser le fer. Ma risulta difficile trovare riscontri genovesi tanto alle teorizzazioni quanto alle pratiche della società nobiliare francese.
[136] Inventione, p. 22.
[137] Inventione, p. 32, alla data del 5 febbraio 1584.
[138] Inventione, p. 73.
[139] Inventione, p. 88.
[140] Inventione, p. 155.
[141] Inventione, p. 235.
[142] Inventione, p. 237¸240. Si era inizialmente sparsa la notizia che uno dei fratelli fosse rimasto ucciso.
[143] Si veda A. Roccatagliata, Annali della Repubblica di Genova dall’anno 1581 all’anno 1607, p. 63: “[l’esecuzione di Salvago] seguì con disgusto universale, perché il principio del bando del Salvago nasceva da cosa leggiera e più da persecuzioni che da altro. Questo venne significato dalla novità seguita dopo alcuni pochi giorni che seguì la detta morte, essendo stato posto di notte tempo in piazza Doria all’incontro della casa di Nicolò Doria, un cataletto coperto di panno nero con due torchie parimenti nere con alcune lettere sopra di esso, le quali significavano il Doria essere stato causa della morte del Salvago, soggiungendovi che il sangue innocente caderia sopra di lui, con altre simili parole”.
[144] Inventione, p. 169, alla date del 26 ottobre 1587. Presso Crocefieschi Massa fucila otto abitanti di Mongiardino e Busalla (feudi imperiali) e cerca poi di occultare l’eccidio bruciando i cadaveri.
[145] Racconto delle cose successe in Genova, c. 15v, alla data del 19 novembre 1600.
[146] Racconto delle cose successe in Genova, c. 178v, 186r, 190r., alle date del 2 maggio e del 6 settembre 1610. Senarega muore per le ferite dopo alcuni giorni. Leonardo De Franchi e i fratelli si costituiscono in carcere. Ma successivamente il solo Leonardo viene condannato all’esilio, in base alla legge dei biglietti, sulla quale vedi infra.
[147] Racconto delle cose successe in Genova, c. 178v-179r, alla data del 24 gennaio 1610. L’assassino per onore e legittima difesa, un ferrarese, figlio di un noto giocatore d’azzardo, si mette rapidamente in salvo.
[148] Racconto delle cose successe in Genova, c. 197r, alla data del 13 settembre 1610
[149] Pallavicino dà ampia notizia dell’origine del provvedimento, in Racconto delle cose successe in Genova, c. 123v: “[1607] … à 8 d.o [gennaio] Giovedi. Nel Conseg[liet]to fù longamente discorso de’ i modi, che seguono hora alla Città con archibuggi, e con si poco rispetto, e timore, et audacia ardiscono li huomini di fare il male, che à loro salta in capriccio; fù dato tempo à considerare li rimedij per poterli ponere in atto. […] [124r] à 11 febraro. […] In d[ett]o Consig[liet]to si trattò di nuovo di trovare qualche riparo à disordini, e mali, che tuttavia seguono alla Città, e fù preso il parere da tutti li congregati di uno in uno, et furono dette molte cose, et raccordati molti rimedij, ma niuno piacque come uno raccordato, quale fù poi approvato con 97 voti favorevoli, et fù, che ogni principio di mese nel Consig[liet]to primo congregato in presenza de doa Coleggi, dinanzi al Duce fusse posta una cassetta, nella quale un per uno dovesse accostarsi, et ponere in essa un biglietto di carta scritto, ò non scritto come più li fossi piacciuto, nel quale ogn’uno dovessi scrivere il nome di chi riputavano dovessi essere quiete della Rep[ubli]ca che se ne dovesse andare rilegato per due anni in quella parte, che da due Coleggi li fosse assegnata con obligo di dover dare s 2000 d’arg[en]to di sigortà di osservarlo, con conditione, che non faccendolo resti sempre bandito sino che osservi il Confine di essi due anni, e colui, che haverà 4 biglietti almeno, che lo nominino debba di subito essere posto sotto voti, et ottenendo li due terzi resti come si è detto [124v] rilegato, prescrivendo à tale legge il termine solo del presente anno. […] à dì 15 d.o [febbraio 1607]. Fù anco approvato in d[ett]o Consig[li]o la legge passata già in Consiglietto nominata il Ostracismo, che si doverà fare ogni principio di mese contro quelli che vogliono potere fare ogni eccesso senza che [125r] si possa mettere in chiaro.
a dì 17 febr[ar]o [1607] sabbato
Nel Consig[liet]to fù posta in atto la legge di d[ett]o Ostrascismo, et ogn’uno diede il suo biglietto, et frà quelli che andarono sotto balle restarono tre di essi rilegati per doi anni ne paesi, che piacerà à Coleggi di assignarli, escluso però le Isole, e furono essi Gio. Antonio Spinola D. Gasparis, Claudio de Marino q. Cosmi, Luiggi Centurione q. Barnabae.
[150] A. Spinola, Ricordi, voce ‘Ostracismo’. Cito dall’esemplare conservato in BUG, Manoscritti, B.VIII.26.
[151] Spinola era contrario all’uso del termine ‘discoli’ per designare gli esiliati in base alla legge dei biglietti, ritendendo che tale definizione connotasse eccessivamente di infamia il provvedimento. Il suo auspicio non venne ascoltato: le fonti riportano l’uso corrente di ‘discoli’ e addirittura ‘legge del discolato’.
[152] C. Bitossi, ‘De Marini, Claudio’.
[153] [datare la legge della pubblica voce e fama!!!!!!!]
[154] A. Schiaffino, Memorie di Genova, cc. 159-159v, 160v. Il nome di Rodrigo Passaggi viene debitamente cancellato dal Liber nobilitatis. L’unico beneficio che la falsa nobiltà procura al malfattore è la grazia di scambiare il cappio della forca con la mannaia. La “compagnia grossa di ladri” viene scoperta nel novembre 1637; la notizia dell’esecuzione del Passaggi è riportata sotto il 22 aprile 1638. Un precedente di falso patrizio malfattore si trova in Inventione, p 170, alla data del 29 ottobre 1587: viene impiccato al Molo come ladro un Ascanio “che si faceva chiamare di parentado di Spinola, […] costui fu già un tempo figlio tenuto di Monsignor Spinola de Recardini, ma poi venendo a morte la madre che lo fece, dicesi che lassiò che costiu era figlio di un altro e non di detto Monsignor”.
[155] A. Schiaffino, Memorie di Genova, c.100v, all’anno 1624, senza ulteriore precisazione. Il Calvi è capo di una di “tre compagnie di monetarii” scoperte dal governo. Condannato alla relegazione, evade comunque dal carcere.
[156] A. Schiaffino, Memorie di Genova, c196r-196v, alla data del febbraio 1647. Franceschetto Cattaneo finisce discolo per due anni, mentre Raffaele Vernazza e Gio. Batta Pallavicino, rei di “tozar moneta” (cosa che evidentemente Cattaneo non ha fatto), sono condannati, rispettivamente in gennaio e in aprile, alla galea; Pallavicino si vede commutata la condanna a vent’anni di carcere in torre, trasformati qualche tempo dopo nell’esilio perpetuo. Nulla dice invece Schiaffino della sorte di Vernazza.
[157] A. Schiaffino, Memorie di Genova, c. 163v, alla data del 18 ottobre 1638. La vittima è Gio. Batta Pastore, assalito da Felice Pallavicino con quattro sicari, tra i quali “un certo Sestri, Dottore de leggi”. Il malcapitato riceve sessanta ferite.
[158]Sulla guerra di Castro, il suo sfondo, e i personaggi romani e genovesi che vi vennero coinvolti si veda C. Costantini, Fazione urbana. Si attende la sistemazione definitiva di questa ricerca.
[159] A. Schiaffino, Memorie di Genova , c.168v, alla data del 7 febbraio 1640.
[160] Inventione , p. 40, alla data del 20 aprile 1584: Carlo Spinola q. Francesco è arrestato per avere, a quanto sembra, incarcerato in casa propria “uno che era andato per mazzarlo per ordine di Benedetto Lomellino Chiatino, havendo costione fra di loro”. Si può sospettare che Spinola conducesse la sua indagine privata ricorrendo alla tortura. Ivi, p. 40, alla data del 21 aprile 1584, Pallavicino riferisce che Agostino Pinelli di Alessandro avrebbe incarcerato un tintore per farsi consegnare “certe robbe di un suo debitore”.
[161] A. Schiaffino, Memorie di Genova, c. 110r, alla data del 4 gennaio 1626.
[162] A. Schiaffino, Memorie di Genova, cc. 112v-113r, 1627, senza data. Il marchese di Strevi è ferito nel soccorso e finisce in carcere. A Doria toccano gli arresti domiciliari.
[163] A. Schiaffino, Memorie di Genova, c. 144v, alla data del 17 marzo 1635.
[164] A. Schiaffino, Memorie di Genova, c. 157v, alla data del 27 luglio 1635.
[165] In ASGe, Archivio Segreto, 1570-1572, si trova abbondanza di materiale al riguardo: non solo la maggior parte degli elenchi dei candidati all’esilio, ma numerose lettere anonime e relazioni degli Inquisitori di Stato sui disordini cittadini.
[166] ASGe, Archivio Segreto, 1571, doc. 233, relazione dei Protettori di San Giorgio, 25 maggio 1646; nello stesso fascicolo si veda anche la relazione degli Inquisitori di Stato dell’11 maggio precedente.
[167] ASGe, Archivio Segreto, 1572, doc. 326, avvisi letti al Senato, 2 settembre 1648; doc. 391, lettera anonima letta al Senato l’1 ottobre 1648.
[168] Il Genesio Noceto di fine Cinquecento è menzionato in Inventione, passim; l’omonimo risulta coinvolto nei disordini avvenuti a Genova nei mesi seguenti la rivolta antiaustriaca del 1746, e finisce impiccato come reo di ribellione.
[169] ASGe, Manoscritti, 676, cc. 110r-110v, alla data del 14 gennaio 1653 pubblica voce e fama per l’attentato al bargello Pantalino Massa. Sono chiamati in causa tre patrizi e un chierico.
[170] Si veda qualche esempio supra.
[171] Inventione, p. 18, 20, 38. Il 28 ottobre 1583 Orso con i suoi uomini sorprende a Sestri un patrizio bandito a vita, Gio. Stefano Raggio; nella sparatoria che segue i birri uccidono non solo il Raggio, ma anche due marinai. Il 12 novembre il Senato fa incarcerare il bargello. Ma a metà marzo lo ritroviamo all’opera in città. Ivi, p. 94, 103, alle date del 22 settembre e del 14 novembre 1585, Pallavicino riferisce il caso del bargello Baitano, che uccide un bandito evaso dalle carceri; il Senato lo fa arrestare perché sospetta che abbia abbattuto il fuggitivo a sangue freddo.
[172] Inventione, p. 154, alla data del 10 giugno 1587.
[173] Inventione, p. 227, alla data del 27 maggio 1589. Freddamente cronistico il commento di Pallavicino: “Hoggi al Ponte di Bisagno è stato tagliato la testa a uno di birri, il quale havea amazzato uno, e tagliatola li coglioni a uno marito di una sua Donna, havea poi fatti molti altri mali, era persona agiata di beni di fortuna”.
[174] ASGe, Senato, Diversorum Collegii, 111, 4 marzo 1655. Gio. Giacomo Brignole q. Gio. Batta era stato arrestato nel 1648 per porto di pugnale e coltello illeciti e condannato a quattro anni di bando; nel 1651 era stato condannato alla pena capitale, commutata in esilio perpetuo, e alla confisca dei beni per l’uccisione del bargello Bartolomeo Pezzi. Con la remissione della pena riottiene anche i beni.[vd di chi è parente: per caso fratello di Gio. Carlo Brignole?]
[175] ASGe, Archivio segreto, 1571, doc. 226, 3 ottobre 1646. La menzione di Lorenzo Cattaneo si trova in una relazione degli Inquisitori di Stato, i quali segnalano anche la condotta criminale dell’abate Fossa e di un figlio di Geronimo Ferretto. Ma ivi, doc. 169, 19 febbraio 1646, anche un’altra segnalazione, a carico di Cristoforo Centurione e Giannettino Odone, che sembra paghino i birri per portare impunemente altri, ma si fanno a loro volta pagare da plebei che chiedono la loro intermediazione per ottenere lo stesso. Giannettino Odone, già menzionato nel testo, sarà doge nel 1677-1679.
[176] ASGe, Archivio segreto, 1572, doc. 337, 17 agosto 1648, lettera anonima. Tra i gentiluomini “quali danno il rollo” [riferimento ironico alla licenza di portar armi concessa dal governo], oltre ai personaggi citati, si allude genericamente ad “altri che fanno portar l’armi à tutti gli artigiani della n[ost]ra Città, et un giorno ne seguira qualche inconveniente notabile”.
[177] ASGe, Senato, Diversorum Collegii, 109, doc. 363, 24 luglio 1654: “Contra Baricellos Civitatis et alios”.
[178] ASGe, Archivio segreto, 1573, doc. 86, 22 ottobre 1649, esperienza della pubblica voce e fama per l’attentato al bargello Vacarino. Nei biglietti sono menzionati Carlo e Ambrogio Di Negro, Carlo Lomellino (figlio di un procuratore), Marco Doria di Stefano. Ma ivi, doc. 70, 23 agosto 1649, si trova una relazione degli Inquisitori di Stato del 18 agosto relativa ad un altro scontro tra giovani nobili e bargelli e birri presso San Siro. Alcuni dei personaggi coinvolti erano gli stessi, come Ambrogio e Carlo Di Negro; ma troviamo menzionati, insieme ad altri, anche Gaspare Squarciafico e un suo fratello, sui quali vedi infra nel testo e nelle note. Ivi, doc. 91, 3 novembre 1649, l’esperienza della pubblica voce e fama viene reiterata a proposito dell’attentato ai bargelli Vacarino e Oliverio: in questo caso sono menzionati Gio. Giacomo e Gio. Vincenzo Imperiale q. Francesco Maria, nobili “vecchi” di lignaggio illustre.
[179] ASGe, Archivio segreto, 1573, doc. 86, 22 ottobre 1649, allegati.
[180] Ivi, allegato. L’anonimo aggiungeva: “L’istesso [cioè mandare in esilio] dico che si faccia di alcuni del popolo”.
[181] ASGe, Archivio segreto, 1656, doc. 18, “Relazione con diverse approvazioni circa il ben esercitare la giustizia Criminale”, marzo 1651. [vd fotocopie]
[182] ASGe, Archivio segreto, 1570, doc. 46, 4 settembre 1643, esperienza della legge dei biglietti: Cattaneo risulta nominato otto volte, con identificazioni diverse (Gio. Francesco dell’ill.mo Cattaneo, Gio. Francesco Cattaneo del’ill.mo, il figlio maggiore dell’ill.mo Gio. Filippo Cattaneo, Gio. Francesco). In quel momento il padre faceva parte dei Collegi; Gio. Filippo Cattaneo……[inserire notizie su di lui].
[183] ASGe, Rota Criminale, 1103, ‘1792. Processo contro il M. Stefano Durazzo per Parricidio’. L’omicidio di Pietro Durazzo, con un colpo di pistola sparatogli alla testa a bruciapelo nella sua stanza, presenta le caratteristiche di un caso di cronaca nera assai moderno: un figlio di cattivi costumi e di pessima fama, per giunta con precedenti per percosse nei confronti di una fantesca, e in urto col genitore; un padre anziano, incline a lesinare denaro a un figlio scialacquatore, sposatosi tardivamente in seconde nozze con una donna molto più giovane e in procinto di fare testamento a suo favore; la scomparsa dell’arma del delitto, invano cercata dagli inquirenti; la mancanza di un testimone oculare, anzi la contraddittorietà di alcune testimonianze, rese e poi ritrattate. In definitiva, a portare alla condanna di Stefano Durazzo all’ergastolo è l’impossibilità di individuare un sospettato e un movente più plausibili. Stefano Durazzo morì il 22 settembre 1827; cfr. L’archivio Durazzo marchesi Gabiano, p. 636.
[184] Trattato dell’educazione della gioventù nobile. Di Nifrano Cegasdarico. Parte prima. MDCCL, manoscritto acquistato sul mercato antiquario dal compianto professor Nilo Calvini, e lasciato in legato alla biblioteca civica di Sanremo. Del testo chi scrive sta preparando l’edizione.
[185] Si trovano conservati in ASGe, Archivio Segreto, 1640 A-Z, una serie di buste nelle quali i biglietti pervenuti all’attenzione dei Collegi sono stati raccolti in epoca non accertata, estrapolandoli dalle collocazioni archivistiche originarie. Questo rende spesso difficile la datazione dei ricordi, che non sempre presentano riferimenti temporali. Questa fonte è stata a più riprese utilizzata come spunto per rievocazioni colorite di fatti di costume dell’antico regime genovese. Si veda invece quali prospettive alla ricerca essa offra in E. Grendi, Lettere orbe.
[186] Anche questo studio è nato da una sollecitazione di Franco Croce Bermondi, alla quale si associò Franco Vazzoler: nel caso, la sollecitazione a partecipare al convegno chiabreriano di Savona del novembre 1988. È stato pubblicato negli atti del convegno (La scelta della misura. Gabriello Chiabrera: l’altro fuoco del barocco italiano. Atti del Convegno di Studi su Gabriello Chiabrera nel 350° anniversario della morte. Savona, 3-6 novembre 1988, a cura di F. Bianchi e P. Russo, Genova, Costa & Nolan, 1993, 75-103) corredato della sola prima appendice, alla quale qui si affiancano anche le altre tre originariamente previste. Proprio sulle appendici vorrei richiamare l’attenzione. L’interesse della relazione di Marc’Aurelio Lomellini sulla questione dei bussoli savonesi mi pare evidente. Sorprende, anzi, che le vicende del patriziato savonese, e dei patriziati e notabilati degli altri centri del dominio di Terraferma della Repubblica, abbiano suscitato così scarso interesse. La documentazione utile, verosimilmente da cercare nel fondo Senato dell’Archivio di Stato di Genova (ma non solo in quello, ovviamente), promette di riservare sorprese. Quanto al piccolissimo esercizio di filologia sui due testi della nota lettera di Ansaldo Cebà e Lazzaro Pichenotti al Senato, mi pare ne risulti che l’orgoglioso repubblicanesimo ostentato da Cebà nel testo della lettera andato alle stampe fosse il risultato di un’attenta revisione del documento originario, assai più prudente.
[187] Per il quadro della storia genovese dell’epoca rimando a Costantini, La Repubblica di Genova; e per l’evoluzione delle strutture amministrative genovesi a Assereto, Dall’amministrazione patrizia.
2 Sulle vicende del porto di Savona cfr. Noberasco, Il porto di Savona; Cerisola, Storia del porto; e la recente messa a punto di Assereto, Porti e scali.
3 Cfr. ASGe, Mss Biblioteca 120: 248.
[190] Per le notizie biografiche sul Chiabrera mi sono basato sulla voce del Dizionario Biografico degli Italiani curata da N. Merola; ad una nuova biografia del poeta sta ora lavorando Giovanni Amoretti.
[191] Su Andrea Spinola mi permetto di rinviare all’introduzione curata da chi scrive ad A.Spinola, Scritti scelti, dove si trovano riferimenti bibliografici ed archivistici sul personaggio; sul Cebà cfr. in generale Costantini, La Repubblica di Genova e il suo precedente La ricerca; e in particolare Fenzi, Una falsa lettera; Ortolani, Cultura e politica ; Vazzoler, La soluzione tragica; Reale Simioli, Ansaldo Cebà. Su Giulio Pallavicino cfr. Inventione di Giulio Pallavicino.
[192] Oltre a Costantini, La Repubblica di Genova, sul 1575 e le “Leges Novae” cfr. Savelli, La Repubblica oligarchica.
[193] Cfr. Delumeau,Vie économique et sociale; Id., L’alun de Rome. Esempio di provinciali liguri arrivati grazie al servizio della finanza pontificia e alla parentela cardinalizia i Costaguta di Chiavari, ascritti al patriziato genovese nel 1628. Sulle ascrizioni cfr. Nicora, La nobiltà genovese.
[194] Sull’istruzione superiore a Genova cfr. Costantini, Baliani; i lavori di G.Cosentino ripresi in Id., Il Collegio gesuitico; e Rotta, La favolosa antichità. Sul collegio dei giureconsulti cfr. Savelli, Diritto e politica.
[195] Su questi temi cfr. Savelli, Potere e giustizia; Doria-Savelli, “Cittadini di governo”; Assereto, Dall’am-ministrazione patrizia.
[196] Una recente interpretazione della vicenda istituzionale genovese imperniata sul rapporto tra norma e prassi (ma di fatto basata su una documentazione, neppure troppo estesa, relativa soltanto alla norma) è Petracchi, Norma ‘costituzionale’.
[197] Sulla riorganizzazione amministrativa del Dominio cfr. Calcagno, La riforma istituzionale e Bitossi, La nobiltà genovese.
[198] Cfr. Assereto, Dall’amministrazione patrizia.
[199] Il testo del decreto istitutivo della Giunta, noto al momento solamente in una copia settecentesca (in ASGe, Archivio Segreto, 20) è parzialmente pubblicata in Bitossi, Personale e strutture, 209. Sul problema dei confini cfr. in generale Costantini, La Repubblica di Genova e Assereto, Dall’amministrazione patrizia.
[200] Cfr. Gasparini, Genova, la Spagna e il Finale; Costantini, La Repubblica di Genova.
[201] Sul confronto tra queste due spinte negli anni ‘40 del Settecento cfr. Bitossi, “Per evitare la grande sciagura”.
[202] E per gli osservatori esterni sorprendente: sarebbe curioso mettere in fila tutte le profezie di sventura sulle sorti della Repubblica di Genova nel corso dell’età moderna.
[203] Cfr. Cerisola, Storia di Savona, 261.
[204] Cfr. Torteroli, Storia del Comune di Savona, 370. Sul tema della partecipazione popolare alla difesa della libertà cittadina, anche in vista di una riacquisizione di potere interno, cfr. Luzzati, Una guerra di popolo.
[205] Cfr. Cerisola, Storia di Savona.
[206] Cfr. Grendi, Introduzione alla storia moderna della Repubblica.
[207] Si cfr. però almeno Bruno, Antica nobiltà savonese. Il cronista savonese Abate elencava per il pieno Cinquecento 119 appartenenti alla nobiltà: 5 duchi e conti, e 114 “nobili e viventi di larghe rendite”: Cerisola, Storia di Savona, 271.
[208] Cfr. Guelfi Camajani, Il “Liber Nobilitatis Genuensis”. Sulle ascrizioni, oltre al già citato Nicora, La nobiltà genovese, cfr. Doria-Savelli, “Cittadini di governo”. I dati che seguono sono tratti da Nicora.
[209] L’elenco dei candidati è riportato in ASGe, Mss 859.
[210] ASGe, Senato, Litterarum: 577; gli Anziani di Savona ai Collegi, Savona 1599 maggio 28. Anziani in carica erano Antonio Marchese, priore, Gio.Luigi Gavotto, Nicolò Monleone, Gio.Geronimo Nano, Nicolò Grasso, Antonio Lamberti, e Giorgio Crema, il quale ultimo non sottoscrisse la lettera.
[211] ASGe, Senato, Litterarum: 577; Marco Aurelio Lomellino ai Collegi, Savona 1599 agosto 21. I promotori della protesta nobiliare erano Simone Rocca, Paolo Spinola, Giulio Bosco, Gio.Batta Ferrero e Camillo Grasso; di questi Lomellino osservava: “hanno […] fatto il personaggio e fatto tante diligenze che han sdegnato quelli de l’altri bussoli”.
[212] ASGe, Senato, Litterarum: 577; allegato alla lettera di Marco Aurelio Lomellino ai Collegi, Savona 1599 agosto 21. La prima rosa di candidati comprendeva Filippo Pavese, Paolo Geronimo Gavotto, Lorenzo Bosco, Nicolò Cassinis, Paolo Bernissone e Francesco Grasso. Anche per l’immissione nel bussolo dei mercanti le aspettative del Lomellino vennero in parte disattese: la rosa finalmente mandata in ballottaggio al Consiglio di Savona comprendeva Giulio, Stefano e Gio.Francesco Polero, Leonardo Abate, Stefano Faia, e Francesco Boglia (o Boggia); secondo Lomellino, Boglia poteva essere candidato per il bussolo degli artigiani, e Faia non veniva menzionato.
[213] ASGe, Senato, Litterarum 577: Marco Aurelio Lomellino ai Collegi, Savona 1599 ottobre 13. Mandanti dell’attentato al Crema sarebbero stati i fratelli Gavotto o i fratelli Grasso “tenuti huomini vindicativi”. “Resta tanto difficile – lamentava il Lomellino – a cavar di bocca le cose a questi savonesi che è un travaglio eccessivo”. Autori della dimostrazione contro il Castello (al quale veniva rinfacciato di essere stato un tempo schiavo dei turchi) i giovani nobili radunati nella loro “loggetta” in piazza della Maddalena: Alessandro Ferrero, Vincenzo Cuneo, Alessandro Pavese, Giulio Salinero (il letterato), Lorenzo Bosco, Paolo Bernissone, Marco Antonio Niella, Gio.Giacomo Bisio, Paolo Geronimo Rocca. Tutti riuscirono a rifugiarsi in luoghi sacri per sottrarsi all’arresto; tranne Alessandro Ferrero e Giulio Salinero che vennero incarcerati assieme ad Angelo Gavotto.
[214] Per i podestà cfr. Varaldo, Serie dei podestà di Savona.
[215] L’originale della lettera difensiva dei due commissari al Senato si trova in ASGe, Senato, Litterarum: 577, i Commissari delle fortezze di Savona al Doge e Collegi, Savona 1599 agosto 13. La lettera fu pubblicata dal Cebà nella sua raccolta di Lettere d’Ansaldo Cebà ad Agostino Pallavicino (Pavoni, Genova 1623); ma il testo stampato differisce dall’originale, oltre che per una ripulitura lessicale, per una maggiore sostenutezza di tono e per la sistematica eliminazione dei riferimenti al Senato come al “Principe”: col risultato complessivo di accentuare il tono ‘repubblicano’ e protestatario della lettera.
[216] Cfr. M. Gentile [Diario, 1573-1575], Biblioteca Giuridica “P.E.Bensa”, Genova: Mss 92.4.10: 24-25. L’annotazione è di fine novembre 1573; Gentile proseguiva: “alla fine hanno eletto Giacomo Spinola, che fu delli Signori di Casareggio che hora è in poca fortuna, il quale accetterà e gl’anderà”. Assieme a lui venne eletto Antonio Giustiniani Bona.
[217] Alcune considerazioni in merito in Bitossi, Famiglie e fazioni.
[218] Sui quali cfr. Bitossi, Personale e strutture.
[219] Cfr. ASGe, AS 1651, doc 66: 1593 marzo 15, “Relazione riguardante le cose necessarie per la cittadella di Savona”.
[220] Cfr. ASGe, AS 1651, doc. 49. Nella rocca si trovavano 31 soldati italiani e 35 tedeschi, da rinforzare con altri 8 italiani e 4 tedeschi; nella cittadella 41 italiani e 47 tedeschi, da rinforzare con 4 italiani e 4 tedeschi.
[221] Cfr. ASGe, AS 1652, doc. 9. La missione dei due commissari era motivata dal desiderio di mettere in assetto di difesa Savona e la riviera di Ponente nell’eventualità di una ripresa delle ostilità tra Francia e Spagna. L’assassinio di Enrico IV, nel maggio 1610, come è noto fece cessare i rumori di guerra. L’Assereto e il Doria ricevettero le lettere patenti l’11 aprile, giunsero a Savona il 16, rientrarono il 22.
[222] Cfr. il testo del decreto e altre notizie sul contributo dei savonesi alla difesa della Repubblica in ASGe, Mss Biblioteca 122: 277-284. Sul risveglio navalista cfr. Costantini, La Repubblica di Genova.
[223] Nella stampa: gl’inferiori verso i superiori: né ci siam turbati delle.
[224] Nella stampa: ma l’habbiam.
[225] Nella stampa: saremmo.
[226] Nella stampa: non riconosce fallo.
[227] Nella stampa: che stimiamo dubie.
[228] Nella stampa: teniam per certe.
[229] Nella stampa: alquanto.
[230] Nella stampa: c’ha data cagione di così rigorosa risposta.
[231] Nella stampa: qualch’informatione.
[232] Nella stampa: fosse.
[233] Nella stampa: castigati.
[234] Nella stampa: giudichi.
[235] Nella stampa: poiché.
[236] Nella stampa: per aventura..
[237] Nella stampa: fin a tanto.
[238] Nella stampa: ingannati..
[239] Nella stampa: ch’elle n’han fatto.
[240] Nella stampa: et intorno al.
[241] Nella stampa: tutto che non facciamo gran fondamento, diciam nondimeno.
[242] Nella stampa: da i due Collegi.
[243] Nella stampa: le ragioni nostre.
[244] Nella stampa: quantunque.
[245] Nella stampa: persuase.
[246] Nella stampa: Governatori.
[247] Nella stampa: E questo.
[248] Nella stampa: che noi movemmo.
[249] Nella stampa: nostro dolore.
[250] Nella stampa: dolore.
[251] Nella stampa: punge.
[252] Nella stampa: in.
[253] Nella stampa: i nostri superiori.
[254] Nella stampa: di poter.
[255] Nella stampa: se egli.
[256] Nella stampa: aviene.
[257] Nella stampa: poco saviamente farebbe.
[258] Nella stampa prosegue: ciò che gli fosse piaciuto.
[259] Nella stampa: divota.
[260] Nella stampa: superiore.
[261] Nella stampa: noi crederemmo.
[262] Nella stampa: superiore.
[263] Nella stampa: si conviene.
[264] Nella stampa: a delitto.
[265] Nella stampa: delitto.
[266] Nella stampa: ciò.
[267] Nella stampa: superiore.
[268] Nella stampa: ancora.
[269] Nella stampa: non solamente di sentirci riprovare quel c’habbiam fatto, ma d’udirci anche citar come rei dinanzi al lor tribunale. Noi però.
[270] Nella stampa: correggerne.
[271] Nella stampa: quando vorranno, a ricever il rimanente, che la loro lettera ne minaccia.
[272] Nella stampa: della persona.
[273] Nella stampa: la patisca insieme con noi la Republica.
[274] Cfr. L. ALFONSO, Aspetti della personalità del Card. Stefano Durazzo Arcivescovo di Genova (1635-1664), in « Atti della Società Ligure di Storia Patria » (d’ora in poi ASLSP), n.s., XII/2 (1972), pp. 449-516, segnatamente p. 498.
[275] Cfr. Archivio di Stato di Genova (d’ora in poi ASG), ms. 624; Archivio Storico del Comune di Genova (d’ora in poi ASCGe), Manoscritti Brignole Sale, 106.B.17, 106.B.2. Devo queste informazioni, e quelle relative all’attività del Raggio come giureconsulto, alla cortesia dell’amico Rodolfo Savelli, che ha in corso da tempo un’ampia ricerca sui professionisti del diritto e i burocrati della Repubblica.
[276] Cfr. ASG, Archivio Segreto, n. 2090, doc. 4; ASCGe, Manoscritti Brignole Sale, 105.D.7; G. GUELFI CAMAJANI, Il « Liber Nobilitatis Genuensis » e il governo della Repubblica di Genova fino all’anno 1797, Firenze 1965, p. 415, dove sono menzionati i fratelli Gaspare. Gio. Angelo, Carlo e Gio. Bernardo, di età dai 13 ai 6 anni.
[277] Cfr. ASG, Archivio Segreto, nn. 1654 e 1656; ms. 624; Notai ignoti, n. 224; Senato, Diversorum Collegii, n. 107. L’idea di ridurre le spese della Repubblica abolendo la Rota civile di forestieri, nonché una delle due cariche di fiscale, si trova in ASG, ms. 676, c. 491 v., dunque in un appunto privato, tra l’altro uno degli ultimi, in ordine cronologico, dello zibaldone. Ma la finalità della proposta, di « dar sollievo in questa maniera a’ suoi proprij cittadini », aveva come mira non solo la « migliore amministratione della giustitia », ma anche l’impiego di giureconsulti indigeni. E la posizione pubblica di Raggio era stata almeno in un’occasione, nel 1648, fortemente corporativa, cioè difensiva degli interessi dei giureconsulti collegiati, sino al punto da subire una severa sanzione del Senato.
[278] Alla capitazione per la costruzione delle nuove mura, nel 1630, Francesco pagò l’aliquota massima ordinaria di 100 lire: e « rico » lo classificò l’ambasciatore spagnolo de Melo nella sua relazione sul patriziato genovese della primavera 1633 (sulla quale cfr. C. BITOSSI, Il governo dei magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova 1990); nel 1636 Francesco venne tassato, assieme ai fratelli, sempre per una somma delle più alte tra i Raggio; nella capitazione del 1682 Giambattista risultò il secondo dei contribuenti Raggio, con 422.499 lire di imponibile. Cfr. rispettivamente ASG, Camera, n. 2605; Notai antichi, n. 8753; Biblioteca Universitaria di Genova, Manoscritti, B.VI.26.
[279] Incuriosisce la vacanza di un decennio di Francesco dal bussolo del Seminario: era infatti abbastanza frequente che gli ex senatori o procuratori venissero quasi subito reimbussolati, come accadde appunto a Giambattista.
[280] Cfr. ASCGe, Manoscritti Brignole Sale, 105.D.7.
[281] Cfr. G. GUELFI CAMAJANI, Il « Liber Nobilitatis Genuensis » , p. 415; Gian Francesco venne battezzato nella chiesa di San Donato.
[282] Cfr. ASG, Archivio Segreto, n. 899 bis, alla data del 6 ottobre 1651.
[283] Ibidem, n. 903, c. 24.
[284] Cfr. F. CASONI, Annali della Repubblica di Genova nel secolo decimo settimo, Genova 1799-1800, VI, p. 83. La missione « di complimento », come osservò Casoni, era piuttosto tardiva, dal momento che Leopoldo d’Asburgo era stato eletto sin dal 1658. I documenti sulla missione in ASG, Archivio Segreto, nn. 1815, 2549, 2550, 2715, 2719: cfr. V. VITALE, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in ASLSP, LXIII (1934), p. 119.
[285] A questi anni risale in effetti la massima parte del materiale contenuto nel manoscritto.
[286] Cfr. C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Torino 1978, p. 542, dove si segnalano i lavori di Onorato Pastine citati più avanti.
[287] Nel 1633 de Melo aveva classificato politicamente il padre di Giambattista, Francesco, come « republiquista mal afecto ». Tutti i Raggio, del resto, erano collocati su posizioni o repubblichiste o maldisposte verso la Spagna; gli esponenti del ramo più importante della casata avevano sostenuto lo sforzo di Urbano VIII e dei Barberini nella guerra di Castro, che è oggetto di un’ampia ricerca di Claudio Costantini tuttora in corso e di cui si legge un’anticipazione nel contributo dello stesso Costantini a questo volume. Giambattista Raggio confermava perciò un orientamento noto.
[288] Cfr. C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova ; C. BITOSSI, Il governo dei magnifici
[289] Un esempio dell’antispagnolismo virulento di Federici, tratto anch’esso da un testo di circolazione probabilmente ristretta, in C. BITOSSI, Il governo dei magnifici , pp. 241-242. Mi permetto di rimandare una volta per tutte a questo mio precedente lavoro per considerazioni più ampie sugli schieramenti all’interno del patriziato genovese negli anni ‘30-’50 del Seicento.
[290] ASG, ms. 676, cc. 491 v.-492.
[291] Ibidem, cc. 486-486 v. Raggio poneva al primo posto i vantaggi dell’armamento per sostenere il ruolo politico della Repubblica: « 1. Mantiene il dominio de suoi mari, quali ha minor timore di che vengano violati. 2. Accresce di gran via la riputatione della Republica, l’amicitia della quale verrà più stimata, in riguardo delle forze maritime che possiede. 3. Ritiene i principi, o loro ministri e dipendenti, dall’insolentire con strapazzi, mentre conoscono poter da tali forze ricevere qualche commodo, o pregiuditio […] ». Ma non mancava di cogliere le ricadute sulla sicurezza del commercio genovese, il rilancio di attività mercantili e produttive, l’impiego dei patrizi poveri (con un interessante commento politico: costoro « per scarsezza d’impiego ridotti in neccessità fan contrapeso al governo »: il sospetto per i patrizi poveri, tendenzialmente clienti delle grandi casate, dunque spesso e volentieri dei filospagnoli, era anch’esso un cardine del patriottismo repubblichista che era un’ideologia della mediocritas operosa nobiliare), l’effetto moltiplicatore sul rilancio dello scalo genovese.
[292] Ibidem, c. 487 r. Raggio osservava a questo proposito che « 1. Primieramente non potrebbe più godere la Republica dell’opinione di poter in qualche caso far augumento di forze maritime, mentre si fusse già dichiarata impotente a mantenerle. 2. Detta impotenza o converrebbe rifferirla a mancamento di denaro, et in tal modo si verrebbe a manifestare una gran fiacchezza per coprir la quale ogni prencipe si veste d’hippocrisia, perché vi consiste la sostanza dell’essere. 3. O converrebbe rifferirla a leggierezza e disunione, nella consideratione della quale farebbe naufraggio la riputatione della Republica […] ».
[293] Sulle vicende dell’armamento genovese nel Seicento, compresa la questione dell’identità di Cassandro Liberti, la cui Panacea politica, rimasta manoscritta, fu completata nel 1674, mi limito a rimandare a C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova , e ai riferimenti bibliografici pertinenti.
[294] ASG, ms. 676, c. 441 v.
[295] Ibidem, c. 442 r., « Nota di ciò, che dalla Republica si potrebbe operare in ordine ad avantaggiar in Roma i suoi interessi, da’ quali può derivarne poi la sua dignità e stima appresso gl’altri potentati e prencipi ». Per organizzare la fazione genovese, Raggio riteneva « neccessario che la Republica dia a detti cardinali annua provigione pecuniaria, e per mezzo d’essa procuri d’acquistar anche cardinali forastieri; et è certo ch’introdotta questa forma si potrà poi con essa dar direttione a cose infinite e grandi ».
[296] Ibidem, c. 441 v.
[297] Sulla questione delle onoranze regie, che assorbì per alcuni decenni buona parte delle energie della diplomazia genovese, a C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova , pp. 267-282, e alla bibliografia precedente ivi segnalata, si aggiungano D. VENERUSO, La « querelle » secentesca sulla gerarchia del potere internazionale: un memoriale genovese per la corte di Spagna, in Rapporti Genova-Mediterraneo-Atlantico nell’età moderna. Atti del III Congresso Internazionale di Studi Storici, a cura di R. Belvederi, Genova 1989, pp. 447-486, e M. G. BOTTARO PALUMBO, « Et rege eos » la Vergine Maria Patrona, Signora e Regina della Repubblica (1637), in « Quaderni franzoniani », IV/2 (1991), pp. 35-49.
[298] All’ambasciatore di Spagna era stato revocato il privilegio di sedere a lato del doge in chiesa.
[299] Sulla vendita di Pontremoli cfr. G. SIGNOROTTO, Milano spagnola, Milano 1996, pp. 51-57, e particolarmente ID., Il marchese di Caracena al governo di Milano (1648-1656), in « Cheiron », IX (1992), n. 17-18, pp. 135-181. La questione campeggia largamente nella corrispondenza dei diplomatici genovesi in Spagna: cfr. Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi. III. Spagna (1636-1655), a cura di R. Ciasca, Roma 1955; cfr. anche M. GIULIANI, La contesa tra Genova e Firenze per l’acquisto di Pontremoli (1647-1650), in « Bollettino Ligustico per la Storia e la Cultura Regionale », X/1-2 (1958), pp. 55-65.
[300] Sulla missione di Stefano De Mari, oligarca influente di orientamento filospagnolo, più tardi doge della Repubblica (1663-1665), cfr. Istruzioni e relazioni … III , pp. 203-289.
[301] Cancellato: dimostrare.
[302] Segue, cancellato: le doglianze.
[303] Nella sua prima relazione ai Collegi sullo svolgimento dell’ambasceria in Spagna, del 21 febbraio 1652, Stefano De Mari scrisse che verso la fine di maggio del 1650, mentre stava trattando gli affari commissionatigli dal governo, il segretario Pedro Coloma gli aveva esposto le lamentele del re verso la Repubblica, riassunte dal De Mari in dodici punti, « quattro de quali risguardavano le cose di Don Carlo e Giannettino Doria e del Marchese Spinola »: cfr. Istruzioni e relazioni … III , pp. 261-262; 272-273.
[304] Filippo Spinola, marchese di Sesto, figlio del noto condottiero e statista Ambrogio Spinola, marchese de los Balbases.
[305] Gian Francesco Serra q. Geronimo (1608-1656), maestro di campo del re di Spagna: cfr. M. DAMONTE, La famiglia Serra e Gian Carlo Serra, in La Storia dei Genovesi, VIII, Genova 1988, pp. 245, 264, e albero genealogico.
[306] Giambattista De Mari q. Francesco (1592-1661), uno dei principali uomini d’affari genovesi nel regno di Napoli, fu cittadino residente nella capitale del viceregno, e corrispose in tale veste semiufficiale con il governo nel 1624-1626; a Napoli fu poi inviato straordinario della Repubblica nel 1651-1652: cfr. V. VITALE, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in ASLSP, LXIII (1934), pp. 97-98, 100-101. Ma sul personaggio, e in generale sui De Mari a Napoli, cfr. ora A. MUSI, Mercanti genovesi nel regno di Napoli, Napoli 1996.
[307] Don Carlo Doria, duca di Tursi, secondogenito del principe Gian Andrea I Doria, comandante della squadra spagnola di stanza a Genova, grande di Spagna dal 1640.
[308] Rodrigo Diaz de Vivar Hurtado de Mendoza y Sandoval, settimo duca del Infantado, morto senza figli nel gennaio 1657, vicerè di Sicilia dal 1651 al 1655, e prima ancora ambasciatore al pontefice, era passato da Genova diretto a Roma all’inizio di ottobre del 1650: cfr. L. VOLPICELLA, I libri cerimoniali della Repubblica di Genova, in ASLSP, XLIX/2 (1921), p. 265.
[309] Cancellato: giugno.
[310] Su Giannettino Giustiniani, noto esponente filofrancese nel patriziato genovese, e rappresentante del re di Francia presso la Repubblica, cfr. i diversi contributi a Genova e Francia al crocevia dell’Europa (1624-1642), a cura di M. G. Bottaro Palumbo, in « I tempi della storia », n. 2 (1989). A una biografia del Giustiniani sta ora lavorando Barbara Marinelli.
[311] Sull’episodio dei sequestri dei beni dei genovesi ordinati dalle autorità spagnole per rappresaglia contro i provvedimenti presi dalla Repubblica nei confronti di alcuni padroni di barche finalini, oltre alla narrazione di F. CASONI, Annali , pp. 45-56, cfr. C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova , pp. 335-341; G. SIGNOROTTO, Milano spagnola , che, a p. 230, cita il barone di Gramont, inviato dal governatore Caracena a Madrid; ID., Il marchese di Caracena , pp. 159-160. Le trattative diplomatiche per comporre la crisi sono ampiamente documentate in Istruzioni e relazioni … III
[312] Diego Mexía (dal 1627 Diego Felípez de Guzmán), marchese di Leganés, cugino e protetto del conte duca di Olivares, marito di Polissena Spinola, figlia di Ambrogio, marchese de los Balbases.
[313] Cfr. F. GUICCIARDINI, Storia d’Italia, Torino 1971, III, pp. 1866-1867.
[314] Modo di dire popolare e dialettale: sottomettersi; letteralmente: baciare il bastone (« brugo »).
[315] Antonio Ronquillo Briceño (n. 1588), ambasciatore residente a Genova dall’ottobre 1646 al settembre 1650, gran cancelliere di Milano e membro del consiglio di Castiglia: cfr. J. FAYARD, Los miembros del Consejo de Castilla (1621-1746), Madrid 1982 (ed. or. Genève 1979), p. 258; G. SIGNOROTTO, Milano spagnola , all’indice.
[316] Dopo la fine della missione di Ronquillo, l’ambasciata spagnola a Genova venne retta a lungo dal segretario don Diego de Laura.
[317] Cancellato: impiegata.
[318] La scarsa redditività e l’insicurezza degli investimenti genovesi collocati nei domini spagnoli, specie nel regno di Napoli, erano un topico della polemica pubblicistica: cfr. A. SPINOLA, Scritti scelti, a cura di C. Bitossi, Genova 1981.
[319] Il riferimento è alla guerra di Candia, in corso dal 1645. Sui rapporti tra Genova e Venezia in quegli anni cfr. O. PASTINE, Rapporti tra Genova e Venezia nel secolo XVII e Gio. Bernardo Veneroso, in « Giornale Storico e Letterario della Liguria », n.s., XIV (1938), pp. 190-210; 260-266; ID., La politica di Genova nella lotta veneto-turca dalla guerra di Candia alla pace di Passarowitz, in ASLSP, LXVII (1938), pp. 1-154.
[320] Galeotto Pallavicini q. Ascanio e Banetta De Ferrari, ascritto assieme al fratello maggiore Gio. Andrea il 20 novembre 1640; era nato verso il 1617: cfr. G. GUELFI CAMAJANI, Il « Liber Nobilitatis Genuensis » , p. 375. La pratica di ascrizione del Pallavicini si trova in ASG, Archivio segreto, n. 2834, doc. 182.
[321] Cancellato: tre.
[322] Cfr. L. VOLPICELLA, I Libri cerimoniali , p. 268. Il Brégy fu ricevuto dal doge il 17 ottobre 1654. Il personaggio va verosimilmente identificato con Nicolas de Flecelles o Flesselles, conte di Brégy, o Brégis (1615-1689), diplomatico e consigliere di Stato, protetto di Cristina di Svezia, marito della famosa « précieuse » Charlotte de Saumaise de Chasans, dalla quale era per altro separato dal 1651: cfr. L. de SAINT-SIMON, Mémoires, éd. Y. Coirault, Paris 1983-1988, II, pp. 1512-1513; VIII, p. 1199.
[323] C’è qui una certa imprecisione cronologica, perché Anna d’Austria assunse la reggenza alla morte di Luigi XIII, nel maggio 1643. Sulle ostilità nel Tirreno in quegli anni cfr. C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova , p. 335-344; Genova e Francia al crocevia dell’Europa
[324] Cfr. Istruzioni e relazioni … III , pp. 293-330.
[325] Lo Scopesi era uno dei marinai finalini responsabili dell’incidente dal quale aveva tratto origine la crisi tra la Spagna e la Repubblica.
[326] Iñigo Vélez de Guevara y Taxis, conte di Oñate, viceré di Napoli dal 1648 al 1653.
[327] Jacques III Rouxel de Médavy, conte di Grancey (1603-1680), maresciallo di Francia nel 1651.
[328] Cfr. L. VOLPICELLA, I libri cerimoniali , p. 268, che colloca la visita del duca di Mantova al doge il 12 novembre 1654, anziché il 13 come segnalato da Raggio. Barnaba Centurione era feudatario del duca di Mantova in quanto marchese di Morsasco; il suo palazzo genovese si trovava in Strada Nuova, ed era quello originariamente di Nicolosio Lomellino, e ora Podestà: cfr. L. GUASCO, Dizionario feudale degli antichi stati sardi e della Lombardia, Pinerolo 1911, III, p. 1118; E. POLEGGI, Strada Nuova. Una lottizzazione del Cinquecento a Genova, Genova 1972 2, pp. 277-285. Sui Centurione marchesi di Morsasco cfr. Gli archivi Pallavicini di Genova. II. Gli archivi aggregati, a cura di M. Bologna, in ASLSP, n.s., XXXV/2 (1995), pp. 239-251; ed anche C. BITOSSI, Un pittore cappuccino tra i magnifici, in Bernardo Strozzi. Genova, 1581/82-Venezia, 1644, a cura di E. Gavazza, G. Nepi Sciré, G. Rotondi Terminiello e G. Algeri, Milano 1995, pp. 331-336 (ora in ID., Oligarchi. Otto studi sul ceto dirigente della Repubblica di Genova [XVI-XVII secolo], Genova 1995, pp. 45-51). Il palazzo di Carlo Salvago si trovava anch’esso in Strada Nuova, ed era quello originariamente di Baldassarre Lomellino, e ora Campanella. Carlo Salvago era zio di Barnaba Centurione, in quanto fratello della madre Maddalena Salvago.
[329] La missione di Lazzaro Spinola Cebà è documentata da ASG, Archivio Segreto, nn. 1910, 1990, 2185 (dove si trovano i dispacci dello Spinola), 2717. Sul personaggio, feudatario di Masone, cfr. T. PIRLO, Un clamoroso episodio di capitalismo feudale, Genova 1995.
[330] Sulle relazioni tra Genova e l’Inghilterra negli anni ‘50 cfr. C. PRAYER, Oliviero Cromwell dalla battaglia di Worcester alla morte nei dispacci dell’ambasciatore genovese, in ASLSP, XVI (1882); O. PASTINE, Genova e Inghilterra da Cromwell a Carlo II, in « Rivista Storica Italiana », LXVI (1954), pp. 309-347. Raggio traduce il titolo di Lord Protector in « Conte Protettore », espressione che per altro non compare mai nella corrispondenza dei diplomatici genovesi.
[331] Sull’incidente, accaduto a Milano il 13 luglio 1649, cfr. Istruzioni e relazioni … III , pp. 181-203.
[332] Su Francesco Maria Balbi (1619-1704) e i suoi affari, anche in società con il cognato Agostino Airolo, cfr. ora E. GRENDI, I Balbi. Una famiglia genovese fra Spagna e Impero, Torino 1997, passim.
[333] Sulle rivendicazioni della Repubblica di Genova sul mar Ligure cfr. R. SAVELLI, Un seguace italiano di Selden: Pier Battista Borghi, in « Materiali per una Storia della Cultura Giuridica », III/1 (1973), pp. 13-76; C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova , pp. 301-303; ID., Politica e storiografia: l’età dei grandi repubblichisti, in La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova 1992, II, pp. 93-135.
[334] Reggio Emilia.
[335] Cancellato: un de’ suoi figli per hostagio, o pure.
[336] Su Fabio Chigi (e non Ghigi, come scrive il Raggio) cfr. M. ROSA, Alessandro VII, in Dizionario Biografico degli Italiani, 2, Roma 1960, pp. 205-215. Sul cardinale Giulio Sacchetti (e non Sachetti) cfr. C. COSTANTINI, Fazione urbana. Sbandamento e ricomposizione di una grande clientela a metà Seicento, in « Lettere di storia, politica e varia umanità », n. 6 (1996), in particolare pp. 79-84.
[337] La definizione di « navarrini » per indicare i filofrancesi risaliva ovviamente all’epoca delle guerre della Lega. La contrapposizione tra « spagnardi » e « navarrini », come sinonimi di filospagnoli e filofrancesi, proprio negli anni ‘50 venne proposta da Gaspare Squarciafico in M. C. SALBRIGGIO [G. SQUARCIAFICO], Le politiche malattie della Repubblica di Genova, Francoforte (?) 1654.
[338] Su questo importante uomo d’affari, agente e ambasciatore genovese a Milano cfr. E. GRENDI, I Balbi ; sulla documentazione diplomatica pertinente cfr. V. VITALE, Diplomatici e consoli , pp. 56-57.
[339] Sul conte Bartolomeo Arese (1606-1675), presidente del magistrato ordinario del ducato di Milano nel 1641 e del Senato di Milano dal 1660 alla morte, cfr. G. SIGNOROTTO, Milano spagnola , in particolare pp. 146-160.
[340] Don Luis Méndez de Haro (1598-1661), nipote del conte duca di Olivares e principale artefice della politica spagnola dopo la caduta di questi.
[341] Intermediario: cfr. REAL ACADEMIA ESPAÑOLA, Diccionario de la lengua española, Madrid 198420, p. 891: « […] 3. Dicese de la persona que media e intercede para que otra consiga una cosa o para un arreglo o trato […] ».
[342] Raggio ripete l’espressione già citata al § 34.
[343] Ansaldo Imperiale q. Gio. Carlo (1600ca.-1673) fu agente e incaricato d’affari genovese a Madrid dal 1655 al 1659 e dal 1661 al 1663: cfr. V. VITALE, Diplomatici e consoli , pp. 179-180.
[344] Sulla ventilata ascrizione di Mazzarino al patriziato genovese cfr. O. PASTINE, Cromwell, Mazzarino e la nobiltà genovese, in « Genova », XXX/9 (1953), pp. 30-35.
[345] Sottolineato nel testo.
[346] Cfr. L. VOLPICELLA, I libri cerimoniali , p. 270. Si tratta di Bernard du Plessis-Besançon (1610-1670); cfr. L. de SAINT-SIMON, Mémoires , VIII, p. 1626.
[347] La lunga controversia sulle onoranze agli stendardi tra la Repubblica di Genova e i Cavalieri di Malta è documentata, tra l’altro, da ASG, Giunta di giurisdizione, n. 115, « Differenze tra la Rep.ca Ser.ma e la Relligione di Malta, 1614 in 1696 ». La controversia compare largamente anche in Istruzioni e relazioni … III
[348] Su quest’episodio cfr. R. PILLORGET, L’incident franco-génois du 6 novembre 1655, in Genova e Francia al crocevia dell’Europa , pp. 81-95.
[349] Louis de Bourbon, duca di Mercoeur, poi di Vendôme (1612-1669), marito di Laura Mancini, nipote del cardinale Mazzarino, governatore di Provenza.
[350] R. PILLORGET, L’incident franco-génois , fa però notare che Mazzarino aveva ordinato ai consoli di Marsiglia di inviare uno di loro a presentare le scuse alla Repubblica di Genova, ma che i marsigliesi avevano designato un collega uscito di carica, Antoine de Félix, per attenuare l’umiliazione del gesto.
[351] Cancellato: affinché.
[352] Sull’armamento pubblico genovese a metà Seicento cfr. C. COSTANTINI, Aspetti della politica navale genovese nel Seicento, in « Miscellanea Storica Ligure », n.s., II/1 (1970), pp. 207-235; G. CALCAGNO, La navigazione convogliata a Genova nella seconda metà del Seicento, in Guerra e commercio nell’evoluzione della marina genovese tra XV e XVII secolo, Genova 1973, pp. 265-392; lavori ripresi e sviluppati in C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova
[353] Cancellato: affine di m.
[354] La mostra su Bernardo Strozzi inaugurata nella primavera del 1995 a Palazzo Ducale è stata tra gli eventi culturali cittadini di maggior risonanza dell’anno. Il testo qui pubblicato è il contributo, amichevolmente sollecitato da Ezia Gavazza e Giovanna Rotondi Terminiello, al catalogo Bernardo Strozzi. Genova 1581/82 – Venezia 1644, a cura di E. Gavazza, G. Nepi Sciré, G. Rotondi Terminiello e G. Algeri, Milano, Electa, 1995, 331-336. Nel raccogliere la bibliografia sullo Strozzi sono stato aiutato dal collega e amico Alfonso Assini, autore a sua volta di un importante contributo al catalogo, che tengo a ringraziare.
[355] Riprendo lo spunto di partenza da Doria, Un pittore fiammingo. Sulla storia di Genova nel Cinque-Seicento e sul “secolo dei genovesi” cfr. Costantini, La Repubblica di Genova; Carande, Carlo V e i suoi banchieri; Neri, Uomini d’affari e di governo; Ruiz Martin, Las finanzas de la monarquía. Sulla circolazione dell’espressione “secolo dei genovesi”, da Frank Spooner a Fernand Braudel a Ruiz Martín cfr. Ruffini, Sotto il segno del pavone, 15.
[356] Ruiz Martin, Banchieri genovesi.
[357] Per la storia spagnola del periodo cfr. tomas y valiente e altri, La España de Felipe IV.
[358] Cfr. Doria, Un quadriennio critico.
[359] L’espressione “fortezza dell’interesse” venne adoperata dall’intellettuale antispagnolo Federico Federici, sul quale rinvio alla voce curata da chi scrive di imminente pubblicazione in DBI. Sulla cronologia e la scansione dei rapporti tra finanza genovese e monarchia spagnola cfr. ora gli interventi di Giovanni Muto e Arturo Pacini al convegno tenuto a Genova il 10-13 ottobre 1994, Nicolò Doria. Itinerari economici, culturali e religiosi nei secoli XVI-XVII tra la Spagna, Genova e l’Europa, i cui atti sono in corso di stampa nei “Quaderni Franzoniani”.
[360] Cfr. Doria, Investimenti della nobiltà genovese.
[361] L’espressione “costumi cavallereschi” si trova in Andrea Spinola, la cui vasta opera contiene una critica serrata alla trasformazione dello stile di vita dei patrizi. Nelle migliaia di pagine dei suoi Ricordi non c’è traccia di interesse per le cose d’arte; invece, il lusso nell’abbigliamento e nel treno di casa veniva criticato apertamente, ripetutamente e con sferzante ironia, mentre della committenza artistica si faceva appena cenno. Sul personaggio cfr. Spinola, Scritti scelti; Costantini, Politica e storiografia.
[362] Sulla genesi della posizione “repubblichista” cfr. Bitossi, Il governo dei magnifici.
[363] Sui rapporti tra Genova e la corte pontificia cfr. Costantini, Corrispondenti genovesi dei Barberini. Sulla ripresa dei rapporti con la Francia negli anni Trenta del Seicento cfr. Genova e Francia al crocevia dell’Europa (1624-1642).
[364] Su Andrea Spinola cfr. Spinola, Scritti scelti; la citazione di Della Torre è tratta da ASCGe, Mss Brignole Sale 108 A 13.
[365] Di Spinola sappiamo soltanto che commissionò un ritratto a Matteo Semino, e che ebbe una piccola quadreria, della quale non conosciamo però l’inventario; delle preferenze artistiche di Raffaele Della Torre non si ha notizia. cfr. Spinola, Scritti scelti; Savelli, Della Torre, Raffaele.
[366] Cfr. Guasco, Dizionario feudale, III, 1118: Il 21 luglio 1599 Vincenzo I Gonzaga vendette e infeudò Morsasco come marchesato a Barnaba Centurione. Barnaba era stato investito dall’imperatore Rodolfo II, nel 1592, anche del feudo di Fontanarossa, acquistato con alcune terre adiacenti dell’alta val Trebbia da alcuni notabili locali: cfr. Wien, Haus-Hof- und Staatsarchiv, Inventar 38, Band 1, c. 85.
[367] Esempi in Doria, Un pittore fiammingo, in particolare 18-19; Tagliaferro, Di Rubens e di alcuni genovesi.
[368] Cfr. Poleggi, Strada Nuova, 277; e sulle singolarità iconologiche del palazzo cfr. Muller Profumo, Il palazzo di Nicolosio Lomellino. Il palazzo ora Podestà, originariamente di Nicolosio Lomellino, passò a Luigi Centurione tra il 1600 e il 1614, e rimase alla sua discendenza sino al Settecento. Poiché Barnaba Centurione, padre di Luigi, morì il primo febbraio 1602, è verosimile che la data dell’acquisto vada spostata oltre questo termine. Luigi sposò Maddalena Salvago, figlia di Enrico q. Accelino. Questi, senatore nel 1605-1606 e per qualche mese nel 1625, abitava anch’egli in Strada Nuova, nel palazzo costruito da Baldassarre Lomellino, ora Campanella, da lui acquistato nel 1587. Cfr. BCB, Mss rari B.VIII.28, 204-205; Poleggi, Strada Nuova, 221. Enrico Salvago era cognato di Gian Stefano Doria, che lasciò i nipoti Carlo e Nicolò Salvago eredi di gran parte delle sue sostanze: cfr. Levati, Dogi biennali […] dal 1528 al 1699, 12.
[369] Nella capitazione della nobiltà del 1593 Barnaba Centurione q. Oberto risulta accreditato di un imponibile di 501.666 lire e di un ulteriore imponibile di 568.520 maravedís, segno questo della disponibilità di investimenti in Spagna. Cfr. BNP, Manuscrits français 16073.
[370] I dati fiscali del 1630 (capitazione per la costruzione delle nuove mura) e del 1636 ribadiscono il rango della famiglia nella gerarchia delle fortune. Nel 1630 Luigi e il figlio Barnaba pagarono 100 lire ciascuno, cioè l’imposta ordinaria massima; sei anni dopo Luigi venne tassato su un imponibile di 908.333 lire, sia pure dote del figlio inclusa: era il quinto imponibile tra i Centurione, e tra i primi venti di tutto il patriziato censito alla capitazione. Cfr. rispettivamente ASGe, Camera 2615; BUG, Mss, B.VI.18.
[371] Cfr. ASCGe, Mss Brignole Sale 105.D.7. Luigi era stato imbussolato nell’urna del Seminario nel 1629. Barnaba fu una sola volta nei Trenta elettori dei Consigli, nel 1595, così come Luigi lo fu soltanto nel 1634. Sulle istituzioni genovesi cfr. Forcheri, Doge governatori; sul funzionamento del sistema politico cfr. Doria- Savelli, “Cittadini di governo”.
[372] Cfr. Nuti, Centurione, Adamo. Di Andrea Doria Centurione era consuocero in senso lato, avendo fatto sposare la figlia a Gian Andrea Doria, erede dell’ammiraglio.
[373] Cfr. Dominguez Ortiz, Politica y hacienda, in particolare 106-107. Ottavio sottoscrisse “el famoso asiento de 1624, el más grande, probablemente, que haya hecho una sola persona”. In seguito, venne esentato dalla famosa sospensione dei pagamenti del 31 gennaio 1627: cfr. Ruiz Martin, Las finanzas de la monarquía, 72. “El principe de los banqueros genoveses” del primo Seicento è definito Centurione in Ruiz Martin, Banchieri genovesi, 269. cfr. anche Nuti, Centurione, Ottavio.
[374] Ottavio rappresentò la Repubblica nell’intervallo tra la partenza dell’ambasciatore Giambattista Saluzzo e l’arrivo del successore, dal marzo all’ottobre 1630, e dal 1637 al 1641 come gentiluomo incaricato di affari: cfr. Vitale, Diplomatici e consoli, 175-176. Nel 1637 Ottavio fu il destinatario della famosa “Lettera scritta da un personaggio genovese al S.r Ottavio Centurione in Madrid”, violento atto d’accusa contro la politica spagnola nei confronti di Genova. Attribuita a suo nipote Agapito, figlio di Filippo, la lettera era verosimilmente un falso elaborato negli ambienti antispagnoli di Genova, forse da Federico Federici: l’attribuzione fittizia ad una famiglia spagnolissima doveva enfatizzare il senso della polemica antispagnola. La risposta di Agapito Centurione è edita in Istruzioni e relazioni, III, Spagna (1636-1655), 66-72. Notizie sull’attività diplomatica di Ottavio ibidem, 66-78, 112, 145, 237; cfr. inoltre Istruzioni e relazioni, I, Spagna (1494- 1617), 388; II, Spagna (1618-1634), 268, 283, 286, 289, 323.
[375] Il sesto fratello era Vincenzo. Cfr. Guelfi Camajani, Liber Nobilitatis, 124. L’ordine con cui sono elencati i nomi farebbe pensare che Adamo fosse più anziano di Gian Giacomo, e Vincenzo di età intermedia tra i due. Ma nel bussolo del Seminario i fratelli furono ascritti nell’ordine che si è segnalato nel testo. Cfr. ASCGe, Mss Brignole Sale 105.D.7
[376] Cfr. Forcheri, Doge, governatori, per la descrizione del meccanismo del Seminario. Sulla sua origine, nel 1576, cfr. Savelli, La repubblica oligarchica. Avverto una volta per tutte che le informazioni sulle carriere dei personaggi citati sono elaborazioni dai dati forniti in ASCGe, Mss Brignole Sale 105 E 7. Poiché i componenti dei Collegi venivano rinnovati per un quarto ogni sei mesi, a decorrere dal primo gennaio e dal primo luglio, un mandato dal luglio al giugno di due anni dopo si intende durare dal primo giorno di luglio all’ultimo di giugno. Il mandato per due anni, senza indicazione di mese, si intende durare dal primo gennaio dell’anno iniziale al trentun dicembre dell’anno finale.
[377] Le date di morte dei fratelli Centurione si ricavano da ASCGe, Mss Brignole Sale 105 E 7. la data di morte di Ottavio Centurione in BCB, Mss rari B.VIII.28, 198.
[378] Nel 1617 Filippo ottenne soltanto 61 voti, contro i 193 dell’eletto Gian Giacomo Imperiale, al quale contese l’elezione Ambrogio Doria; nel 1621 il risultato di Filippo fu ancor più sconfortante: appena 32 voti nella votazione che vide un altro Centurione, Giorgio, di un diverso ramo dell’albergo e di opposto orientamento politico (era considerato un “repubblichista”, poco amico della Spagna), eletto doge con 241 suffragi.
[379] Purtroppo, Gian Stefano Doria non è stato oggetto di una voce del DBI. Occorre perciò rifarsi a Levati, Dogi biennali [..] dal 1528 al 1699, II, 9-20. Dogi erano stati il prozio Giambattista nel 1537-1539, il padre Nicolò nel 1579-1601, e lo zio Agostino nel 1601-1603.
[380] La data di nascita suggerita da Levati, Dogi biennali […] dal 1528 al 1699, II, 9 e 19, basata sul registro delle sepolture della chiesa di San Matteo, non sembra accettabile, perché Gian Stefano doveva avere almeno quarant’anni quando fu imbussolato nell’urna del Seminario, nel 1605: cfr. ASCGe, Mss Brignole Sale 105.D.7. Da questa fonte sono tratte le informazioni sulla presenza di Doria nei Collegi. Altri dettagli sulla sua carriera politica in Levati, Dogi biennali […] dal 1528 al 1699.
[381] Cfr. Levati, Dogi biennali […] dal 1528 al 1699, 14-15.
[382] I dati sull’elezione dogale del 1633 sono tratti da ASGe, Senato, Diversorum Collegii 75. Sulle divisioni nel patriziato negli anni ‘30 del Seicento cfr. Bitossi, Il governo dei magnifici, 207-250, in particolare 236. La relazione di de Melo risale al maggio 1633: cfr. AGS, Papeles de Estado, Génova, 3591, doc. 112, de Melo al re, Genova 1633 maggio 12; l’ambasciatore era però al lavoro, dietro istruzioni di Madrid, dal mese di marzo: cfr. ibidem, doc. 75, de Melo al re, Genova 1633 marzo 17. Benché il doge Leonardo Della Torre dovesse uscire di carica il 30 giugno, de Melo segnalò con alcuni mesi di anticipo che i competitori per il dogato erano Doria e Agostino Pallavicino; scrisse infatti il 28 febbraio: “se elize nuevo Dux en esta Repp.ca. Dos son los que andan en la platica y tienen divididas las facciones”. Cfr. ibidem, doc. 10, de Melo al re, Genova 1633 febbraio 28.
[383] Cfr. ibidem: “Juan Esteban Doria oy tiene la mejor parte pero ha llegado la Repca a estado que para conservarlo le parecio necessario no visitar al ambaxador de V. M.d ni entrar en su cassa quando toda la nobleza le visito y la mayor parte acudio a ella”.
[384] Cfr. Levati, Dogie biennali […] dal 1528 al 1699, 19.
[385] Cfr. Cavanna Ciappina, Doria, Marcantonio, con gli opportuni riferimenti bibliografici. La data di nascita è collocata dall’autrice attorno al 1570. Il fatto che Marcantonio sia stato imbussolato nell’urna del Seminario nel 1612 pone il termine ante quem al 1572: ed è probabile, dato il rilievo della casata, che il suo imbussolamento sia avvenuto appena compiuti i quarant’anni. La corrispondenza di Marcantonio Doria è conservata nel fondo Doria d’Angri, nell’Archivio di Stato di Napoli, è stata valorizzata sotto l’aspetto della storia letteraria da Giorgio Fulco e Carmela Reale Simioli. Uno dei fratelli di Marcantonio, Gian Carlo, anch’egli letterato e mecenate, è il soggetto del “Ritratto equestre di Gian Carlo Doria”, di Rubens: cfr. la scheda del dipinto redatta da G. Rotondi Terminiello in Genova nell’età barocca, 253-254.
[386] Cfr. Alfonso, Liguri illustri. Bernardo Strozzi, al quale rimando anche per i riferimenti alla precedente bibliografia sull’argomento. Ma cfr. ora Assini, Gli atti del processo.
[387] Gli elementi della carriera di Marcantonio Doria qui segnalati sono tratti da ASCGe, Mss Brignole Sale 105.D.7, e da elaborazioni di chi scrive sui dati contenuti nella serie del “Manuali dei decreti del Senato” nel fondo Archivio segreto di ASGe, per gli anni in questione.
[388] Cfr. AGS, Papeles de Estado. Génova 3591, doc. 112. Nell’elenco dei patrizi distinti per famiglia compare un “Marco Antonio Doria hizo de Antonio” che va identificato con il nostro. Lì e nell’altro elenco redatto da de Melo, dei membri del Minor Consiglio, Doria è classificato “rico” e “bien afecto a Su Magestad”; una “e” maiuscola a fianco del nome lo qualifica inoltre come uno di coloro che “tienen hazenda en los Reynos de Su Magestad mucha o gran parte”.
[389] Sulla distinzione tra famiglie ‘vecchie’ e ‘nuove’ cfr. Bitossi, Il governo dei magnifici.
[390] Cfr. Cavanna Ciappina, Chiavari, Gian Luca. Nella sua biografia del doge, Levati, Dogi biennali […] dal 1528 al 1699, 29, collocava la nascita di Chiavari nel 1575 circa. La Cavanna Ciappina la arretra al 1573 o 1574. In realtà, poiché fu imbussolato nell’urna del Seminario nel 1610, Chiavari dovette nascere entro il 1570.
[391] Su questi personaggi cfr. Levati, Dogie biennali […] dal 1528 al 1699, I, p 286-293: Pietro De Franchi; 307-315: Silvestro Invrea; 362-375: Bernardo Clavarezza; su quest’ultimo cfr. ora Cavanna Ciappina, Clavarezza Cibo, Bernardo.
[392] Cfr. Bitossi, Il governo dei magnifici, 116-135.
[393] Devo a Claudio Costantini, che ringrazio, la segnalazione di non aver trovato tracce del Chiavari nella parte dell’archivio Barberini che ha potuto consultare, presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Ciò non vuol dire che nell’enorme massa documentaria ancora in via di inventariazione non si trovino riferimenti ai contatti tra Gian Luca Chiavari e la famiglia del pontefice. Sui contatti tra i Barberini ed esponenti del patriziato genovese cfr. intanto Costantini, Corrispondenti genovesi dei Barberini. Sull’antispagnolismo dei Chiavari cfr. Bitossi, Il governo dei magnifici, 207-250.
[394] Sulle personalità dei familiari di Urbano VIII, cfr. Merola, Barberini, Antonio (si tratta del fratello del papa, cardinale di Sant’Onofrio); Id., Barberini, Antonio; Id., Barberini, Francesco; Id., Barberini, Taddeo.
[395] Cfr. Cozzi, Venezia nello scenario europeo.
[396] Come il precedente, anche questo breve lavoro è nato dall’invito di Ezia Gavazza e Giovanna Rotondi Terminiello a collaborare a un catalogo: Genova nell’età barocca, a cura di E. Gavazza e G. Rotondi Terminiello, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1992, 467-470. Se nel caso dei committenti e protettori patrizi di Bernardo Strozzi l’occasione per l’esercizio prosopografico era offerta dalla persona del pittore, in questo caso il filo conduttore è rappresentato dal palazzo, dimora nei secoli di alcuni tra i principali lignaggi del patriziato genovese. E’ il caso di osservare che l’esercizio andrebbe moltiplicato, e che riuscirebbe tanto più proficuo quanto più spesso si potessero incrociare i dati raccolti dalle estesissime indagini di Ennio Poleggi e dei suoi allievi sulla proprietà immobiliare, quelli relativi alle quadrerie e alle committenze certosinamente scovati dagli storici dell’arte, e le carriere politiche ricostruite dagli studiosi del patriziato.
[397] Sul patriziato genovese cfr. Grendi, Capitazioni e nobiltà; Doria-Savelli, “Cittadini di governo”; Bitossi, Il governo dei magnifici, e i riferimenti bibliografici più particolareggiati contenuti in questi lavori.
[398] Su Andrea Spinola e le sue parentele Grimaldi, cfr. Spinola, Scritti scelti, 56-57. Cfr. inoltre Battilana, Genealogie, 121- 123v; De Venasque Ferriol, Genealogica et historica Grimaldae Gentis, 114-115.
[399] Cfr. De Venasque Ferriol, Genealogica et historica Grimaldae Gentis, 114; notizia del parentado di Francesco Grimaldi in Inventione, 102 e 111; sulla famiglia di Lelia e Giulio Pallavicino cfr. l’introduzione di Edoardo Grendi a Inventione, e Poleggi, Strada Nuova, 101-114.
[400] Sul funzionamento del sistema di governo genovese cfr. Forcheri, Doge governatori, e Bitossi, Il governo dei magnifici. Avverto una volta per tutte che i dati sugli imbussolamenti nell’urna del Seminario e sulle estrazioni per i Collegi sono ricavati da: ASCGe, Mss Brignole Sale, 105 D 7, agli anni di volta in volta indicati.
[401] Cfr. ASGe, AS 895.
[402] Cfr. Mombelli Castracane, La confraternita di San Giovanni Battista, 201, 210; ma cfr. ulteriori particolari sui curricula dei due prelati in De Venasque Ferriol, Genealogica et historica Grimaldae Gentis, 114-115. Ibidem notizie anche su Giambattista di Gian Giacomo, commissario generale delle forze pontificie di Urbano VIII, e sull’altro fratello Francesco, comandante di cavalleria al servizio del re di Francia.
[403] Avverto una volta per tutte che i dati sulle presenze tra i Trenta elettori dei Consigli sono tratti da ASGe, AS, serie dei Manuali dei decreti del Senato, all’anno.
[404] Cfr. Guelfi Camajani, Liber nobilitatis, 241, dove viene registrato come ascritto alla nobiltà il 3 dicembre 1622 a ventidue anni di età.
[405] Sul Federici cfr. Bitossi, Il governo dei magnifici, ad indicem.
[406] Sulla relazione del de Melo cfr. Doria-Savelli, “Cittadini di governo”; Bitossi, Il governo dei magnifici, 207-250. Il documento si trova in AGS, Estado, Génova, leg. 3591.
[407] Una biografia del Pallavicino in Levati, Dogi biennali […] dal 1528 al 1699, 33-45; sul personaggio, la corrente “repubblichista”, e i problemi di governo degli anni Trenta del Seicento cfr. Costantini, La Repubblica di Genova, 277-282; Bitossi, Il governo dei magnifici, 207-250.
[408] Cfr. Dagnino, Il libro mastro di Maddalena Spinola Doria, 54.
[409] I dati di questa capitazione sono ricavati da BNP, Manuscrits français, 16073, che ho consultato nella trscrizione dattiloscritta gentilmente messami a disposizione da Giorgio Doria, che ringrazio; un elenco più breve in ASCGe, Mss Pallavicino, 338. Sulle capitazioni del patriziato genovese rimando una volta per tutte a Grendi, Capitazioni e nobiltà, 404-444; Felloni, Distribuzione territoriale della ricchezza.
[410] Cfr. ASGe, Antica finanza 237.
[411] Cfr. ASGe, Camera 2605.
[412] Cfr. BUG, Mss B VI 18.
[413] Cfr. ASGe, Notai antichi 8753 (Lavaggi Giambattista, filza 5).
[414] Cfr. Guelfi Camajani, Liber nobilitatis, 375. Ansaldo è ascritto il 16 dicembre 1638, di diciassette anni.
[415] Cfr. Guelfi Camajani, Liber nobilitatis, 377: Agostino è battezzato nella chiesa di San Pancrazio il 18 maggio 1659.
[416] Giambattista Lomellini q. Stefano fu in carica dal 24 luglio 1646 al 23 luglio 1648.
[417] Cfr. Levati, Dogi biennali […] dal 1528 al 1699, 44.
[418] Per la data di nascita cfr. Guelfi Camajani, Liber nobilitatis, 165: Gerolamo risulta battezzato nell’agosto 1648 nella chiesa di San Martino. Viene ascritto, assieme ai fratelli Domenico (n. 1640) e Ambrogio (n. 1642) il 20 giugno 1661.
[419] Gli elenchi dei tassati nel 1731 e nel 1738, rispettivamente, in ASGe, Antica finanza 595, e Antica finanza 508.
[420] Notizie su alcuni incarichi minori di Nicolò Spinola in Levati, I dogi di Genova dal 1721 al 1746, 38-41.
[421] Nel 1987 l’amministrazione comunale di Levanto avviò una serie di pubblicazioni intese a valorizzare la storia e il patrimonio documentario locali. Massimo Quaini, da tempo studioso del grande cartografo levantese Matteo Vinzoni, non solo ha coordinato l’iniziativa, ma l’ha in gran parte realizzata in prima persona. Questo mio contributo, originato da un suo invito, è comparso in M. Quaini, Levanto nella storia. III. Dal piccolo al grande mondo: i levantesi fuori di Levanto, Genova, Compagnia dei Librai, 1993, 103-113. Se la Savona chiabreriana offre un esempio di quanto resta da fare in tema di studio dei rapporti tra ceto dirigente metropolitano e ceti dirigenti locali, l’esame dell’inserimento nel patriziato genovese delle famiglie levantesi sollecita la curiosità per i risultati di ricerche analoghe indirizzate su località che ancor più di Levanto hanno fornito reclute al Liber nobilitatis.
[422] Per un quadro generale della storia ligure nel Medioevo e nell’età moderna, e per più puntuali indicazioni bibliografiche, rinvio una volta per tutte a Airaldi, Genova e la Liguria nel Medioevo, e a Costantini, La Repubblica di Genova. Per l’età moderna cfr. anche il profilo problematico di Grendi, Introduzione alla storia moderna della Repubblica di Genova.
[423] Sull’ideologia nobiliare in Italia, in generale, cfr. l’importante Donati, L’idea di nobiltà in Italia. Sul patriziato genovese, in particolare, si tenga presente il vecchio ma utile De Ferrari, Storia della nobiltà di Genova; ed ora cfr. Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi; Doria-Savelli, “Cittadini di governo” a Genova; Savelli, La repubblica oligarchica. Molti contributi a una prosopografia dei ceti dirigenti genovesi nel medioevo e nell’età moderna si trovano nella serie di volumi La Storia dei Genovesi, dove dal 1981 al 1991 sono stati pubblicati annualmente gli atti dei convegni di studio sui ceti dirigenti nelle istituzioni della Repubblica di Genova.
[424] Sugli eruditi di fine ‘500 e primo ‘600, e in particolare Antonio Roccatagliata, Federico Federici e Agostino Franzone, utilissimi riferimenti in Doria-Savelli, “Cittadini di governo”; Savelli, Tra Machiavelli e San Giorgio. Su Giulio Pallavicino cfr. Inventione di Giulio Pallavicino. Su Agostino Franzone cfr. anche Grillo, Agostino Franzone; Mombelli Castracane, La confraternita di San Giovanni Battista de’Genovesi, 209, 214; Calegari, La manifattura genovese della carta. Sempre su Franzone e Federici, Salone, Uomini di cultura tra il ‘500 e il ‘600. Sulla impossibilità per i raccoglitori di notizie di colmare sempre i vuoti di informazione, cfr. ad esempio, ASGe, Mss Biblioteca 169-170 (Famiglie genovesi), dove di un certo numero di famiglie manca la segnalazione della provenienza.
[425] Così, dei Pichenotti un repertorio nota: “tranno origine di Alemagna, et di sopra Levanto da una villa detta Monteruto, ne sono venuti ad habitare a Genova l’anno 1169”: cfr. ASGe, Mss Biblioteca 170: 686.
[426] Un solo Viviani fu ascritto nel 1528, e non ebbe discendenza maschile; ma nel 1626 il nipote Giovanni Battista ottenne l’ascrizione ad formam Legum; la famiglia si estinse comunque con suo figlio. Cfr. Nicora, La nobiltà genovese dal 1528 al 1700; Guelfi Camajani, Liber Nobilitatis, 535.
[427] Cfr. tuttavia ASGe, Mss Biblioteca 170: 767, dove è citata la sepoltura di Gregorio Rosa de Levanto in Santa Maria di Castello del 14 febbraio 1577; i Rosa non erano entrati a far parte del ceto dirigente cittadino cinquecentesco, ma evidentemente si erano estinti da poco, se pure non sopravvivevano ancora, nei ranghi del ceto non ascritto.
[428] Per tutti questi riferimenti cfr. ASGe, Mss Biblioteca 169-170. Naturalmente, le attribuzioni di origine indicate dal repertorista appaiono in qualche caso frutto di semplicistiche deduzioni: dal ritrovamento di notizie di un singolo personaggio di Levanto con un certo cognome veniva inferita l’origine levantese di tutti i cognominati nello stesso modo.
[429] Cfr. BCB, Mss Rari XV.4.6, F. Federici, Scruttinio della nobiltà delle famiglie che ora sono al governo della Republica di Genova (copia del secolo XIX): 615-619.
[430] Cfr. Federici, Scruttinio, 615; ASGe, Mss Biblioteca 169: 525-528v.
[431] Cfr. ASGe, Mss Biblioteca 169: 526v. Cristoforo risultava elettore dell’Ufficio di San Giorgio nel 1446 e nel 1456. Sul mondo produttivo genovese del Quattro-Cinquecento e sull’immigrazione in città cfr. Casarino, Mondo del lavoro e immigrazione; Id., Note sul mondo artigiano genovese tra i secoli XV e XVI; e quelli dello stesso Casarino, C. Ghiara e L. Gatti su Maestri e garzoni nella società genovese fra XV e XVI secolo pubblicati a partire dal 1979 sui “Quaderni del Centro di studio sulla storia della tecnica”.
[432] Cfr. Guelfi Camajani, Liber Nobilitatis, 12-13; 313-315. Sulla riforma del 1528 cfr. Costantini, La Repubblica di Genova (Torino 1978); Pacini, I presupposti politici del ‘secolo dei genovesi’. Nel Libro d’oro non c’è traccia di Giacomo Levanto, gesuita e poi cavaliere di Malta, predicatore e membro dell’Accademia degli Addormentati, sul quale cfr. Inventione di Giulio Pallavicino, 170, 173.
[433] Sulle magistrature della Repubblica cfr. Forcheri, Doge, governatori, procuratori; per il ruolo dei Trenta elettori cfr. Bitossi, Famiglie e fazioni. I dati sugli imbussolamenti nel Seminario sono il risultato di rielaborazioni da ASCGe, Mss Brignole Sale 105.E.9; i dati sulle presenze nei Trenta elettori sono rielaborazioni da ASGe, AS 821-910.
[434] Tuttavia, negli stessi anni, Lelio Levanto (sul quale cfr. infra) svolse una lunga missione diplomatica presso l’imperatore e in Germania, dove si trattenne dal 1622 al 1627, recandosi poi ancora a Vienna e a Milano nel 1630. Cfr. Vitale, Diplomatici e consoli, 57, 116.
[435] Sulle capitazioni del patriziato genovese cfr. Grendi, Capitazioni e nobiltà. Queste le collocazioni archivistiche delle capitazioni citate di seguito: 1593 in BNP, Manuscrits français 16093; 1624 in ASGe, Antica Finanza 237; 1630 in ASGe, Camera 2605; 1636 in BUG, Mss B.VI.18; 1682 in ASGe, Notai antichi 8530 [Lavaggi Gian Francesco, fz 5]. Si aggiunga, come indicatore della fortuna dei Levanto, che un ramo della famiglia aveva un palazzo nella piazza di Pavia, stimato nel 1615 9.221:3 scudi d’oro nel conto patrimoniale del proprietario; cfr. Doria, Investimenti della nobiltà genovese, 32. E’ appena il caso di avvertire che gli imponibili o le quote di imposta dei singoli personaggi citati di seguito sono considerati indicatori di massima del rapporto tra le fortune, non documentazioni dell’effettiva consistenza dei patrimoni.
[436] E’ possibile che si tratti della tassa su un’eredità indivisa, perché nel 1630 non si trova più traccia dei due imposti, ma solo di Domenico: cfr. oltre.
[437] In quell’occasione l’aliquota massima era fissata appunto a 100 lire, elevabili a 200 per gli scapoli provvisti di “gran lautezza di facoltà”. Le aliquote dei due Levanto citati per ultimi erano decisamente superiori alla media del patriziato cittadino.
[438] Cfr. ASGe, Camera 2815. L’astensione dal voto nell’attribuzione della quota d’imposta implicava generalmente un rapporto di consanguineità con il contribuente sotto esame; nel qual caso i Levanto avrebbero avuto qualche legame di parentela con i levantesi d’origine Saluzzo.
[439] Al suo nome è premesso il titolo di “spectabilis”, ciò che segnala la condizione di giureconsulto o medico. Infatti, Lelio fu ammesso nel collegio genovese dei giureconsulti il 14 maggio 1616, e morì nel 1675. Cfr. ASGe, Mss Biblioteca 142: c5.
[440] Cfr. Vitale, Diplomatici e consoli, 237; fu console nel 1604. Non era invece ascritto al Libro d’Oro il capitano Francesco Maria Levanto, agente della Repubblica a Costantinopoli nel 1680-1682, al momento del contrastato tentativo genovese di riallacciare contatti coll’Impero Ottomano. Su questo problema cfr. Pastine, Genova e l’Impero Ottomano nel secolo XVII.
[441] Cfr. ASGe, Mss Biblioteca 170: c. 827, dove sono citati un Giovanni di Saluzzo anziano nel 1347-1348 e un Bartolomeo Saluzzo membro dell’Ufficio di guerra nel 1382; Venturino di Saluzzo di Bonassola ottenne un decreto di abitazione a Genova nel 1441; il decreto fu rinnovato il 5 novembre 1448 per Venturino e Alessandro “di Levanto”, ed esteso il 12 agosto 1465 ad Alessio Saluzzo. Che, almeno in un’epoca successiva, il cognome Saluzzo fosse non infrequente a Levanto è attestato da documenti allegati alle richieste di ascrizione alla nobiltà di alcuni membri della famiglia Tagliacarne (cfr. § 5).
[442] Cfr. BCB, Mss Rari XV.4.6: F. Federici, Scruttinio della nobiltà delle famiglie che ora sono al governo della Republica di Genova, 821. In BCB: Mss Rari VIII.2.29, A. M. Buonarroti, Alberi genealogici di famiglie genovesi, 394-397 da Bartolomeo, fratello di Alessio (ed è segnalata l’esistenza di un terzo fratello, Giovanni), si diparte una numerosa discendenza sulla quale però non viene fornita alcuna informazione; la vera schiatta dei Saluzzo attestata dal genealogista è perciò quella dei discendenti di Alessio.
[443] Ma Paolo era forse tra gli artigiani guelfi (nigri); cfr. Federici, Scruttinio, 821.
[444] Cfr. Buonarroti, Alberi genealogici, 396; il ramo di Jerez, dei cui esponenti il genealogista riporta solo i nomi, senza alcuna notizia aggiuntiva, discendeva da Gio. Battista, figlio di Alessio.
[445] Cfr. Buonarroti, Alberi genealogici, 396; ASGe, Mss Biblioteca 169: c 19 bis-ter.
[446] Cfr. Coniglio, Il viceregno di Napoli nel sec. XVII, 170, 270, 272; Villari, La rivolta antispagnola a Napoli.
[447] I fratelli Pier Francesco, Bartolomeo e Agostino furono rappresentanti genovesi a Napoli rispettivamente nel 1592-1594, nel 1599-1600, e nel 1606; cfr. Vitale, Diplomatici e consoli, 96, 236.
[448] Cfr. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, IV, 129-130; Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, VI, 61-62 (i Saluzzo comprarono Corigliano dai Sanseverino; ottennero però il titolo ducale nel 1649; i titoli di principe di Lequile e di principe di San Mauro furono ottenuti rispettivamente nel 1691 e nel 1726); riferimenti a episodi della vita napoletana dai Saluzzo in Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, 568, 741-742; e in Colapietra, L’amabile fierezza di Francesco d’Andrea, 22, 27, 97, 110; sul feudo di Corigliano cfr. MERZARIO, Signori e contadini di Calabria, e Placanica, La Calabria nell’età moderna, I, 332-341; sulla Terra d’Otranto cfr. ora Visceglia, Territorio, feudo e potere locale.
[449] Cfr Neri, Uomini d’affari e di governo tra Genova e Madrid, 77; nel corso del libro, che fornisce un utile ed aggiornato esame dei legami finanziari tra gli uomini d’affari genovesi e il re Cattolico, si trovano molti altri riferimenti ai Saluzzo.
[450] Sui Durazzo cfr. L’archivio dei Durazzo marchesi di Gabiano.
[451] Cfr. Costantini, La Repubblica di Genova; Bitossi, Famiglie e fazioni. Il libello, in forma di dialogo, si trova in ASGe, Mss 859.
[452] Riprendo i dati da Bitossi, Famiglie e fazioni. Fra il 1576 e il 1657 solo due personaggi collezionarono sei candidature al dogato: l’altro fu Silvestro Invrea, eletto infine nel 1607. Giacomo svolse anche un incarico diplomatico onorifico, recandosi come ambasciatore straordinario a Vienna in occasione dell’ascesa al trono dell’imperatore Mattia, nel 1612, trattando con l’occasione la questione di Zuccarello: cfr. Vitale, Diplomatici e consoli, 115.
[453] Cfr. ASGe, Camera 2605; Giacomo, Pietro Francesco, Bartolomeo e Gian Filippo q. Agostino erano tassati di 200 lire, Ottavio e Gio. Battista q.Gio. Battista di 100 lire; nel contempo risultavano assenti da Genova altri cinque membri della casata.
[454] Si vedano in proposito i dati in Doria, Investimenti della nobiltà genovese. I Saluzzo tuttavia eressero tre chiese e un convento.
[455] La residenza in Strada Nuova era il Palazzo (oggi) Cattaneo Adorno, al civico 10 di via Garibaldi; un po’ prima del 1612 Giacomo Saluzzo acquistò la metà di Lazzaro Spinola: cfr. Poleggi, Strada Nuova, 376, 381. Nel 1798 Bartolomeo Saluzzo risultava tuttavia proprietario di un altro palazzo, al civico 8 di Piazza Giustiniani, stimato del valore di 300.000 lire; cfr. Grossi Bianchi-Poleggi, Una città portuale, 316. Sulla collina di Albaro i Saluzzo possedevano la villa detta “il paradiso” o villa Saluzzo Bombrini, costruita alla fine del ‘500 forse da Andrea Vannone, e probabilmente la villa che va tuttora col loro nome, entrambe in via F.Pozzo, e dal secolo XVIII la villa ora detta Saluzzo Mongiardini, al civico 3 di via Albaro. Cfr. Catalogo delle ville genovesi, 370-381.
[456] Giovanni Battista Saluzzo fu ambasciatore in Spagna dal 1617 al 1621, e in Francia dal 1637 al 1641. Giacomo q. Agostino fu residente in Spagna dal 1663 al 1665. Sulle relazioni diplomatiche tra Genova e la Spagna cfr. Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi. Spagna, I, 390-418; II, 158-178. Sulle prime relazioni diplomatiche con la Francia cfr. Bottaro Palumbo, La diplomazia francese dall’osservatorio genovese.
[457] Cfr. Levati, Dogi biennali di Genova dal 1528 al 1699, 289-299. Agostino, nato nel 1622, ascese al dogato appena compiuta l’età richiesta di cinquant’anni; restò poi a lungo nei Procuratori perpetui, morendo o nell’ultimo decennio del ‘600 o nei primi anni del ‘700.
[458] Per i Saluzzo ascritti al Libro d’oro che risultano battezzati nella chiesa parrocchiale di Corigliano cfr. Guelfi Camajani, Liber Nobilitatis, 442-443; alle capitazioni del 1731 e 1738 i duchi di Corigliano e di Lequile risultavano residenti in Napoli: cfr. rispettivamente ASGe, Antica Finanza 595 e Antica Finanza 508; Giacomo Saluzzo, nato nel 1776 e morto nel 1819, sposò una Orsini dei duchi di Gravina, il figlio Filippo una Carafa dei duchi di Belvedere; l’ultimo loro discendente maschio è morto nel 1937; cfr. Sertorio, Il patriziato genovese, 308-309.
[459] Cfr. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare, VI, 533-534, dove si riprende dai repertiristi genovesi del Sei- Settecento la notizia che a Levanto i Tagliacarne erano capifazione, contrapposti come tali alla fazione dei Bertolotti.
[460] Cfr. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare, VI, 533-534.
[461] Cfr. Vitale, Diplomatici e consoli, 50, 138. Nel 1552 fu inviato ambasciatore in Francia; nel 1567 andò ambasciatore straordinario a Milano per trattare la questione di Zuccarello.
[462] Su Francesco Tagliacarne e sul suo ruolo nel 1575-76 cfr. Savelli, La repubblica oligarchica, ad indicem.
[463] Questi dati sono mie elaborazioni da ASCGE, Mss Brignole Sale 105 E 9, e da ASGe, AS 821-855. Per la partecipazione alla revisione degli statuti cfr. Savelli, La repubblica oligarchica.
[464] Cfr. Inventione di Giulio Pallavicino, 168: “[1587] Venardì a 9. E’ morto il Magnifico Francesco Tagliacarne, famoso Dottore, è stato podraga insieme col mal d’orina, havea 67 anni”. Sarebbe perciò nato attorno al 1520.
[465] Cfr. Vitale, Diplomatici e consoli, 77, 112. I fratelli Tagliacarne sono citati dal diarista Giulio Pallavicino (cfr. Inventione di Giulio Pallavicino, 194, 195, dove Pallavicino lo chiama Ansaldo e lo definisce medico, 215); Aurelio fu incaricato della consueta orazione per i nuovi senatori l’1 luglio 1588: cfr. Volpicella, I Libri dei Cerimoniali della Repubblica di Genova, 248; e Inventione di Giulio Pallavicino, 195; secondo il Pallavicino “l’oratione….fu tra il bello e il brutto, in fine non fu lodata”.
[466] Francesco Tagliacarne dello spettabile Aurelio fu ascritto, ventunenne, nel 1610; cfr. Guelfi Camajani, Liber nobilitatis, 515. Alla capitazione del 1593 risultavano tassati tanto Francesco senior (ma evidentemente si trattava della sua eredità) quanto i figli Cristoforo e Aurelio, questi ultimi con imponibili superiori al padre, e con redditi in Spagna. Nelle capitazioni successive, tuttavia, l’unica menzione dei discendenti di Francesco Tagliacarne riguarda l’eredità della vedova di Cristoforo Tagliacarne, stimata 41.000 lire nel 1636; cfr. BUG, Mss B.VI.18.
[467] Cfr. Nicora, Il patriziato genovese dal 1528 al 1700; Doria-Savelli, “Cittadini di governo”.
[468] Per l’opposizione alle ascrizioni, conosciuta come “mobba dei gentiluomini”, cfr. Nicora, Il patriziato genovese, Doria-Savelli, “Cittadini di governo”; Bitossi, “Mobbe” e congiure.
[469] Cfr. ASGe, AS 2834, doc. 342. Gio.Batta aveva un unico figlio, illegittimo, natogli da una domestica levantese ritornata al borgo. A Genova nel 1797 Andrea Tagliacarne possedeva un palazzo valutato lire 100.000 al civico 5 di via Ponte Calvi; cfr. Grossi Bianchi – Poleggi, Una città portuale, 317.
[470] I dati sulle ascrizioni e gli imparentamenti dei Tagliacarne, nell’Ottocento Taliacarne, in ASGe, AS 2834 doc. 342, 2851 doc.4, 2856 doc.75, e Guelfi Camajani, Liber Nobilitatis, 381, 426, 515. Sulle vicende succesive dei Tagliacarne cfr. Spreti, Enciclopedia Storico-nobiliare, V, 533-534; Sertorio, Il patriziato genovese, 358- 359; e sui levantesi Massola, nobilitati dai Savoia nel 1829, cfr. sempre Spreti, Enciclopedia Storico- nobiliare, IV, 481-482.
[471] Cfr. L. Bulferetti-C. Costantini, Industria e commercio in Liguria nell’età del Risorgimento (1700-1861), Milano, Banca Commerciale Italiana, 1965; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Torino, Utet, 1978; G. Giacchero, Origini e sviluppo del portofranco genovese. 11 agosto 1590-9 ottobre 1778, Genova, Sagep, 1972; Id., Economia e società del Settecento genovese, Genova, Sagep, 19732; proprio per il fallimento dei progetti di valorizzazione del suo golfo la Spezia resta invece ai margini del più recente Il sistema portuale della Repubblica di Genova. Profili organizzativi e politica gestionale (secc. XII-XVIII), a cura di G. Doria e P. Massa Piergiovanni, “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, CII (1988), 1.
[472] Cfr. L. Bulferetti-C. Costantini, Industria e commercio in Liguria,
[473] Una moderna e documentariamente esaustiva storia del Banco di San Giorgio coronerà il lavoro di inventariazione dell’archivio dello stesso Banco (conservato, come è noto, nell’Archivio di Stato di Genova) progettato e diretto da Giuseppe Felloni e già tradottosi nella pubblicazione di quattrordici volumi di inventari, dei venticinque previsti. Nell’attesa si rimanda alle opere supra e alle relative bibliografie. Il testo di riferimento rimane H. Sieveking, Studio sulle fiannze genovesi nel Medioevo e in particolare sulla Casa di San Giorgio, “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, XXXV (1906), 2; ma cfr. G. Giacchero, Il Seicento e le Compere di San Giorgio, Genova, Sagep, 1979. Sul dibattito intorno a San Giorgio nel Cinque-Seicento, ma con spunti validi in generale, cfr. R. Savelli, Tra Machiavelli e San Giorgio. Cultura giuspolitica e dibattito istituzionale a Genova nel Cinque-Seicento, in Finanze e ragion di Stato in Italia e in Germania nella prima Età moderna, a cura di A. De Maddalena e H. Kellenbenz, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 249-322.
[474] Sul funzionamento delle istituzioni di governo della Repubblica oligarchica cfr. almeno G. Forcheri, Doge, governatori, procuratori, consigli e magistrati della Repubblica di Genova, Genova, Tip. Tredici, 1968; mi permetto inoltre di rinviare a C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”. Patriziato e governo a Genova nel secondo Settecento, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1995.
[475] Che scaturiscono da una ricerca più ampia, tuttora in corso, sulla politica genovese alla fine del Seicento e nel primo Settecento. Si sottolinea che in questa sede ci si limita a esporre delle tracce di ricerca suggerite da alcuni campioni documentari. Ma non si è utilizzato tutto il materiale consultato.
[476] Un importante contributo alla conoscenza della prersenza ebraica a Genova nell’età moderna apporterà l’imminente pubblicazione del repertorio dei documenti conservati nell’Archivio di Stato di Genova, a cura di Rossana Urbani. Di questa studiosa, che all’argomento ha dedicato parecchi lavori, si veda intanto R. Urbani-M. Figari, Considerazioni sull’insediamento ebraico genovese (1600-1750), “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, CIII (1989), 1, pp. 305-337.
[477] Cfr. G. Giacchero, Economia e società, , pp. 91-101.
[478] Su questi aspetti del funzionamento delle istituzioni genovesi rinvio ancora a C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”,
[479] Archivio di Stato di Genova (d’ora in poi AS Ge), Archivio Segreto (d’ora in poi AS), 3161 B, “Notizie concernenti le providenze sopra il Commercio e particolarmente circa la Giunta, 1756 novembre 26. La relazione proseguiva in questi termini: “Tuttavia vi è ragione di argomentare il contrario dal leggersi che nel rifferito decreto de 5 Maggio 1698, quando fu instituita la Giunta del Commercio, fu deliberato, che ella fusse servita da uno de Sottocancellieri del Ser.mo Senato, e fusse lo stesso, che precedentemente serviva quella del Trafico, però questa doveva essere altra dalla nuova instituita del Commercio in detto anno 1698”. Ma la Giunta del traffico risultava inattiva dal 1700 al 1708, mentre dal 1703 al 1706 si era riunita una “Giunta sopra il Portofranco”: La Giunta del traffico riprese l’attività nel 1709 e la proseguì sino al 1739, “quantonque”, precisava prudentemente il cancelliere, “non si ritrovinole sue successifve conferme”. Insomma, a pochi decenni di distanza la curiosità dei supremi vertici della Repubblica sulla storia delle istituzioni riguardanti la politica commerciale restava sostanzialemnte insoddisfatta. Nomi e tempi erano avvolti nell’incertezza.
[480] Cfr. AS Ge, AS, 1011, “1706 a 20 Decembre. Ristretto dell’operato nella pratica del Portofranco dall’anno 1698 di novembre sino per tutto l’anno 1706”.
[481] I due testi si trovano rispettivamente in Biblioteca Civica Berio, Genova, Manoscritti rari, VI.5.18 (codice A), e Archivio Storico del Comune di Genova [d’cora in poi: ASC Ge] , Manoscritti Brignole Sale, 105.C.1 (codice B), con lo stesso titolo di “Relatione sopra tutta la materia delli due Porti Franchi di Genova, e della Spezza”. Entrambi i manoscritti sembrano coevi, o di poco successivi agli eventi. A consta di cc II+86, con numerazione originale. B consta di cc 102 + 2 allegati, che sono copie di biglietti di calice sull’argomento, gli originali dei quali con un po’ di fortuna dovrebbero emergere dai fondi dell’Archivio di Stato di Genova. Identico l’indice: [1] Relatione sopra tutta la materia delli due Porti Franchi di Genova, e della Spezza. [2] Pianta del Porto Franco di Genova. [3] Pianta del Porto Franco per il luogo della Spezza. [4] Tariffa per quello riguarda il pagamento dell’Ancoraggio da praticarsi nel Golfo della Spezza. [5] Idea economica del nuovo Portofranco della Spezza. [6] Obietioni con sue risposte per il Portofranco della Spezza [sono 22 obiezioni con altrettante risposte]. [6] [Vantaggi del portofrnaco della Spezia]. [7] Relatione circa lo abolimento della gabella di estratione per li panni di seta, e fresetti a risalva de veluti, e de damaschi. [8] Calcolo della diminutione sopra le merci che introdote per via di mare si spediscono per via di terra. [9] Calcolo della diminutione sopra le merci che introdotte per via di terra si spediscono per via di mare. [10] Calcolo dello importare de colli da rubbi undeci da Genova a Milano e da Sarzana o sia dalla Spezza pure a Milano.
[482] Cito dal codice A, c 1v.
[483] Cfr. ivi, cc 2v-3r. Si è usata la dizione ‘bastimenti’ perché la deputazione aveva cura di distinguere le navi dalle barche e tartane, nel movimento del porto di Livorno (ma non in quello di Genova). Per contro, veniva precisato che un certo numero di navi approdate a Genova erano “vacanti”, mentre non si diceva se anche tra le navi giunte a Livorno ve ne fossero di vuote. Com’è noto, la battaglia sul portofranco di Genova, nel primo Settecento, venne combattuta a colpi di statistiche, e per affossare la riforma del 1708 furono grossolanamente truccati i conti. Lasciamo perciò un’ombra di incertezza, salvo verifiche documentarie, sulla veridicità delle cifre fornite dalla deputazione, che era evidentemente fautrice delle innovazioni.
[484] Ivi, c 4v. Un anonimo lettore, evidentemente dissenziente, annotò a margine: “Non è possibile l’havere due porti franchi distinti ne generi di merci mentre l’uno distrugerà l’altro non convenendo a mercadanti il non dar un trafico universale”. Il testo della relazione concludeva su questo punto: “Ne ha fatta parimente formare la pianta, come altresì la Tariffa de pagamenti, che saranno dovuti per raggione del detto Porto franco, e ridotto il pagamento sudetto non solo a proportione di quello della Tariffa di Livorno, ma a segno che non possa contrastare col Porto franco di questa Dominante, e ve ne sia la correllazione, ed inoltre una regola che concerne l’Economico, e la forma ben ordinata del suo governo, quando venga deliberato doversi eriggere in detto luogo della Spezza il detto Porto franco, che si sente sospirato da Mercadanti, e concordemente approvato da quelli stati come sopra a questo effetto chiamati, come altresì dalla maggior parte dell’universale, e dalle nationi forastiere, massime da quelle, che di presente si trovano in Livorno”. Difficile, come si vede, il compito della deputazione, che doveva elaborare uno schema di portofranco per la Spezia concorrenziale con Livorno ma non con Genova, sollevando lo scetticismo che si è visto nell’anonimo lettore. Piacerebbe trovare documentazione sui sondaggi compiuti presso la comunità mercantile inglese, olandese ed ebrea, alla quale allude con ogni verosimiglianza la frase finale citata.
[485] Cfr. ivi, cc 23-27v, “Idea Ecomomica del Novo Portofranco della Spezza”.
[486] Ivi, cc 28-46.
[487] Cfr. ASC Ge, Manoscritti Brignole Sale, 107.A.3, allegato: “1700 Biglietto preparato per li calici dal Sig.e Franco Lercaro sopra la prattica del Portofranco della Spezza”. Propriamente Franco Imperiale Lercari, battezzato alla Maddalena il 22 marzo 1653 e ascritto al Liber nobilitatis il 19 dicembre 1674: cfr. G. Guelfi Camajani, Il “Liber Nobilitatis Genuensis” e il Governo della Repubblica di Genova fino all’anno 1797, [d’ora in poi: Guelfi Camajani e pagina] Firenze, Società Italiana di Studi Araldici e genealogici, 1965, p. 260
[488] Va identificato con Marco Antonio q. Pietro q. Marco Antronio e Aurelia Lomellini q. Marc’Aurelio, ascritto il 12 maggio 1663 in età di circa 23 anni, perciò nato verso il 1640. Cfr. Guelfi Camajani, 285; AS Ge, AS, 2836, doc. 95.
[489] Archivio Storico del Comune di Genova, Manoscritti Brignole Sale, 107.A.3, allegato, supra.. Lercaro osservava: “[…] pare verisimile che con ogni poca assistenza della gratia efficace di V<ostre> S<ignorie> Ser<enissi>me si sarebbe posta in sicuro mentre senza niuno di quei pontelli co quali è solito sostenersi le poste a fin di farle varare tirò seco di primo et unico slancio due voti meno delli due terzi […]”, cioè del quorum necessario all’approvazione.
[490] Cfr. P. L. Levati, I dogi di Genova dal 1699 al 1721 e vita genovese negli stessi anni, Genova, Tip. della Gioventù, 1912, pp. 17-20. Gian Antonio di Gian Antonio q. Alessandro q. Antonio aveva avuto i natali a Madrid, dove era stato battezzato il 7 novembre 1665; spagnola la madre, Maria Teresa de Cespedes. Fu ascritto al Liber nobilitatis il primo ottobre 1677, assieme al fratello maggiore Pietro Alessandro e ai cadetti Vincenzo e Clemente. Levati lo dice confratello del Divino Amore, morto prima del 1735 scapolo e senza figli, ultimo del ramo dei Giustiniani Campi, e sepolto in San Domenico. Cfr. Guelfi Camajani, 286; AS Ge, AS, 2839, doc. 25. Occorre avvertire che esistevano due omonimi: Gian Antonio di Gian Domenico q. Giambattista e Giovanna Camilla Gagliardo (una non nobile), battezzato nella chiesa di San Giovanni Battista di Sestri il 16 dicembre 1646 e ascritto il 13 giugno 1663; Gian Antonio Giustiniani q. Gian Antonio q. Giambattista e Placidia De Marini, battezzato il 4 febbraio 1660 in Santa Maria di Castello, e ascritto il 18 dicembre 1679: cfr. Guelfi Camajani, p. 285-286; AS Ge, AS, 2836, doc. 102; 2839, doc. 70. L’identificazione dell’oratore con il futuro doge è congetturale: sembra verosimile che lui, e non l’omonimo, fosse considerato uno dei personaggi di punta della casata.
[491] ASC Ge, Manoscritti Brignole Sale, 107.A.3, allegato.
[492] Ivi, allegato “Racordi nel Minor Consiglio sopra la propositione della Legge del Portofranco delle merci nella p<rese>nte Città. 1705 a 26 maggio”.
[493] AS Ge, AS, 1011, lettera anonima indirizzata alla Giunta del portofranco, 1703 marzo 15.
[494] Sui Brignole Sale feudatari di Groppoli cfr. M. S. Rollandi, A Groppoli di Lunigiana. Potere e ricchezza di un feudatario genovese (sec. XVI-XVIII), “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, CX (1996), 1, pp. 5.-149. Negli anni dei quali si parla il marchese di Groppoli era Anton Giulio II Brignole Sale, titolare del feudo dal 1694 al 1710.
[495] AS Ge, AS, 1011, lettera anonima del 1703 marzo 17, supra.
[496] Lo identifico con Raffaele q. Gian Antonio e Placidia De Marini, nato verso il 1642 e ascritto il 19 dicembre 1657. Cfr. Guelfi Camajani, p. 284; AS Ge, AS, 2835, doc. 22.
[497] Si deve trattare di Agostino q. Gian Antonio, battezzato in San Lorenzo il 13 gennaio 1638 e ascritto il 23 marzo 1665. Cfr. Guelfi Camajani, p. 497.
[498] Cfr. AS Ge, AS, 1011, “1707 a dì 27 luglio nel Minor Consiglio congregato in n° di 159 comprese le persone de Ser<enissi>mi Collegi”. Filippo Scaglia q. Gian Francesco q. Giovanni e Giovanna Maria Gropallo era nato verso il 1639 e ascritto l’1 luglio 1661. Cfr. Guelfi Camajani, p. 454; AS Ge, AS, 2836, doc. 25. Domenico Franzone sembra da identificare con uno dei figli di Paolo Geronimo q. Anfrano, nato il 25 marzo 1661 e ascritto il 17 dicembre 1675, piuttosto che con il più giovane figlio di Stefano q. Tommaso, battezzato l’11 luglio 1680 e ascritto il 5 dicembre 1701. Cfr. Guelfi Camajani, 211; AS Ge, AS, 2838, doc. 137.
[499] Questi darti, e quelli che seguono sulle carriere dei personaggi citati nel testo sono tratti dalla schedatura informatizzata che chi scrive ha compiuto su un campione di alte cariche della Repubblica dal 1686 al 1725, spogliando le serie documentarie utili conservate nell’Archivio di Stato di Genova. Salvo diversa indicazione, le informazioni citate sono pertanto tratte da questa base di dati.
[500] Cfr. AS Ge, AS, 1011, 1703 marzo 12 e seguenti: sunto dell’operato della giunta di sei soggetti dei Collegi e del Consiglietto sul portofranco.
[501] Per un quadro di riferimento aggiornato, rinvio una volta per tutte ai contributi e alle indicazioni bibliografiche contenuti in Genova, 1746. Una città di antico regime tra guerra e rivolta, a cura di C. Bitossi e C. Paolocci, Genova 1998; ivi Paolo Giacomone Piana, L’esercito e la marina della Repubblica di Genova dal trattato di Worms alla pace di Aquisgrana (1745-1748), pp. 407-439, e R. Dellepiane, Scelti e compagnie urbane. Le milizie della Repubblica di Genova durante la guerra di successione austriaca, pp. 441-456, citano la corrispondenza dell’Imperiale per le informazioni sulla campagna di guerra del 1746.
[502] Biblioteca Centrale Berio (d’ora in poi BCB), Genova, Manoscritti (d’ora in poi Mss) rari, IX.2.15, Lettere al marchese Lorenzo Imperiale intorno alle cose della Repubblica di Genova e di Corsica negli anni 1746-47. Il manoscritto comprende cc I+461 di dimensioni varie; la notazione “Fine del volume” sul interno del piatto posteriore della copertina è di mano ottocentesca; della stessa epoca la legatura in pergamena. La numerazione archivistica delle lettere giunge al numero 244, ma almeno negli ultimi numeri si riscontra un palese errore: la lettera 242 dell’11 novembre 1747 porta anche le segnature 243 e 244 nei fogli successivi. In effetti sono stati conteggiati come lettere anche i figli di notizie ed avvisi allegati. Alcuni di questi, come si è accennato nel testo, mancano; non solo la relazione dell’insurrezione di dicembre del 1746, ma anche, ad esempio, la “portata di mare de bastimenti che sono in q.to porto nella pres.te settimana ragionti” annunciata da Degola nella conclusione della lettera 4, del 22 gennaio 1746. Avverto che nelle note le lettere sono citate nel testo originale, senza variazioni; sono poste tra parentesi uncinate le lacune e le parole cancellate, tra parentesi quadre le integrazioni infralineari o sopralineari dell’autore, e tra parentesi graffe le integrazioni congetturali di chi scrive; se non diversamente specificata, la data topica delle lettere è sempre Genova. Le lettere sono citate in forma abbreviata: L (= lettera) seguito dal numero progressivo della stessa, dalla data e dalla carta.
[503] Degola è l’autore esclusivo della prima parte dell’epistolario, e nel complesso del maggior numero di lettere. La prima lettera di Conti è la 60, dell’11 giugno 1746.
[504] F. Toso, Letteratura genovese e ligure. Profilo storico e antologia, III. Il Settecento, Genova 1990, pp. 23-24; La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova 1992, II, p. 313; F. Toso, Conti, Ambrogio, in Dizionario Biografico dei Liguri, III, Genova 1996, pp. 514-515.
[505] Ra Gerusalemme delivra…., Zena, Tarigo, 1755; “col suo nome firmò la versione dei canti X, XI, XIII, XIV, XV, XVI, XVII, con lo pseudonimo di Itnoc Oxuoerbma (Ambrogio Conti a rovescio) i canti III, V, VI”: F. Toso, Conti, Ambrogio, , p. 515.
[506] Nato il 18 maggio 1697 e ascritto il 13 dicembre 1719, sposò l’8 gennaio 1729 Maria Centurione di Gio. Tommaso q. Lorenzo, nata il 30 agosto 1711. Cfr. G. Guelfi Camajani, Il “Liber Nobilitatis Genuensis”, , p. 505; N. Battilana, Genealogie delle Famiglie Nobili di Genova, Genova 1825, tav. 90 della famiglia Spinola; Gli Archivi Pallavicini di Genova. II. Gli archivi aggregati, a cura di M. Bologna, “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, CIX (1995), 2, p. 384. Spinola si firma “Giorgio Spinola q. G. B.”, che sembrerebbe rimandare a un patronimico Giovanni Battista. In realtà nessun personaggio con quell’identità viveva all’epoca delle lettere; e forse proprio per questo egli si esimeva dall’usare una abbreviazione più coerente con il patronimico, ad esempio G. B.ti, o G. Ben.ti, come risulta documentato per epoche precedenti.
[507] Si tratta di L 135, 1 ottobre 1746, cc 247r-248v, e L 143, 15 ottobre 1746, cc 262r-263v.
[508] Si veda ad esempio L 61, 11 giugno 1746: “Una Zuppa di due lunghe Sessioni di Consiglietto, & altra di Mag.to per ore 4 1/4 mi hanno rotto il capo, & obbligato a stare in casa”.
[509] In L 160, 31 dicembre 1746, cc. 297-297v, l’abate Conti scriveva: “come meglio intenderà V. E. dal Sig.r Degola, e Sig.r Giacomo Filippo Durazzi, à quali ricapitai subito le accluse in proprie mani; ad ogni modo mi resterò su l’essempio degli altri standovi molto atento, che perciò penso di abboccarmi con lo stesso Sig.r Durazzi, per prender lume, e non dare in superfluità, come già scrissi”. In L 186, 21 aprile 1747, c. 355v, l’anonimo osservava che “[…] L’Ecc.mo Felice {Pinelli} non ostante la di lui lontananza di quì, e la età, non trova {modo} di essere scusato; per non soggiacere ad un simile disastro, ò durezza penso di passare à Pisa. ò Siena, e mandare le fedi di mia absenza, regolatevi con tale notizia per scrivermi e darmi vri. Commandi”. Nella successiva L 190, 29 aprile 1747, Degola scriveva: “Con ammirazione della Città si è veduto partire dà Genova il Sig.r Giaccomo Filippo Durazzi, il quale ha ottenuto il permesso mediante il sborzo di s. 1000 o sia 2000 Arg.to per l’Ecc.ma Camera”. Su Giacomo Filippo Durazzo II q. Marcello, nato il 10 ottobre 1672 e morto il 7 marzo 1764, si veda L’archivio dei Durazzo marchese di Gabiano, “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, XCV (1981), pp. 19-20, 627, e la tav. 5 che riproduce un ritratto dello stesso, per altro risalente a un’epoca con ogni evidenza precedente quella documentata nell’epistolario. La prima lettera del Durazzo è L 61, 11 giugno 1746, cc 10r-110v; l’ultima è L 186, 21 aprile 1747, cc 355-356v.
[510] E’ L 165, 20 gennaio 1747, cc. 307r-307v., nella quale Lomellini chiarisce di non aver accompagnato il principe Doria nell’estremo tentativo di mediazione col generale Botta Adorno il primo giorno dell’insurrezione: a farlo era stato il quasi omonimo Agostino Lomellini q. Carlo Agostino. Spiegava di essere stato “varj giorni obligato al letto da febbre e raffreddore con due emissioni di sangue, e appena convalescente ho dovuto assistere alla morte di mio padre [Bartolomeo Lomellini, nato nel 1670] seguita Domenica scorsa dopo lunga malattia di quasi sei mesi” . Anche lo zio Filippo, il fratello minore del padre, nato nel 1672, “pieno ancora di disgusto, e di catarro” aveva bisogno della sua assistenza. Sul personaggio il rinvio ovvio è a S. Rotta, Documenti per la storia dell’Illuminismo a Genova: lettere di Agostino Lomellini a Paolo Frisi, in “Miscellanea di Storia Ligure”, I (1958), pp. 191-329.
[511] Citata nelle lettere dell’abate Conti e di Gio. Antonio Degola a Lorenzo Imperiale pubblicate in appendice.
[512] Ringrazio la dottoressa Laura Malfatto e i suoi collaboratori della sezione di conservazione della Biblioteca Berio per le informazioni gentilmente comunicatemi al riguardo. A favore di una acquisizione del manoscritto alla Berio in epoca piuttosto remota sta il fatto che esso porta ben tre segnature: Dbis, 4, 3,7; Dbis, II, 5, 41; e l’attuale m. r. IX.2.15.
[513] BCB, Mss rari, IX.1.24, Federico Imperiale, Lettere inviate ai Ser.mi Collegi quale governatore generale del Regno di Corsica (1668-1670). Si tratta del copialettere delle sue missive alle magistrature cittadine tenuto dal segretario Gio. Andrea Ratto di Alessandro, notaio collegiato.
[514] BCB, Mss rari, IX.1.10, IX.1.11, IX.1.12 Lettere del Doge, Governatori e Procuratori della Repubblica ad Ambrogio Imperiale, Governatore gen.le. di Corsica (1696-98), tre volumi; BCB, Mss rari, IX.1.20, Lettere ad Ambrogio Imperiale Gov.re gen. di Corsica negli anni 1695-98; contiene lettere dal 16 novembre 1695 novembre all’1 luglio 1698; BCB, Mss rari, IX.2.19, [Ambrogio Imperiale] Lettere scritte durante il suo Commissariato in Corsica (1696-1698), contiene lettere dal 21 settembre 1696 all’8 maggio 1698: manca pertanto probabilmente un altro copialettere; le missive sono indirizzate quasi tutte all’Ufficio di Corsica; BCB, Mss rari, IV.4.30, [Corsica. Miscellanea di documenti]: comprende lettere di Ambrogio Imperiale, 1696-1698; documenti del 1696-1712 su affari ecclesiastici di Corsica e Capraia; memorie varie, sempre riguardanti il governo di Ambrogio Imperiale in Corsica, sulle torri dell’isola, sulle spese, sui disegni per case e quartieri in Bonifacio nel 1696, sull’appartamento del governatore a Bastia nel 1698; BCB, Mss rari, IX.1.19, Ambrogio Imperiale, Carte riguardanti la sua missione presso la corte di Spagna negli anni 1701-1704; BCB, Mss rari, IV.4.32, Carte relative alla strada da Serravalle a Milano (1680-1687), comprende il carteggio tra il governo della Repubblica e l’Imperiale inviato in missione a Milano per la questione della strada, apparentemente.
[515] Sulla sua missione si veda Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi. V. Spagna (1681-1721), a cura di R. Ciasca, Roma 1957, pp. 253-289, dove è edita anche la relazione dell’Imperiale sulla corte di Spagna. Per apprezzare la delicatezza del momento va ricordato che la morte di Carlo II di Spagna rischiava, come in effetti accadde, di smembrare quell’agglomerato territoriale che gli Austrias avevano governato per quasi due secoli e con il quale la repubblica di Genova aveva stabilito un rapporto simbiotico.
[516] L. M. Levati, I Dogi di Genova e Vita Genovese negli stessi anni con prefazione del P. Semeria, Genova 1912, pp. 26-28; S. Buonadonna, M. Marcenaro, Rosso doge, I dogi della Repubblica di Genova dal 1339 al 1797, Genova 2000, p. 171. Ambrogio divenne doge a settant’anni di età, essendo nato nel 1649.
[517] Attingendo al Della Cella, nella sua biografia del doge Ambrogio Imperiale Levati riprende il ritratto dell’abate Michele Imperiale, “dotato … di non mediocre erudizione non ostante con l’umore suo non poco bizzarro e fantastico si rendeva affatto ridicolo”. Curiosamente, il fratello di Lorenzo non viene però mai qualificato nelle capitazioni come un ecclesiastico. Osserviamo che alla bizzarria attribuita a questo abate Michele fa riscontro quella riconosciuta in Lorenzo dall’inviato francese Campredon: vedi infra. G. Guelfi Camajani, Il “Liber Nobilitatis Genuensis”, , p. 262, fa di Michele, battezzato il 16 settembre 1683 nella chiesa di Borzoli, il primogenito del doge. G. Oltrona Visconti, con la collaborazione di G. di Gropello, Imperialis Familia, Piacenza 1999, tav. 12 data la morte di Michele al 7 febbraio 1766; a p. 89 riporta le lapidi poste sopra i tre ponti da lui fatti edificare per pubblica beneficenza sui torrenti Sestri e Polcevera. Anche nelle lapidi suona in effetti una nota di bizzarria: in quella presso il ponte sul Sestri Michele Imperiale, invece di segnalare il nome del padre, si definisce “Martiae Centurionae filius ac patruus”. La Marzia della quale si vantava zio è la figlia di Lorenzo, “Marzietta” nelle lettere, nata il 29 novembre 1740 e morta il 7 novembre 1812. Può ben essere, pertanto, che questo Michele Imperiale sia lo stesso che attorno al 1726 aveva fatto rappresentare a Genova Viva Camilla, “canzonette amorose da cantarsi su l’aria antica francese Suivons l’amour”: cfr. L. T. Belgrano, Delle feste e dei giochi dei genovesi. Appendice al cap. I, in “Archivio Storico Italiano”, s. III, XVIII (1873), p. 125
[518] Era anch’egli maggiore di età di Lorenzo, essendo nato il 20 giugno 1686: cfr. G. Guelfi Camajani, Il “Liber Nobilitatis Genuensis”, , p. 262. Il suo nome non si trova però in nessuna delle capitazioni degli anni ’30 e ’40, oltre a non essere mai menzionato nelle lettere.
[519] Nel 1731 Lorenzo e Michele erano tassati su imponibili di 1.400.000 e 1.420.000 lire rispettivamente; nel 1738, con criteri di calcolo diversi, gli imponibili dei due fratelli erano di 268.000 e 206.600 lire; nel 1744 di 445.000 e 182.500 lire (in quest’ultimo caso i tassatori annotarono che Lorenzo era chiamato a pagare anche per l’eredità del q. Francesco Imperiale q. Giulio). A titolo di confronto, al principe di Francavilla vennero attribuiti imponibili di 5.000.000 nel 1731 e 1.875.000 nel 1738. Cfr. Archivio di Stato di Genova (= AS Ge), Antica finanza, 595, per la capitazione del 1731; Antica finanza, 508, per la capitazione del 1738; Antica finanza 381, per la capitazione del 1744.
[520] Michele risulta invece tassato ancora nel 1751: cfr. AS Ge, Camera, 2633.
[521] Su Genova nella guerra di Successione austriaca rimando a F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 200-220; Genova 1746, ; sulla guerra di Successione in generale si vedano R. Browning, The War of the Austrian Succession, Stroud 1994; M. S. Anderson, The War of the Austrian Succession, 1740-1748, Harlow 1995.
[522] Cfr. [G. F. Doria], Della Storia di Genova dal Trattato di Worms fino alla pace d’Aquisgrana. Libri Quattro, Leida 1750, p. 30; notizia sul comportamento dell’Imperiale nella coeva cronaca novese di Pietro Francesco Richini, edita in appendice a D. Calcagno, La Guerra di Successione Austriaca in Oltregiogo attraverso un’inedita cronaca coeva, in Genova 1746, , pp. 523-541.
[523] In L 103 [?], 13 agosto 1746, c. 157v, Giacomo Filippo Durazzo scrive: “Non si è lasciato di parlare della vra. persona in occasione del marchese di Balestrino, per fare il cambio, ma atteso il diverso rango, temo che non vi sarà luogo”. Si veda inoltre L 161, 7 gennaio 1747, cc. 299r-299v, dello stesso Giacomo Filippo Durazzo: “Non si parla di permutare Prigionieri con li Tedeschi, ne con li Savoiardi, sicchè ben vedete non avere io Luogo di parlare di voi, come per altro farò alla prima apertura che si farà”. [G. F. Doria], Della Storia di Genova, , p. 365, riferisce che Lorenzo Imperiale, trovandosi a Napoli, fu incaricato di dare notizia della ritirata degli austro-sardi al re delle Due Sicilie.
[524] Artemisia doveva essere ancora viva nel 1777, stando al Cattalogo di Dame e Cavallieri Ammogliati, anche di quelli, che a mia cognizione sono trapassati prima del sud.° anno [1777]…, Biblioteca Universitaria di Genova, Manoscritti, B.I.50, c. 10r.
[525] Cfr. A. M. Buonarroti, Alberi genealogici di diverse famiglie nobili…, BCB, Mss rari, VIII.2.29, tavole 230-231. Il solo personaggio di questo cognome compatibile con l’indicazione genealogica del Buonarroti è Carlo q. Gio. Batta q. Carlo, dei Centurione Scotti, nato il 3 settembre 1736 e ascritto al patriziato il 22 settembre 1745. Cfr. G. Guelfi Camajani, Il “Liber Nobilitatis Genuensis”, , p. 130.
[526] Cfr. S. Rotta, “Une aussi perfide nation”. La Rélation de l’Etat de Genes di Jacques de Campredon (1737), in Genova 1746, , pp. 609-708; la relazione si legge alle pp. 638-708; la citazione è a p. 667. Gio. Tommaso Centurione, nato il 10 agosto 1679, fu imbussolato nell’urna del Seminario nel 1720, senza però essere mai estratto; morì a Torino l’1 aprile 1744. Aveva sposato Maria Francesca Imperiale verso il 1706. Cfr. Archivio Storico del Comune di Genova (= ASC Ge), Mss Brignole Sale, 105.D.7; Gli Archivi Pallavicini di Genova. II, , p. 383.
[527] S. Rotta, “Une aussi perfide nation”, , p. 671.
[528] Con inconsapevole anacronismo: per un genovese del 1746 Repubblica e Corsica non sarebbero state distinguibili, come entità politiche separate.
[529] Si veda però una testimonianza addirittura della primavera precedente: L 23, 12 marzo 1746: “Questa matt.o v’è stata Cong.ne del Maggior Consiglio. E’ stato proposto di obbligare le communità, e Parochie di dare alla Rep.a tutti quelli uomini che le abbisognano per servire da soldati. La proposizione non è stata aprovata non ostante sia stata proposta per tre volte”. E in L 136, 8 ottobre 1746: “Il Consiglio Grande si è dichiarato di non voler concorrere nella propositione nel’ultimo Consiglio Grande stata proposta,e sopra di ciò è stata presentata una Scrittura alle mani del Ser.mo à nome dell’Universale del Consiglio. Molte cose si pretendono in detta Scrittura, fra l’altre di levar dà mezzo la Nuova Gionta, e la Legge, che diede facoltà al Consiglietto, et alli Ser.mi Colleggi di ellegger d.a Gionta, si contiene ancora d.a Scrittura di revocare altre Leggi”. Sulle proteste dei nobili poveri nell’autunno 1746 si veda C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, , pp. 396-398.
[530] Cfr. C. Bitossi, Il ceto dirigente della Repubblica alla vigilia della guerra di Successione austriaca, in Genova 1746, , pp. 29-62
[531] Si legga L 92, 26 settembre 1746, cc. 171r-171v: “Sono indicibili le baronate succedute per far perdere lo Credito alla Casa di S. Giorgio per parte di molte case delle più conspicue (di quelle però che fanno lo Mercante, e Bazaiotto) e tutto ciò per fare l’usura con etorquere [sic] dà timorosi, non informati dell’esistenza della Casa di S. Giorgio) 4 e 6 per 100 per il pagam.to de Biglietti. Si è sparsa voce per la Città, che varij sogetti e forze saranno li med.mi hanno ancora tentato di fare altro Negozio col Genle. Botta. Et avendole fatto esibire Biglietti per mezzo di Mercanti Milanesi per avere l’effettivo, che hà riccevuto dall’Ecc.ma Camera, acciò poi lui si facesse pagare dà S. Giorgio li detti Biglietti di Cartolario. Ma detto Genle. non ostante un non piccolo profitto hà ricusato tale progetto. Si conosce ad evidenza, che queste alzate sono state studiate per cavare grandiosi profitti senza correre alcun rischio”.
[532] In L 135, 1 ottobre 1746, c 248r, Giorgio Spinola scrive allo zio: “Molti Nobili sono partiti sotto un prettesto, e sotto l’altro dalla Città, e se và continuando una tal cosa si riduranno à pochis.i”.
[533] Su questi episodi e personaggi si vedano le note alle lettere pubblicate in appendice.
[534] L’espressione si trova in Delle Historie Memorabili De suoi tempi. Scritte da Alessandro Ziliolo. Libri Dieci, In Venetia, per li Turrini, 1642, p. 164.
[535] Cfr. ASC Ge, Manoscritti, 341, Vero, e distinto ragionamento fatto da Giulio di Agostino Pallavicino, per lo quale con ogni curiosita, si narra la scelerata guerra mossa l’anno 1625 dal Duca di Savoia alla Rep.ca di Genova scritta da lui con ogni verita..., cc. 39r-39v.
[536] L 168 *, 10 febbraio 1747, scritta da Degola. “Il giorno 5 avanzatosi di notte verso un nostro Pichetto un numero di Paesani gridando Viva Maria, segnale de nostri, il d.° picchetto appresi per amici perchè parlavano Genovese, et erano de nostri Paesani di Voltaggio furono [questi] riccevuti, ma avendo essi un buon numero di Tedeschi addietro, che [seco] conducevano <mas> uccisero il pichetto, che era composto di Paesani, e molti Micheletti Spagnuoli però li Tedeschi furono anche essi battuti dà nostri [che sopragionsero] nella loro ritirata”.
[537] Si veda ad esempio L 163, 20 gennaio 1747, cc 303r, 306v. E in L 172, 18 febbraio 1747, c 327r, Degola nota: “E’ indicibile il Corraggio col quale tutta la Città se ne marchia in Campagna”.
[538] L 172, 18 febbraio 1747, c327r.
[539] In L 163, 20 gennaio 1747, c. 303v, Degola, dopo aver riferito della fallita discesa dei tedeschi su Voltri, aggiunge: “dà Paesani ne furono uccisi gran quantità, essendosi il d.° Corpo rimasto in quattrocento mezzi morti di fame, e di freddo, essendo à <qti.> molti di questi gelato le Gambe per l’insofribili freddi, che abbiamo avuto in questi giorni passati”.
[540] L 165, 26 gennaio 1747, c 308r.
[541] Si veda ad esempio L 186, 21 aprile 1747, [Durazzo], c. 355v: “Li Vandali corrono in molte parti della Polcevera, e devastano il Paese con ancora incendiare Case, e commettere qualche eccesso contro vecchj, Donne, ed eziandio Bambini, se meriti gloria un tale procedere, ditelo voi”; ma già in precedenza Lomellini, nella lettera citata supra, c. 308v, aveva osservato: “Sono Vandali, e Goti, che sono sempre stati il flagello della nostra povera Italia”.
[542] L 158, 31 dicembre 1746, c293v: “Botta và unendo tutta la Truppa che può, obligando i Lombardi, anche di Parma a prendere le armi”. La lettera è di Durazzo.
[543] L 163, 20 gennaio 1747, cc 303r, 306v.
[544] L 169bis, 11 febbraio 1747, c 321r: “li dd.i Polceviraschi, almeno una buona parte compariscono, e sono tenuti per traditori, sono indi stati condotti nelle carceri molti altri complici, e Preti, e Parochi, e se ne sta formando ora rigoroso Processo, sussurrandosi da Popolari, che possono detti Ploceveraschi essere sostenuti da mani alte, essendosi ancora fra Popolari divulgato, che li Polceveraschi volessero introdurre li Tedeschi dentro le porte di Granarolo, et Angioli”.
[545] Cfr. L 168 **, 10 febbraio 1747 [Degola], c. 316v: “E’ stato publicato un’Editto per parte del Ser.mo Governo, nel quale si impongono rigorose pene contro chionque ardità di chiamare per ribelli tanto li Polceveraschi, quanto li Bisagnini, questo Editto ò che è stato fatto per politica, ò perchè si sarà giustificata la innocenza de medemi stati tacciati dal Popolo per ribelli, per avere avuta inteligenza col Botta”.
[546] L’osservazione è fatta in primavera, in L 188, 22 aprile 1747, c 360r: “Si fanno da nemici continue scorrerie dà tutte le parti e per dove passano non danno quartiere ad alcuno, et abbruggiano le Case, e luoghi intieri. Li feudi circonvicini ci fanno grandi danni servendo alli nemici di spia, e condottieri di tutti li passi. Se ne vanno prendendo qualche d’uni e non s’impiccano”.
[547] Si vedano i contributi alla giornata di studi commemorativa dell’assedio e della presa del castello di Masone raccolti in 1747. Masone in guerra. La guerra di Successione Austriaca vista dalla periferia del Dominio genovese, a cura di T. Pirlo e P. ottonello, Masone 1998. E in L 162, 14 gennaio 1747, c 301v, Durazzo già segnalava: “si crede, che quella gente [di Campofreddo] abbia insegnato le Strade a Croati per evitare i nri. Picchetti”.
[548] Si veda L 192, 6 maggio 1747, c 365r: “scesi liberamente li Austriaci dalle alture di Coronata, Fegino, e Borzori a forza di un gran fuoco si sono impadroniti di Sestri, e hieri di Pegli è Voltri, <che> [dove] sebbene in num.° assai superiori j nostri senza intelligenza de Comandanti Sig.ri Anfrano Saoli, Asereto, e Barbarossa da quelli anziani si capitolò col comandante austriaco salvo l’onore, Beni, e vita, di modo che dovettero li sud.i Comandanti ritirarsi di nascosto in Città”.
[549] L 189, 22 aprile 1747, c 361r: “li paesi abbandonati danno luogo a paesani di bottinare più, che non fanno li Croati. A Sestri particolarmente vi sono rimaste una trentina circa di ladri paesani che spacciano le Case, e cosi siegue in tutti li altri luoghi”.
[550] L 189, 22 aprile 1747, c 361r.
[551] In L 190, 29 aprile 1747, c 362v, Degola riferisce sconsolato: “in una Parola li austriaci e à ponente e à levante corrono à danneggiare tutto il Paese stato abbandonato da tutti li abitanti de respettivi luoghi, il che è causa, che li Tedeschi vanno à mano franca senza rischio aiutati da Paesani, che saccheggiano più, che non fanno li stessi Tedeschi et à Molasana anno abbruggiato il Palazzo Sauli”.
[552] L’episodio doveva aver suscitato una profonda impressione, se meritò di essere raccontato due volte: in L 136, 8 ottobre 1746, e L 169 bis, 11 febbraio 1747.
[553] Anche questa notizia è riferita in L136, 8 ottobre 1746, c. 250r-250v.
[554] L 169bis, 11 febbraio 1747, c 320r.
[555] Cfr. C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”. Patriziato e governo a Genova nel secondo Settecento, Roma 1995, capitolo V.
[556] L 163, 20 gennaio 1747, c 304v.
[557] L 169bis, 11 febbraio 1747, c. 321v.
[558] Si veda L 178, 25 marzo 1747, c. 341r: “Ne’ giorni passati fù fatto carcerare per ordine de Inquisitori di Stato il Sig.r Nicolò M.a Gentile, e udita tale carcerazione dal suo <di> Genero Sig.r N. di Negro si portò à Palazzo per sapere il mottivo della Carcerazione del suocero, entrato in Cancell.a del d.o Mag.to domandò al S.r deputato nuove del suo suocero, al quale subito fu risposto vadi sopra anche lei, e fù chiuso anch’esso in Torre. Il mottivo di tale carcerazione pare, che possa essere per sospetto stato preso contra di lui, come complice, se non primario Fautore dell’insulto grande che fù fatto contro del Real Palazzo, quando le fù strascinato contro la Porta il cannone, altri poi credono, che non meno delitto sia stato quello, doppo d’avere così liberam.te parlato contro del Ser.mo Governo sul giorno, che vi fù la Congregazione del Gran Consiglio, quando si trattava dell’imposizione della Tassa, e del modo di obbligare li Particolari Cittadini Insolidum di essere andato per la Città ne publici circoli à publicare la sua parlata, che aveva in d.o Consiglio fatta”. Nicolò Gentile paga insomma le antiche impertinenze e la recente partecipazione, chissà quanto reale, all’assalto di gennaio al Palazzo Ducale.
[559] Su di lui si veda più avanti la nota in appendice.
[560] L 163, 20 gennaio 1747, c 306r. La lettera è di Degola. Il quale aggiunge: “Hanno procurato i Nobili levar di mezzo questo sospetto essendosi li medemi de Principali avanzati ancora in ettà, come il S.r Giuseppe Durazzo, et altri di simile rango, e prese le Armi alla mano alla testa di Compagnie dà loro fatte composte di Nobili, e non Nobili sono marciati in Campagna”.
[561] L 163, 20 gennaio 1747, cc 303v-304r. La lettera è di degola.
[562] Si veda L 163, 20 gennaio 1747 di Degola, c 303v: “questa gran Truppa di Popolaccio in grandioso però numero strascinò un Canone di rimpetto alla Porta del Real Palazzo per farsi concedere le Armi, che domandavano, che si difficultava à dargliele à mottivo, che già tutta la Città ne ripiena, e già la miccia era accesa, et in atto di principiar à dare fuoco al Canone, contro di che accorsero qualche Cavaglieri, che ivi si ritrovorono frà l’altri il Principale fù il S.r Giacomo Lomellino, il quale affidato sulla benevolenza del Popolo si pose à mezzo gridando Figli quietatevi, in questo mentre però se non fosse stato dà qualche persone, che aveva seco portato via, e chiuso in una porta sarebbe forzi rimasto estinto, allo stesso tempo s’avanzò sù la porta del corpo di guardia il S.r Gio. Batta Grimaldo, uno anch’esso de Capi popolo, e della Gionta Generale gridando [304v] anch’esso tutto si farà questo Cavagliero fù ingiuriosam.te strapassato dal Popolo, e si posero à salire li Rastelli di ferro sforzorono le guardie, bastorono [sic: forse per bastonorono] à brettio quelli Ufficiali, prese ancora una bastonata il Maggiore di Palazzo Massone, entrorono con violenza appertisi li rastelli tutti questi sollevati gridando bisogna amassare tutti i Nobili perchè sono Traditori; si portorono tutti con gran violenza nell’armeria del Palazzo, e la svalligiorono talmente, che portorono via non solo tutta la gran quantità d’armi, che ivi trovorono, ma ancora Casse intiere di Canne smontate, fasci di trappe da schioppo, e tutti i fucili nudi, e perfino le bandiere, e con li picossi sino ruppero le sganzie, portando via quelli rotami di tavole per legna”.
[563] Si veda L. Grasso, Storia biografica e politica della città di Genova, citato.
[564] Infatti, la voce subito circolata che fosse venuta dai governanti l’insinuazione sui capi del Quartier generale del popolo viene riferita da L 169bis, 11 febbraio 1747, c 320v: “si sussurrava, che il Governo Ser.mo avesse fatt’instigare il Popolo a fare d.e carcerazioni, perche il Governo volesse ripigliare la sua autorità, e levar di mezzo il sud.o Quartier Genle, come un principio di democrazia, al che certo il Governo non poteva aver pensato per mille, e mille forti raggioni, che ben si capiscono, senza descriverle”. Chissà se qualche oligarca non ci aveva davvero pensato.
[565] Mi limito a rimandare alla voce dedicata a René-Louis de Voyer de Paulmy, marchese d’Argenson, ministro degli esteri dal 19 novembre 1744 al 10 gennaio 1747, in A. de Maurepas-A. Boulant, Les Ministres et les ministères du siècle des Lumières (1715-1789). Etude et dictionnaire, Paris 1996, pp. 140-144. Notizie su di lui anche nell’esauriente lavoro dedicato al più fortunato fratello, il ministro della guerra Marc-René de Voyer de Paulmy, conte d’Argenson: Y. Combeau, Le Comte d’Argenson, Ministre de Louis XV, Paris 1999. Si legga l’entusiastico commento di Degola in L 168*, 10 febbraio 1747, cc. 314v-315r: “Se si può credere vero tutto ciò si è, che quel Rè sia stato illuminato dalla grande cecità in cui per tanto tempo è vissuto, con aver conosciuto che il suo Gabinetto era maneggiato dà un Ministro tutto contrario al vantaggio di quel Regno. Questo <era> M.r d’Argenson, tutto portato per li vantaggi della Corte di Savoia, questo Ministro è stato mandato via dal Ministero”.
[566] Sull’appannamento del carisma di Luigi XV, le Bien-aimé, negli anni immediatamente successivi alla guerra di Successione austriaca (durante la quale era per altro già avvenuta l’umiliazione di Metz: il rifiuto dei sacramenti al re caduto malato e creduto in punto di morte, se non rinnegava la relazione adulterina con madame de Chateauroux) ricordo soltanto le rapide notazioni contenute in A. Farge, J. Revel, Logica della folla. Il caso dei rapimenti di bambini nella Parigi del 1750, Roma-Bari 1989 (ed. or. 1988).
[567] L 172, 18 febbraio 1747, di Degola, c. 327v.
[568] Si legga il commento di Conti in L 192, 6 maggio 1747, c 366r-366v: “La guardia del sud.° Sig.r Duca al Palazzo Tursi, è formata da nostre compagnie urbane di divisa e se ne trova molto contento, trattando sempre a sua Tavola li ufficiali delle medeme, tal che quel grandioso [Palazzo] che in assenza de Padroni pareeva che più non vi fosse, ora sembra la ressidenza di un monarca per la corte grandiosa, che vi si vede”.
[569] Si veda la L 193, 6 maggio 1747, di Degola, c. 367v: “Si vede hora nel Popolo una inesplicabile indolenza, stentandosi à ritrovare persone, che voglino andare alle guardie delle mura e trincieram.ti del monte. Vanno le compagnie urbane delle parochie, preso, che anno pane, e sussidio se ne ritornano in città. à tal segno, che li ufficiali francesi restano scandalizzati, <non> vedendosi affatto estinto quel coraggio, che manifestò questo Popolo nell’azione del Giorno 10 Xbre”. Degola si ripete in L 196, 13 maggio 1747, c. 372r: “Nella sera de 6 si battè la Genle. per discacciarli dà Coronata. Si unirono tutte le compagnie di divisa, e furono complete. Quelle Parochiali furono scarze di numero, e scandalosa fù quella di Portoria, che non arivò ad unire 30 uomini per attendere alle rubberie. […] Se pure un tale progetto non fosse stato un finto all’armi studiato dal Genle. di Bofflers per assicurarsi di quanto in una occasione possa <esser> farsi Capitale {volendo} del valore Genovese. Et in fatti rimase esso S.r Duca scandalizzato nel vedere in questo Popolo un’indolenza tale, che non rassembra un’ombra di quel valore, e coraggio, che seppe esercitare <le> nel giorno 10 xbre. Oltre di che non si ritrovano persone, che voglino andare alla guardia delle Trincee”.
[570] L 190, 20 aprile 1747, c 362r.
[571] L 190, 29 aprile 1747, di Degola, c 362r.
[572] L 190, 29 aprile 1747, c 362r; e Degola aggiunge: “et una quantità grande d’altre persone pure se ne sono partite”. Degola spiega la riluttanza plebea a combattere proprio come una conseguenza della diserzione di tanti patrizi.
[573] Descritto dall’abate Conti il L 192, 6 maggio 1747, c 365v.
[574] L 193, 6 maggio 1747, c 367v, di Degola.
[575] L 190, 29 aprile 1747, c 363r, di Degola.
[576] L 174, 25 febbraio 1747, c 330v, di Degola, che ne segnala una “composta tutta di Cavaglieri in numero di 100 e più Cobbie col Sant.mo Crocefisso avanti con due Torchie, et il Rosario alla mano”.
[577] Si legga il preoccupato commento in L 169bis, 11 febbraio 1747, c 320r: “assuefacendosi il Popolo al non pagare alcuna Gabella, facendosi lecito introdurre dalle Porte della Città ogni, e qualunque genere di robba, senza che le Guardie abbiano ardire d’impedirle l’ingresso, renderà molto più difficile il rimettere le cose al dovere, si vende per tutte le publiche Piazze sale, e vino da chiunque, cosa che fà stordire”.
[578] Si veda già L 163, 20 gennaio 1747, c 305v: “Fece bel vedere il S.r Giuseppe Durazzo, che col schioppo alla mano alla testa di una numerosissima Compagnia, a quali andava dispensando lire per animarli […]”. Il corsivo è nostro.
[579] L 169bis. 11 febbraio 1747, c 320r.
[580] Mi permetto di rinviare a C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, citato.
[581] [G. F. Doria], Della Storia di Genova dal Trattato di Worms fino alla pace d’Aquisgrana, ; F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, citato.
[582] G. Assereto, Il mal della pietra. L’insurrezione genovese del 1746 e la controversia su Balilla, in Genova 1746, , pp. 183-208, racconta benissimo le vicende della questione balilliana. Ma in proposito si vedano anche gli altri contributi a Genova 1746, citato. Rispetto ad una ricostruzione critica degli eventi, la lunga controversia sulla natura spontanea o organizzata dell’insurrezione di dicembre e sull’azione del Quartier generale del popolo, autonoma o eterodiretta dal governo oligarchico, appare una falsa pista.
[583] Lapsus calami per 5.
[584] Giacomo Lomellini q. Agostino Maria, nato nel 1705, attivissimo nelle vicende del 1746-1746, e più tardi influente uomo politico. Era stato imbussolato nell’urna del Seminario nel 1745. Fu estratto per la prima volta come senatore per il biennio 1753-1754. Cfr. ASC Ge, Mss Brignole Sale, 105.D.7; G. Guelfi Camajani, Il “Liber Nobilitatis Genuensis”, , p. 310.
[585] Gobbo: cfr. G. Casaccia, Dizionario genovese-italiano, Genova 18762, p. 845.
[586] Si intende il secondo giorno dell’insurrezione.
[587] Il terzo giorno dell’insurrezione.
[588] Cfr. F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, , II, p. 97: “Abbruciarono i bisagnini il palazzo di Agostino Airolo in Albaro, incolpato di aver dato a’ Tedeschi rifugio con tanto loro danno”. Airolo, commissario in Bisagno, aveva in effetti inizialmente impedito agli insorti bisagnini di bloccare e catturare un reparto austriaco in ritirata, che era stato acquartierato in alcuni palazzi di Albaro dove erano stati poi assediati con successo.
[589] Anna Pallavicini era moglie di Gian Luca Pallavicini q. Giuseppe, nato nel 1697, ambasciatore genovese presso la corte di Vienna nel 1731-1733, passato al termine della sua missione servizio degli Asburgo. Fu l’inizio di una ventennale carriera militare e politica che portò Gian Luca sino alla carica di governatore della Lombardia austriaca, che tenne per tre anni. Caduto in disgrazia nel 1753, si ritirò a vivere a Bologna, dove sposò in seconde nozze una nobildonna locale e si spense nel 1773. Anna Pallavicini, che lo aveva sposato nel 1721, non lo seguì nell’ambasciata a Vienna e tanto meno nelle successive peregrinazioni, vivendo di fatto separata da lui sino alla morte, sopraggiunta nel 1751, e amministrando gli interessi di famiglia. Campredon menzionava Gian Luca e Anna parlando della madre Livia Pallavicini, padrona di casa del più importante salotto genovese, riservato alla nobiltà ‘vecchia’: “Celle cy n’a qu’un fils unique qui chagrin de n’avoir point d’Enfants de Madame Annette Palavicin, que l’amour luy, a pour ainsy dire, fait arracher a prix d’argent des mains de Jean Jacques Imperialy son premier mary, pour cause d’impuissance”. Cfr. S. Rotta, “Cette perfide nation”, , p. 652. Anna, che era di due anni più anziana di Gian Luca, sarebbe stata dunque al secondo matrimonio: una notizia non riportata né da A. Costa, Gian Luca Pallavicino e la corte di Vienna (1731-1753), in “Giornale Storico e Letterario della Liguria”, (1926), pp. 113-132; 204-218, né da A. Ostoja, Genova nel 1746. Una mediazione milanese nelle trattative austro genovesi, Bologna 1954, che nonostante il titolo contiene preziose informazioni biofìgrafiche sul Pallavicini, soprattutto nel suo ventennio bolognese (e ferrarese). In precedenti lettere Degola aveva osservato come la posizione della Pallavicini, consorte di un alto dignitario imperiale, avesse spinto parecchi patrizi a rivolgersi a lei per essere esentati dagli acquartieramenti e dai sequestri minacciati dal Botta Adorno.
[590] Gio. Luca De Franchi q. Bartolomeo q. Damiano, nato il 15 giugno 1690. Comandante delle milizie popolari, e più volte menzionato dal Degola e dall’abate Conti, fu fatto arrestare dal governo nel febbraio 1747 assieme al fratello Cesare. In L 174, 25 febbraio 1747, cc. 330r-331r, Degola dava notizia del fatto in questi termini: “Il S.r Gio. Lucca de Franchi, e Cesare suo Frattello sono stati condotti in Torre, questi hanno avuto gran maneggio fattisi Capipopolo correndo con gran Truppa per la Città, e frà le altre cose si fece il merito d’impedire il saccheggio che il Popolo era per dare alla Casa del Gnle. Pall.no tante altre operazioni nella giornata de i 10 e ne giorni susseguenti fecero”. Nella successiva L 177, 25 marzo 1747, cc. 336v-337r, Degola aggiungeva nuove informazioni: “Del Sig.r Gio. Lucca de Franchi non si parla, pare che il suo delitto possa essere per avere con grande avidità procurato di esser elletto in Capitan Generale del Popolo, e per essersi fatto bello, in Casa della Sig.a Annetta Pallavicina il giorno che alberò la bandiera la compagnia delli Cadetti, che condusse la sera stessa in d.a casa doppo avere girata per tutta la Città, e vantatosi d’avere 30000 soldati à sua disposizione di tal garbo, li quali potranno servire a far grandi cose. Io non so se ciò sia vero, pero la voce universale è tale”. Ingenuo rodomonte o aspirante golpista che fosse, De Franchi aveva evidentemente assunto un ruolo inaccettabile per il governo, presentandosi a torto o a ragione (probabilmente a torto) non come il disciplinatore della milizia popolare e perciò un efficace difensore dell’ordine pubblico, ma come un incontrollabile capopopolo pronto a usare i miliziani come pretoriani. Nella narrazione di F. M. Accinelli, Compendio, , II, pp. 105-106, la conferma di De Franchi a “sergente generale” della milizia e la sua successiva destituzione sono compressi in un arco di tempo “fra pochi giorni”, e la spiegazione del prete patriota differiva da quella dei corrispondenti del marchese Imperiale: “Mormorava il popolo per la sua alterigia, della quale sol si pasceva, e fu assieme a suo fratello confinato in carcere”.
[591] Francesco Maria Doria q. Brancaleone, già ambasciatore a Parigi dal 1742 al 1748. Su di lui, G. Assereto, Doria, Francesco Maria, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLI, pp. 329-333.
[592] Il cardinale De Marini, sul quale vedi nota infra.
[593] La relazione è stata evidentemente estrapolata, non si sa quando, perché non si trova affatto acclusa alla lettera.
[594] Cosimo Imperiale, nato il 23 aprile 1685; creato cardinale nella quarta promozione di Benedetto XIV, il 26 novembre 1753, ricevette il 10 dicembre successivo il titolo di San Clemente, e fu traslato a quello di Santa Cecilia il 12 febbraio 1759; fu governatore di Roma e vice camerlengo. Morì a Roma il 13 ottobre 1764. Cfr. G. Guelfi Camajani, Il “Liber Nobilitatis Genuensis”, , p. 262; Hierarchia Catholica Medii et Recentioris Aevi …. a cura di R. Ritzler e P. Sefrin, Padova 1952, VI, p. 17. L’Imperiale era “amico personale” di Benedetto XIV, e “nel 1758 si sarebbe parlato di una sua probabile elevazione al pontificato o alla segreteria di Stato nel caso che non fosse riuscito vincitore il partito dell’assoluta intransigenza”: così F. Fonzi, Le relazioni fra Genova e Roma al tempo di Clemente XIII, “Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea”, VIII (1956), p. 99.
[595] Carlo De Marini, creato cardinale da Clemente XI in pectore il 29 maggio 1715 e dichiarato il 16 dicembre dello stesso anno, insignito dal 1741 del titolo di Santa Maria in Via Lata. Morì il 16 gennaio 1747; cfr. Hierarchia Catholica Medii et Recentioris Aevi, , V, p. 30.
[596] Diverso l’elenco consegnato ai posteri da F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, , II, p. 90: “Erano capi di questo Tommaso Assereto detto l’Indiano presidente del quartier generale, Carlo Bava mediatore generale delle milizie di campagna, Gio. Battista Ottone paramentaro, Giuseppe Comotto pittore, deputato a’ bottini, Giuseppe Tezoso merciaro, Cammillo Marchini scritturale, monsiù du Val, e monsiù Muratti mercanti, Francesco Lanfranco mercante di formaggio, Carlo Parma merciaro, Andrea Uberdò calzolaro detto lo Spagnoletto, Stefano, Domenico, e fratelli Costa detti i grassini, tintori, Domenico, e Francesco Siccardi impresarj de’ forni, Giuseppe Malatesta detto il Cristino, facchino, Gio. Carbone ajutante di locanda, Lazzaro Parodi calzolaro, Alessandro Gioppo pescivendolo, e Bernardo Cartassi”. La proposopografia della militanza popolare genovese nel 1746-1747 è stata ottimamente ricostruita da L. Grasso, Storia biografica e politica della città di Genova, , dove si trovano molte informazioni inedite su parecchi di questi personaggi.
[597] Il riferimento è all’estrazione dei componenti dei Collegi dal bussolo del Seminario, sulla quale venivano fatte le scommesse. L’ordine nel quale vengono elencati i nomi è quello dell’estrazione: Pinelli, Morando e D’Aste entrarono a far parte nel Senato, Pallavicini e Lomellini nella Camera. Nel maggio seguente Pinelli, il veterano del gruppo, alla sua quinta presenza nei Collegi, si fece scusare. Cfr. ASC Ge, Mss Brignole Sale, 105.D.7.
[598] Michele Imperiale, fratello di Lorenzo.
[599] L’ufficio di posta di Milano era stato insediato da Beltrame Cristiani, gran cancelliere del ducato di Milano, il 30 settembre 1746 nel palazzo appositamente affittato in Castelletto. Nativo di Varese Ligure, Cristiani era stato ascritto al patriziato genovese nel 1745; i testimoni del tempo concordano nel ricordare che Cristiani aveva deluso le speranze di quanti contavano che nella sua duplice veste di neoascritto e di oriundo della Repubblica moderasse le posizioni di Botta Adorno e di Chotek in senso favorevole a Genova. Si veda per tutti F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, , II, p. 81.
[600] Paolo Gerolamo Pallavicini q. Gio. Francesco, battezzato il 26 agosto 1677. Cfr. ASC Ge, Mss Brignole Sale, 105.D.7; G. Guelfi Camajani, Il “Liber Nobilitatis Genuensis”, , p. 378. Nel 1737 l’ambasciatore francese Campredon lo aveva descritto con evidente antipatia come “un composé de toutes les qualités qui forment un homme autant plus dangereux qu’il a du credit dans le gouvernement, c’est un sournois a qui les supercheries ne coutent rien, méchant par inclination, d’une opiniatreté outreé dans ses sentimens, vindicatif, brusque dans ses manieres et sur le tout ennemy juré des françois”.
[601] Gio. Carlo Brignole q. Gio. Giacomo, battezzato il 5 febbraio 1667, ascritto al patriziato il 10 dicembre 1690. Fu imbussolato nell’urna del Seminario nel 1707, ed estratto come senatore in sostituzione dello scusato Gio. Batta Morando per il periodo dal 7 luglio 1721 al 30 giugno 1723; reimbussolato nel 1724, non venne più estratto. Aveva avversato l’entrata in guerra della Repubblica nel 1745. Cfr. ASC Ge, Mss Brignole Sale, 105.D.7; G. Guelfi Camajani, Il Liber Nobilitatis Genuensis”, , p.88; C. Bitossi, Il ceto dirigente della Repubblica alla vigilia della guerra di Successione austriaca, , pp. 29-62.
[602] Nella successiva L 156, 31 dicembre 1746, cc. 293-293v, lo stesso patrizio, evidentemente rispondendo a una domanda dell’Imperiale, se l’insurrezione fosse stata causata dalla fame, ribadiva: “Il moto del Popolo non ebbe gia origine da mancanza di Farine, che anzi se ne abbonda, e vi è libertà di far pane a chiunque sì in Città, che fuori, ma da strapassi, insulti, e bastonate che diedero alcuni Soldati Tedeschi alla nostra Gente in occasione, che si trasportava un Mortaro da Bombe dalla Piattaforma in S. Pierdarena, e fù incagliato vicino al Piano di S. Andrea”. L’anonimo rimandava alle “varie relazioni state estese da Preti, e Frati, sebbene non tutte concordanti”.
[603] Conte Johann Karl von Chotek (+ 1787), tenente generale, commissario e amministratore della cassa generale di guerra austriaca in Italia. Fu lui a sollecitare il versamento della pesante contribuzione accordata dalla Repubblica a Maria Teresa in base della capitolazione del settembre 1746.
[604] Maximilian Ulysses Browne (1705-1757), generale austriaco di origine irlandese, comandante delle forze inviate a invadere la Provenza dopo la capitolazione di Genova. Qualche notizia su di lui in T. Barker, Army, Aristocracy, Monarchy: Essays on War, Society, and Government in Austria, 1618-1780, New York 1982, p. 59.
[605] In queste pagine rielaboro degli spunti anticipati in “Per evitare la grande sciagura”. Genova verso la guerra di Successione austriaca, in La Storia dei Genovesi, IX, Genova, 1989, pp. 197-234, e sviluppati per un periodo diverso in “La Repubblica è vecchia”. Patriziato e governo a Genova nel secondo Settecento, Roma, 1995. Sul patriziato genovese negli anni ‘30 del Settecento ritornerò presto in un lavoro più ampio.
[606] F. Venturi, Genova a metà del Settecento, in “Rivista Storica Italiana”, LXXIX (1967), pp. 732-795; Id., Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, 1969, pp. 200sgg.
[607] Che all’epoca venne definita genericamente guerra della Prammatica sanzione dagli imperiali, del 1741 dai francesi, slesiana dai prussiani, di re Giorgio dai coloni americani, e solo col tempo ebbe il nome che oggi le viene comunemente attribuito. Cfr. R. Browning, The War of the Austrian Succession, Far Thrupp, 1994; M. Anderson, The War of the Austrian Succession, 1740-1748, London, 1995.
[608] Cfr. C. Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Torino, 1978.
[609] Sull’orientamento navalista dei politici ed intellettuali “repubblichisti” del Seicento cfr. C. Costantini, La Repubblica di Genova, , e Id., Politica e storiografia: l’età dei grandi repubblichisti, in La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova, 1992, II, pp. 93-135
[610] Le spese per l’acquisto del marchesato di Finale, nel 1713, vennero coperte, tra l’altro, con il disarmo di una galea dello stuolo della Repubblica. Sulla riluttanza della Repubblica ad abbandonare le galee per le navi a vela cfr. E. Grendi, Un’alternativa genovese verso il 1725: galere o navi da guerra? (Costi comparativi e alimentazione), in H. Bresc, L. Gatti, E. Grendi, P. Borzone, Studi di storia navale, Firenze, 1975, pp. 97-113. Sull’armamento di navi da guerra da parte di privati per contribuire alla lotta antibarbaresca, in particolare sulla nave armata da Gian Francesco Brignole Sale, vd. in questo stesso volume il contributo di Maurizio Olita.
[611] Cfr. V. Vitale, Breviario della storia di Genova. Lineamenti storici e orientamenti bibliografici, Genova, 1955, e in particolare Id., L’insurrezione Genovese del 1746 nella recente storiografia, Borgo San Dalmazzo, 1946. La difesa a oltranza vitaliana della politica genovese finiva tuttavia col riflettere specularmente i limiti delle interpretazioni che intendeva confutare.
[612] Cfr. Carte e cartografi in Liguria, a c. di M. Quaini, Genova, 1986, pp. 78-91, 99-110. Le trattative diplomatiche tra la Repubblica e il re di Sardegna vennero condotte dall’ambasciatore Giambattista De Mari, nella capitale piemontese dal settembre 1727 agli inizi di luglio 1731, e nuovamente dall’ottobre seguente al dicembre 1736. Il ricco carteggio di questa missione quasi decennale si trova in Archivio di Stato di Genova (da ora ASG), Archivio Segreto (da ora AS), 2711 e 2490-2494E. Cfr. V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, “Atti della Società Ligure di Storia Patria” (da ora ASLSP) LXIII (1934), pp. 44-45.
[613] Sulla questione corsa, vista dalla parte genovese, i migliori contributi restano quelli di Vito Vitale, ripresi in Id., Breviario, citato. Sulle rivolte corse degli anni ’30 cfr. in particolare G. Oreste, La prima insurrezione corsa del secolo XVIII (1730-1733), in “Archivio Storico di Corsica”, XVI (1940), pp. 1-12; 147-164; 292-315; 393-430; R. Rispoli, La seconda insurrezione corsa del secolo XVIII (1734-1737), Ibidem, XVII (1941), pp. 289-330. Recenti ricostruzioni d’assieme del problema corso nel Settecento da parte corsa in F. Pomponi, Histoire de la Corse, Paris, 1979; P. Antonetti, Histoire de la Corse, Paris, 19862; Histoire de la Corse, a cura di P. Arrighi e A. Olivesi, Toulouse, 19892, M. Verge’-Franceschi, Histoire de Corse. Le pays de la grandeur, Paris, 1996. Ora si dispone finalmente di un ottimo profilo della dominazione genovese in Corsica basato sullo spoglio di fonti archivistiche sia genovesi sia corse: A.-M. Graziani, La Corse génoise. Economie, société, culture. Période moderne, 1453-1768, Ajaccio, 1997. Gli echi della rivolta corsa e il posto che questa ebbe nel dibattito illuministico, nella generazione successiva al momento del quale ci occupiamo, sono magistralmente trattati da F. Venturi, Settecento riformatore. L’Italia del lumi (1764-1790 ), pp. 3-220. E sull’argomento vedi anche C. Bordini, La rivolta corsa e gli illuministi italiani, Roma, 1979.
[614] Il miglior panorama recente in italiano della storia diplomatica europea della prima metà del Settecento è offerto da P. Alatri, L’Europa dopo Luigi XIV (1715-1731), Palermo, 1986, e Id., L’Europa delle successioni (1731-1748), Palermo, 1989.
[615] Cfr. i riferimenti nel capitolo finale di G. Giacchero, Il Seicento e le Compere di San Giorgio, Genova, 1979.
[616] Cfr. la missione di Francesco De Mari a Madrid nel 1692-1694 in Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi. V (Spagna 1681-1721), a c. R. Ciasca, pp. 206-250, e C. Bitossi, De Mari, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani (da ora DBI), 38, pp. 488-492.
[617] Resta utilissimo S. Pugliese, Le prime strette dell’Austria in Italia, Milano-Roma, 1932. E cfr. C. Morandi, Studi su la Grande alleanza e su la guerra di Successione spagnola [1933], e Id., La fine del dominio spagnuolo in Lombardia e le premesse delle riforme settecentesche. [1936], in Id., Scritti storici, a cura di A. Saitta, Roma, 1980, I, pp. 319-332; 384-405. Sulla Lombardia del Settecento vd. ora D. Sella-C. Capra, Il Ducato di Milano dal 1535 al 1796, Torino, 1984, in particolare l’ampia trattazione di Capra sul dominio austriaco.
[618] Cfr. O. Pastine, Genova e Inghilterra da Cromwell a Carlo II. Orientamenti politico-economici, in “Rivista Storica Italiana”, LXI (1954), pp. 309-347. Si vedano le informate osservazioni di G.-E. Broche, La République de Gênes et la France pendant la guerre de la Succession d’Autriche (1740-1748), Paris, 1935, sul quale cfr. V. Vitale, La Corsica e la “patetica alleanza”, in “Archivio Storico di Corsica”, XIII (1937), pp. 552-571; C. Baudi di Vesme, La politica mediterranea inglese nelle relazioni degli inviati italiani a Londra durante la cosiddetta “Guerra di Successione d’Austria”, Torino, 1952. Sulla politica inglese verso Genova vd. ora il contributo di Paolo Bernardini a questo volume.
[619] Notizia dell’arrivo della duchessa in L.Volpicella, I libri cerimoniali della Repubblica di Genova, in ASLSP, XLIX (1921), p. 331; sull’episodio cfr. P. L. M. Levati, Regnanti a Genova nel secolo XVIII, Genova, 19.., p. 8.
[620] Il fascicolo riguardante il servizio del duca di Tursi a Luigi XV in Archives Nationales, Paris, Marine C7332; altro materiale ibidem, nelle sottoserie Marine B6 (Galères) e Marine B7 (Pays Etrangers).
[621] da V. Vitale, L’insurrezione genovese , p. 14.
[622] Sulla questione del Finale cfr. ancora A. Tallone, Le cessioni del marchesato del Finale nel secolo XVIII, Pinerolo, 1897. Sulla diplomazia genovese cfr. V. Vitale, La diplomazia genovese, Milano, 1941; e in generale Id., Breviario, .; punto di partenza indispensabile per la ricerca archivistica nei documenti diplomatici genovesi rimane Id., Diplomatici e consoli, citato.
[623] Nel 1736 i Savoia imposero la loro sovranità al principe Doria Pamphilj, che mantenne il possesso del feudo. L’effettiva incorporazione di Loano negli stati sardi avvenne nel 1770. Sul feudo di Rezzo cfr. D. Puncuh, Istruzioni di Francesc Maria II Clavesana per il buon governo del feudo di Rezzo e dell’azienda familiare, in Studi e Documenti di Storia Ligure in onore di don Luigi Alfonso per il suo 85° genetliaco, ASLSP, CX (1996), 2, pp. 503-535.
[624] Il quadro diplomatico europeo, argomento di una enorme bibliografia, è riesaminato da P. Alatri, L’Europa dopo Luigi XIV ; per il problema dell’equilibrio italiano in particolare cfr. G. Quazza, Il problema italiano e l’equilibrio europeo (1720-1738), Torino, 1965, dove si trovano numerosi riferimenti a Genova, in particolare a pp. 70-74, Quazza riprende qui degli spunti anticipati nel suo Genova: Stato di classe e politica d’affari (1953), ripubblicato, con lievi modifiche e con il titolo La crisi dello Stato aristocratico cittadino: la Genova dei Magnifici, in Id., La decadenza italiana nela storia europea. Saggi sul Sei-Settecento, Torino, 1971, pp. 203-215. Sui feudi imperiali cfr. A. Sisto, I feudi imperiali del tortonese, Torino, 1960; su un incidente tra genovesi e piemontesi cfr. N. Calvini, Grave incidente diplomatico tra la repubblica di Genova e il sovrano di Savoia (1726-27), in “Giornale Storico e Letterario della Liguria” (da ora GSLL), n.s., XV (1939), pp. 161-175 e pp. 224-231 (a proposito di una confisca di barche onegliesi da parte delle autorità genovesi).
[625] Cfr. R. Quazza, La cattura del Cardinal Giulio Alberoni e la Repubblica di Genova, Genova, 1913, Id., La lotta diplomatica tra Genova e la Spagna dopo la cattura del Cardinale Alberoni dalla Liguria, in “Archivio Storico Italiano” LXXVIII (1920), pp. 215-236; sui catalani V. Vitale, Breviario, , p. 329; ma cfr. F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, Genova, 1851, II, pp. 11-13; sulle trattative per Massa O. Pastine, Genova e Massa nella politica mediterranea del Settecento, in GSLL, n.s., III (1927), pp. 103-134; 197-240.
[626] Sulla reazione dei finalini cfr. in generale V. Vitale, Breviario, ; e G. B. Cavasola Pinea, Gabelle genovesi nel Finale, in La Storia dei genovesi, VIII, Genova, 1988, pp. 225-242.
[627] Sulla vicenda storico-amministrativa cfr G. Assereto, Dall’amministrazione patrizia all’amministrazione moderna: Genova, in L’amministrazione nella storia moderna, Milano, 1985, 1., pp. 95-159; sul sistema portuale cfr. Il sistema portuale della Repubblica di Genova. Profili organizzativi e sistemi gestionali, a c. G. Doria, G. Rebora, P. Massa Piergiovanni, ASLSP, CII (1988). Sulla tentata riforma del portofranco, e in generale sull’economia ligure, cfr. L. Bulferetti-C. Costantini, Industria e commercio in Liguria nell’età del Risorgimento (1700-1861), Milano, 1965. Sia Bulferetti e Costantini sia Quazza (vd. i lavori citati alla nota [20]) avevano presente il pionieristico G. Giacchero, Storia economica del Settecento genovese, Genova, 1950, riedito, con correzioni, con il titolo Economia e società del Settecento genovese, Genova, 1973. Su Tomaso Oderico e la sua opera cfr. O. Cartaregia, Il perfetto giusdicente: Tomaso Oderico, in “Miscellanea Storica Ligure”, XII (1980), 2, pp. 7-58.
[628] Cfr. C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, , pp. 325-330. La discussione sulla riorganizzazione amministrativa del Dominio riprese, com’è noto, negli anni ‘50.
[629] Si vedano ancora gli utilissimi contributi pubblicati nell’ “Archivio Storico di Corsica” (1925-1942), ispirato da Gioacchino Volpe. Dando per scontato il pregiudizio irredentista e nazionalista che ispirava la rivista, restano valide le acquisizioni documentarie e le ricostruzioni degli avvenimenti studiati. Si deve però osservare che ben pochi documenti e testi prodotti da parte genovese sono stati editi; per contro, ampi estratti della documentazione francese sono stati pubblicati in tempi diversi: cfr. Correspondance dces agents de France à Gênes avec le Ministère. Année 1730 et suivantes, a c. abbé Letteron, in “Bulletin de la Société des Sciences historiques et naturelles de la Corse”, XXI (1901); Mission de M. de Cursay en Corse, Ibidem, XXVI (1906); R. Boudard, La “Nation Corse” et sa lutte pour la liberté, entre 1744 et 1769, Marseille, 1979.
[630] Istituita nel 1726-28, e nuovamente dal 1732 in poi, era un organismo parallelo al Senato e alla Camera, specificamente incaricato di risolvere l’emergenza finanziaria. Gli atti della Giunta ad medios o de medios (il termine era uno spagnolismo) o anche “de’ mezzi”, più spesso ancora vagamente denominata “Giunta nuovamente eretta”, per questi anni si trovano in ASG, AS 2908-2911, e contengono materiale di estremo interesse per la storia prima ancora politica che finanziaria della Repubblica.
[631] Cfr. ASG, AS 2908, ricordo letto dalla Giunta il 7 maggio 1736.
[632] Ibidem.
[633] Cfr. il ricordo già citato, in ASG, AS 2908. Anche questo suggerimento non era privo di acutezza; la politica francese mirava esattamente a formare un ‘partito francese’ nella società isolana.
[634] Cfr. ASG, AS 2908: “Proposizione per il sussidio sopra li cittadini et abitanti nella presente città e giurisdizione della Magnifica Rota”. Gian Carlo Brignole insisteva a limitare la tassa alle fortune superiori a 6000 lire, ventilando il pericolo di rumori; Carlo Spinola era fautore del raccogliere denaro riservando ad un secondo momento la scelta se destinarlo alla Corsica o alle emergenze della Terraferma.
[635] ASG, AS 2908, “Discorso fatto nel Minor Consiglio de’ 23 agosto 1736 dall’Ill.mo et Ecc.mo Ippolito de’ Mari sulla proposizione della tassa e del sussidio”.
[636] La discussione in ASG AS 2908: consulta del Minor Consiglio del 23 agosto 1736 sulla “tassa d’1 per 100 da L. 6000 in più e sussidio”. De Mari era molto pessimista sulle prospettive di successo della Repubblica nel reprimere la rivolta: “[…] essere infallibile non potere da sé sostenere la Repubblica la guerra e sottometter la Corsica,e per conseguenza doversi considerare per gettato e perduto il denaro destinato per continuare il presente sistema […]”. Ibidem
[637] Il pressante suggerimento di Ippolito De Mari di inviare un ambasciatore in Francia era stato raccolto: la scelta era caduta proprio su Gian Francesco Brignole, che risiedette a Parigi dal novembre 1737 al marzo 1739: cfr. V. Vitale, Diplomatici e consoli, , p. 151; la corrispondenza in ASG, AS 2222.
[638] Un giudizio limitativo sull’importanza della presenza genovese in Spagna (riconoscendo però l’importanza delle occasioni di arricchimento che Cadice offriva ai mercanti genovesi) venne dato qualche anno più tardi, nel 1750, da Gian Francesco Doria, autore di un interessante testo sull’educazione politica dei giovani patrizi, sul quale rimando per maggiori dettagli a C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, citato. Tutte le ricerche più recenti sull’economia spagnola del Settecento ribadiscono però la persistenza della presenza genovese, sia pure in un ruolo comparativamente ridotto rispetto al passato. Cfr., a titolo di esempio, C. Roman Cervantes, El comercio de granos y la politica de abastos en una ciudad portuaria. Cartagena 1690-1760, Cartagena, 1990, p. 33 (nel periodo 1722-1749 i genovesi Peretti e Rizzo commerciarono un terzo di tutto il grano acquistato dalla città di cartagena); sui genovesi a Cadice, J. L. Comellas, Sevilla, Cadiz y América. El sosiego y el trafico, Malaga, 1992, pp. 255-258 (dei 2507 italiani censiti ancora nel 1791 a Cadice tre quarti erano genovesi); A. Garcia-Baquero Gonzalez, Comercio y burguesia mercantil en el Cadiz de la Carrera de Indias, Cadiz, 1991; M. Bustos Rodriguez, Los Comerciantes de la carrera de Indias en el Cadiz del siglo XVIII (1713-1775), Cadiz, 1995, in particolare pp. 102-103; 215-223. In italiano sono poi disponibili due importanti lavori: C. Aranda Linares, E. Hormigo Sanchez, J. M. Sanchez Pena, Scultura lignea genovese a Cadice nel Settecento. Opere e documenti, in “Quaderni Franzoniani. Semestrale di bibliografia e cultura ligure”, VI (1993), 2; C. Molina, L’emigrazione ligure a Cadice (1709-1854), in ASLSP, CVIII (1994), 2, pp. 285-377.
[639] Sugli investimenti finanziari genovesi cfr. G. Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano, 1971. Si cfr. ad esempio la lunga lista di patrizi sottoscrittori del Monte San Carlo di Milano (fittamente rappresentati Spinola, Grimaldi, Durazzo, Lomellini), associati nel chiedere un intervento del governo genovese per tutelare i loro crediti, nel 1717: cfr. ASG, Antica Finanza 1353 A.
[640] Cfr. Archivio di Stato di Torino (da ora AST), Lettere Ministri, Genova, 16, dispaccio di Lorenzo Bernardino Clerico, Genova, 15 ottobre 1744. F. Venturi, Settecento riformatore, I, , ha segnalato l’interesse di questi dispacci per seguire i retroscena della politica della Repubblica. Clerico inoltrava il memoriale quando la capitazione non era ancora stata definivamente deliberata, e quando la Repubblica cercava di rinviare il momento di impegnarsi con le corone borboniche. L’informatore del Clerico era, sembra, un agente degli Inquisitori di Stato genovesi.
[641] Recueil des instructions des Ministres et Ambassadeurs français, XIX, Florence, Modène, Genes, a c. E. Driault, Paris, 1912, p. 289.
[642] Per queste osservazioni cfr. G.-E. Broche, La République de Genes et la France, , I, pp. 75 e 93; sulla politica estera genovese negli anni ’30 e sul problema corso molte informazioni di prima mano tratte dalla corrispondenza del ministro genovese a Torino in O. Pastine, La Repubblica di Genova e le gazzette, .
[643] Si veda il testo della Rélation di Jacques de Campredon pubblicato in appendice al contributo di Salvatore Rotta a questo volume (da ora Campredon, Rélation).
[644] Cfr. ASG, AS 1639 B: rispettivamente “Esposizione dell’Illustre Magistrato d’Inquisitori di Stato” del 18 dicembre 1741, e biglietto di calice letto ai Collegi il 21 maggio 1742.
[645] Cfr. ASG, AS 1640 A: ricordi del Minor Consiglio, seduta del 6 novembre 1744: Gian Domenico Spinola “conviene nella massima di non potere la repubblica nelle odierne circostanze sussistere se non è assistita dalla Spagna”; lo stesso Spinola nel febbraio 1746 dubitava che la Francia avesse ormai raggiunto un’intesa segreta col re di Sardegna alle spalle della repubblica.
[646]La documentazione spagnola al riguardo è abbondantissima, e apparentemente intatta. Le sole carte dell’ambasciata spagnola a Genova conservate nell’Archivio General de Simancas comprendono 153 legajos per il periodo 1706-1746, vale a dire una mole documentaria maggiore, almeno per numero di unità archivistiche, di quella relativa agli anni 1495-1699 (138 legajos). Cfr. Catalogo XXV del Archivo de Simancas. Papeles de Estado. Génova (siglos XVI-XVIII), a c. R. Magdaleno, Valladolid, 1972. Nell’Archivo de la Corona de Aragon, Barcellona, si trova il fondo il fondo Legacion de Espana en Génova y Turin, costituito dalla documentazione rinviata in patria dalla legazione spagnola di Torino e comprendente anche le carte dell’ambasciata spagnola a Genova, che dovrebbero essere minute del materiale conservato a Simancas: cfr. Guia historica y descriptiva del Archivo de la Corona de Aragon, a c. F. Udina Martorell, Madrid, 1986, pp. 391-392. Si aggiunga inoltre il materiale della sezione Estado dell’Archivo Historico Nacional, Madrid.
[647] Cfr. ASG, AS 2910: “Discorsi del Minor Consiglio sopra la capitazione”, 4 dicembre 1742: “che se si proseguisce a spendere per la Corsica, si va incontro a distruggere la repubblica, dopo tanto tempo che si consuma il danaro per la speranza di conservare un regno, che è pieno di tradimento”. Su Teodoro (oltre alla bibliografia recente citata alla nota [9]) cfr. A. Le Glay, Théodore de Neuhoff, roi de Corse, Monaco, 1910?; S. Costa, Mémoires 1732-1736, a c. R. Luciani, Aix-en-Provence, 1972-1975, 2 voll. (pubblica con traduzione francese a fronte le Memorie riguardanti il Re Teodoro scritte di proprio carattere das Sebastiano Costa già Auditor Generale della Nazione nel 1735 e quindi Gran Cancelliere e Primo Segretario di Stato del detto Re che visse col medesimo e lo accompagnò nel di lui viaggio). Costa era il gran cancelliere di Teodoro di Neuhoff; a Teodoro dedica un capitolo O. Pastine, La Repubblica di Genova e le gazzette, ;. ma si veda la bibliografia sulla Corsica citata alla nota [20].
[648] Cfr. C.-L. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, trad. it. a cura di S.Cotta, Torino, 19652, pp. 73-74, e la Correspondance de Montesquieu, a cura di F. Gebelin, Paris, Galimard, II, pp. 164 e sgg. e p.178; ma di Montesquieu cfr. anche i Voyages (in Oeuvres complètes, a c. R. Caillois, Paris, 1949, I, pp. 619-639) e la Lettre sur Genes (ivi, I, pp. 913-922). Fondamentale sulla cultura e il pensiero politico genovesi dell’epoca S. Rotta, Idee di riforma a Genova e la diffusione del pensiero di Montesquieu, in “Il Movimento Operaio e Contadino in Liguria”, VII (1961), 3-4, pp. 205-284.; e cfr. in generale Id., Il pensiero politico francese da Bayle a Montesquieu, Pisa, 1974. Sul giudizio di Montesquieu riguardo a Genova e ai genovesi vd. ora l’ampia analisi di M. G. Bottaro Palumbo, Montesquieu e la Repubblica di Genova, in L’Europe de Montesquieu. Actes du Colloque de Gênes (26-29 mai 1993), a c. A. Postigliola e M. G. Bottaro Palumbo, Napoli-Paris-Oxford, 1995, pp. 223-240.
[649] “Provammo a cercare dei letterati: niente”; “Partii … furibondo contro questi vermi di repubblicani”; fino a concludere: “tra i piaceri che Genova può procurare, caro Neuilly, quello di esserne fuori va considerato come uno dei più grandi”. Cfr. C. de Brosses, Viaggio in Italia, trad. it. Roma-Bari, 1973; le frasi citate si trovano rispettivamente alle pagine 34 (lettera al signor de Neuilly da Genova dell’1 luglio 1739) e 46 (lettera allo stesso dell’8 luglio 1739) dell’edizione italiana dell’opera. Le riportava già G.-E. Broche, La République de Genes et la France, citato. Alcuni anni dopo, nell’estate 1743, passò qualche settimana a Genova Jean-Jacques Rousseau, alloggiato prima al lazzaretto e poi presso l’inviato francese Jonville: cfr. J. J. Rousseau, Le confessioni, trad. it. Torino, 1955, pp. 324-325 (= Scritti autobiografici, a c. L. Sozzi, Torino, 1997, pp. 289-290: come osserva Sozzi, non è però certo che Rousseau abbia alloggiato presso Jonville). Nelle Confessioni egli affermava anche di aver frequentato “sia a Genova, sia in campagna, […] molte case dove ci si divertiva molto”; ma queste esperienze genovesi non sembrano aver lasciato traccia nella sua corrispondenza.
[650] Sull’interesse della Histoire générale de la révolution de Gênes di Goudar vd. però F. Venturi, Settecento riformatore, , p. 212: cfr. anche G. Dioguardi, Ange Goudar contro l’Ancien régime, Palermo, 1988, e il brano su Genova de L’Espion chinois, ou l’envoyé secret de la cour de Pékin, pour examiner l’état présent de l’Europe, Colonia, 1766, riprodotto in Repubblica di Genova. Tomo I. La Dominante e le Riviere, a c. G. Guadalupi, Milano, 1996, pp. 144-157.
[651] Tutti questi riferimenti sono citati da F. Venturi, Settecento riformatore, I, , pp. 200-201 e 205. Ma cfr. anche F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Torino, 1970.
[652] Cfr. C. Costantini, La Repubblica di Genova, , cap. …
[653] Cfr. AST, Lettere Ministri, Genova, 16: Clerico al governo sabaudo, Genova, 15 ottobre 1744. Si noti, però, che molti patrizi genovesi erano vassalli dell’Imperatore, del re di Spagna, del re delle Due Sicilie, e anche del Granduca di Toscana e del Pontefice. L’uso della definizione di “vassalli” per identificare solo i patrizi che detenevano feudi in Piemonte appare piuttosto fuorviante. Cfr. in generale C. Costantini, La Repubblica di Genova; e sulle divisioni del patriziato genovese M. Nicora, La nobiltà genovese dal 1528 al 1700, in “Miscellanea Storica Ligure”, III (1961), pp. 217-310; e C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, citato.
[654] Per un ulteriore sviluppo di questi argomenti cfr. C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, citato.
[655] Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, I, , p. 200 e sgg.
[656] Cfr. V. Vitale, L’insurrezione Genovese, citato. Si osservi che Franzone fu a suo tempo doge della Repubblica, al pari del bellicista e filoborbonico Lorenzo De Mari e di Gian Francesco Brignole Sale, comandante sul campo del contingente genovese.
[657] Condotto sull’edizione del Liber nobilitatis di G. Guelfi Camajani, Il “Liber nobilitatis genuensis” e il governo della Repubblica aristocratica fino all’anno 1797, Firenze, 1965. Un calcolo analogo su tutto l’arco del secolo, e con riferimento ai detentori di incarichi di giusdicente in C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, citato.
[658] Su questo, e su molto altro, E. Grendi, Capitazioni e nobiltà a Genova in età moderna [1974], in Id., La Repubblica aristocratica dei genovesi. politica, carità e commercio a Genova fra Cinque e Seicento, Bologna, 1987, pp. 13-48.
[659] Cfr. ASG, AS 2910: 12 giugno 1746, “Esposizione della M.ca Deputazione della capitazione”, trasmessa al doge solo il 22 agosto seguente. Non di tutti gli assenti si dava la residenza. L’elenco era preceduto da questa intitolazione: “M.ci cittadini descritti nella Tassa 1738 che si suppongono esenti dalla Capitaz.e per non esser abitanti ne aver Domicilio nella presente Città, o Dominio, ne ritrovarsi fuori Stato per accidente”. Una nota esplicativa dei criteri adottati per assegnare le quote della capitazione del 1744 (alla quale il documenti in questione si riferisce) ribadiva che tra i tassati del 1738, il cui elenco era preso a base per la capitazione del 1744, si trovavano “moltissimi M.ci Cittadini … che vi [fuori stato] hanno sempre, o almeno da molti anni abitato”. All’elenco dei patrizi seguivano un elenco di membri dell’ordine non ascritto, e uno delle “Persone Ecclesiastiche, et Eredità passate in corpi, o persone non sogette alla Capitaz.e et i Cavallieri di Malta”: rispettivamente, altri 21 e 35 nuclei fiscali; chiudevano le liste 4 ulteriori nuclei fiscali esclusi dalla tassa o dimenticati. Agli elenchi è allegata una ricapitolazione delle somme introitate dal governo in applicazione della tassa. Dei 30 nuclei fiscali patrizi dei quali è esplicitata la residenza estera, 12 si trovavano a Napoli o in Sicilia, 7 a Roma, 6 in Spagna, 3 a Milano e in Lombardia, 1 a Vienna e 1 a Piacenza. La quota dei residenti a Napoli e in Spagna va però sensibilmente aumentata, perché lì avevano interessi e residenza personaggi come i Centurione di Estepa, gli Spinola di San Pietro, gli Imperiale, i Saporiti. Sulle capitazioni di quegli anni vedi anche infra.
[660] Cfr. ASG, AS 1640 A: ricordi del Minor Consiglio, seduta del 10 dicembre 1744.
[661] La relazione, edita da P. L. Levati, I Dogi di Genova dal 1721 al 1746 e vita genovese negli stessi anni, Genova, 1913, pp. …-… è una citazione d’obbligo sulla situazione del patriziato genovese a metà secolo. Resta da spiegare (ma la spiegazione trascenderebbe probabilmente l’ambito genovese) perché l’inchiesta avesse luogo proprio in quel momento di emergenza militare. La relazione trovava analogie, in quegli stessi anni, in altre città italiane, ad esempio a Bologna nel 1744: cfr. A. Giacomelli, La dinamica della nobiltà bolognese nel secolo XVIII, in Famiglie senatorie e istituzioni cittadine a Bologna nel settecento, Bologna, Forni, 1980, pp. 55-112. Sull’ideologia nobiliare italiana in generale cfr. C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia nell’età moderna, Roma-Bari, 198?.
[662] Cfr. ASG, Officiorum et conciliorum, 25-25 bis; Manoscritti della biblioteca, 131. L’elenco dei membri del maggior Consiglio per tutto in Settecento in C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, , pp. 42-44. Inutile precisare che le dimensioni del Maggior Consiglio non corrispondevano all’universo del patriziato adulto, che comprendeva gli assenti dalla città, i maggiorenni non ancora ascritti, i detentori di cariche nel Dominio e in Corsica, i titolari di ordini cavallereschi.
[663] Cfr. le biografie dei due dogi Cambiaso in DBI, 17, pp. 122-123; 128-131.
[664] Copiosa documentazione di entrambi i fenomeni ASG, AS 1051-1071, serie Propositionum.
[665] Cfr. rispettivamente: E. Grendi, Capitazioni e nobiltà ; R. Di Tucci, La ricchezza privata e il debito pubblico di Genova nel secolo decimottavo, in “Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere”, n. s. XI (1932), pp. 1-66; ASG, Antica Finanza 381, quest’ultima apparentemente sinora non utilizzata.
[666]Il confronto delle tre liste del 1731, 1738 e 1744, limitatamente agli imponibili da un miliore in su, mostra censiti, rispettivamente, nove, dodici e otto personaggi. Poiché la massima parte dei nomi ricorrono in tutti e tre gli elenchi, o in almeno due di essi, i milionari censiti risultano in tutto tredici: Gian Francesco Brignole Sale, Giambattista Carrega, Gian Nicolò Crosa (e fratelli), Gerolamo Durazzo, Giacomo Filippo Durazzo, Giuseppe Maria Durazzo, il principe Giustiniani di Bassano Romano, Domenico Grillo, Gian Francesco Grimaldi q. Gerolamo, Michele Imperiale principe di Francavilla, Domenico Sauli, Carlo Ambrogio Spinola marchese de los Balbases, Giambattista Spinola q. Carlo q. Stefano q. Napoleone.
[667] Cfr. G. Giacchero, Economia e società, , pp. 214-219. L’autore nota giustamente (p. 217) che “le maggiori ricchezze d’un Grillo e d’un Carrega arretrano nella graduatoria quando il computo venga istituito per casati, tenendo conto della stretta solidarietà che, particolarmente in campo finanziario, era operante fra i membri delle maggiori famiglie, quando trattavasi di sottoscrivere i ricorrenti mutui, o d’imbastire altri affari che implicassero l’esborso dei loro scudi”. Va però aggiunto che la rete di alleanze familiari e di compartecipazioni finanziarie tra le principali casate è tutt’altro che nota, se non per assaggi, e richiede estese ricerche negli archivi familiari e notarili: cfr., per l’analisi di un campione, G. Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi, citato. Giacchero stesso cita del resto (p. 224) la valutazione fatta dal francese La Lande nel 1765-1766 a proposito dei Cambiaso, un po’ in ombra nel 1738: “la maison Cambiaso … est une des plus riches d’Europe”. Come si segnala nella nota prececente, solo i Crosa, tra i neoascritti, compaiono tra i milionari nelle capitazioni degli anni ‘30-’40. E’ però evidente che la frammentazione della fortuna dei Cambiaso in più nuclei fiscali ne dissimulava la consistenza. Analoga considerazione andrebbe fatta, del resto, anche per alcune casate tradizionali: i Cattaneo, Centurione, De Mari, Lomellini, Pallavicini, ad esempio, allineano un cospicuo numero di grosse fortune, anche se nessuna di esse risultava nel plotone di testa degli imponibili.
[668] Cfr. ASG, Antica Finanza 381; le operazioni di ripartizione si protrassero sino ai primi mesi del 1745; ma il grosso dei nominativi venne elencato nel novembre-dicembre 1744.
[669] Una brillante utilizzazione dei pareri (ricordi) espressi dai principali oligarchi nel Minor Consiglio in C. Costantini, La Repubblica di Genova, citata.
[670] Cfr. A. Costa, Gian Luca Pallavicini e la Corte di Vienna (1731-1735), in GSLL, n. s. II (1926), pp. 116-132; 204-218. Su Beltrame Cristiani cfr. la voce di S. Zaninelli in DBI, 31, pp. 7-11, che però non fa cenno dell’ascrizione del personaggio al patriziato genovese; G. Guelfi Camajani, Il “Liber nobilitatis Genuensis”, p. 132; e la pratica di ascrizione in ASG, AS 2852. Cristiani chiese a sua volta l’ascrizione del figlio mentre duravano le ostilità tra la Repubblica e Maria Teresa; il giovane Luigi Giuseppe Cristiani fu ascritto nella primavera 1746. Quella di Beltrame Cristiani fu la sola ascrizione non venale nell’infornata del gennaio 1745, che nobilitò i Piccaluga, i Cambiaso già di Lisbona (altra famiglia dai Cambiaso polceveraschi che diedero due dogi alla Repubblica), i Cevasco, e il sarzanese Remedi. Cfr. C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, , capitolo V.
[671] I nomi sono tratti da ASCG, Manoscritti Brignole Sale E. VII. 29, che riporta gli imbussolati nell’urna del Seminario dal 1576 al 1756. Le et\` sono state calcolate su G. Guelfi Camajani, Il “Liber nobilitatis Genuensis” citato.
[672] Cfr. ASG, Officiorum et Conciliorum 25: manuale del 1744. Le operazioni elettorali erano durate dal 21 al 27 febbraio: il primo candidato ad essere scelto per la rosa (tra parentesi il voto nel ballottaggio finale) era stato Agostino Grimaldi (196); alla seconda votazione era stato approvato De Mari (260); alla terza Giambattista Grimaldi (176); alla quarta gli altri tre candidati: Giacomo Maria Pallavicini (89), Gian Agostino Serra (96), e Gian Francesco Doria q. Sinibaldo (87). Una maggioranza comoda, ma non schiacciante come quella che, due anni dopo, portò al dogato Gian Francesco Brignole Sale (338 voti, contro i 159 del secondo candidato). Per la regola tacita della alternanza tra le antiche fazioni, nel 1744 il dogato spettava alle case vecchie; nessun Spinola fu scelto per la rosa, forse perché il precedente doge vecchio era stato tratto proprio da quel cognome; non c’era però una consuetudine che escludesse del tutto il caso. Sull’orientamento dei De Mari, cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, I, , pp. 210sgg.. Esplicito l’inviato piemontese Clerico, che nel dispaccio del 7 novembre 1744, segnalando la necessità dell’intervento di guardie svizzere per separare “repubblichisti” e “vassalli” prima che venissero alle mani, scriveva: “La caggione dell’altercazione suscitossi dalla avere l’ultimo il partito dei “vassalli” redarguito quello delli repubblichisti d’avere voluto insistere nell’impegno d’armare, e superatoli a forza con la pluralità de’ voti, di cui l’autore principale ed il capo ne è il moderno Doge Lorenzo De Mari, assieme a’ Sig.ri Marchesi Ippolito e Gian Batta De Mari suoi cugini (partito indi quest’ultimo immediatamente per Venezia a ritrovarvi il Sig. Marchese Steffano De Mari suo fratello, già colà ambasciatore per la corte di Spagna)”. Su questi personaggi cfr. M. Cavanna Ciappina, De Mari, Ippolito; De Mari, Lorenzo; De Mari, Stefano, DBI ??, pp. …-…. Si vedano anche i ritratti di questi personaggi in Campredon, Rélation.
[673]Sul ruolo delle giunte rispetto alle articolazioni ordinarie del governo cfr. C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, , capitolo I. Si veda inoltre il resoconto dell’anonimo informatore genovese del governo di Torino pubblicato in appendice.
[674] Cfr. G.-E. Broche, La République de Gênes et la France, , p. 107; dispaccio di Jonville, Genova, 13 febbraio 1743: “quelli che non sono nobili, che si chiamano qui del secondo ordine, … vorrebbero che la Corsica non appartenesse più alla Repubblica, sia perché sono continuamente gravati di nuove imposte per la conservazione dell’isola, sia per veder abbattuta l’arroganza dei nobili”. I rappresentanti francesi a Genova tendevano sempre ad enfatizzare e sopravvalutare lo scontento dei non ascritti.
[675] Cfr. ASG, AS 2849; il padre di Luca Marcello Ferrero si affrettò a sua volta a scrivere: “su la credulità che fosse stata sufficiente l’offerta d’un picciol dono, che egli offeriva assieme con Luca Marcello suo figlio alla Rep.ca Ser.ma s’era scordato di portare alle mani del Ser.mo un biglietto di lire ventimila com’ha fatto in appresso, da servire in compra di tanti schiavi per le galee, o per la piattaforma e molo di S.Giacomo”. Ma solo Luca Marcello venne ascritto. Non senza qualche esagerazione, Accinelli: “1732 la Repubblica … ascrisse molti soggetti alla nobiltà per far denari”. Cfr. F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, II, , p. 39.
[676] Cfr. ASG, AS 2849, fasc. 78. Il 9 gennaio 1727 i voti espressi risultarono 166, i votanti 161; rifatta la votazione i conti non tornarono ancora, ma “così è restata approvata non ostante il crescimento di due voti a tutto il numero conforme”.
[677] Cfr. ASG, AS 2850: 24 gennaio 1732. In aula, per decidere se ascrivere o no i fratelli Federici di Sestri Levante, c’erano appena 131 consiglieri, compresi i Collegi. Nella stessa infornata di ascrizioni del gennaio 1732 solo i Buonarroti presentarono un’offerta di denaro (anzi, la rinuncia ad un rimborso): ma di appena 2400 lire fuori banco, che sarebbero state “a lui [Giuseppe Maria Buonarroti] dovute per occasione de’ trasporti fatti in Corsica con una sua nave in occasione delle missioni fattevi delle truppe auxiliarie”. L’origine oscura e un po’ infamante della fortuna dei Buonarroti, in Portogallo, è raccontata non senza veleno da Campredon, Rélation.
[678]Sulla questione delle capitazione settecentesche, anche per ulteriori dettagli sugli ascritti degli anni ‘20 e ‘30, rimando a C. Bitossi, “La Repubblica è vecchia”, , capitolo V.
[679] Cfr. N. Calvini, La rivoluzione del 1753 a Sanremo, Bordighera, 1953.
[680] Cfr. ASG, Senato, Atti 3171-3179; e cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, I, , p. 210sgg. Sull’atteggiamento popolare alla vigilia della guerra non mancano documenti, sparsi soprattutto nel fondo Senato. L’argomento meriterebbe un’indagine a sé. La remissività dei polceveraschi verso le truppe in ritirata di Botta Adorno sarebbe stata comprata da quest’ultimo a peso d’oro, stando ai resoconti coevi della rivolta. Ci si può però chiedere se questo atteggiamento non fosse stato incoraggiato dal precedente malumore verso il governo.
[681] Cfr. ASG, AS 2910: seduta del Minor Consiglio del 4 dicembre 1742; le frasi citate sono tratte da questo documento. Carlo Spinola osservava: “che non vi é proporzione, mentre un magnifico cittadino de’ più facoltosi può solamente pagare L. 80, quando per la piggione di casa pagherebbe somma di qualche considerazione”.
[682] Cfr. ASG, AS 2910: la prosecuzione della seduta del Minor Consiglio sulla capitazione, tenuta il 10 dicembre 1742.
[683] Cfr. ASG, AS 1057: relazione dei deputati camerali alla scrittura del 18 novembre 1744. Le spese erano state fatte “per gli accomodi delle fortificazioni, magazzeni della Città, e fortezze di Terraferma, per i bastimenti de’ soldati, provvigioni da bocca e da guerra, che in gran parte mancavano per il consumo fattone in Corsica, e parte in pagamento del maggior numero delle truppe sono di mese in mese andate aumentando”.
[684] Cfr. ASG, AS 1057.
[685] Cfr. C. Bitossi. “Il piccolo sempre succombe al grande”. La Repubblica di Genova tra Francia e Spagna (1684-1685) [1988], in ID., Oligarchi. Otto studi sul ceto dirigente della Repubblica di Genova (XVI-XVII secolo), Genova, 1995, pp. 77-94.
[686] Cfr. ASG, AS 2910: consulta sulla capitazione, 30 ottobre 1744; Agostino Spinola aveva anche osato affermare: “che il segreto stato raccomandato a’ Ser.mi Colleggi non si estende al Minor Consiglio. Che se poi si diffida dello stesso Minor Consiglio in cosa così essenziale, egli si fa lecito di dire colla bocca per terra che diffida di lor Signorie Serenissime circa l’uso, in cui si voglia far servire il denaro che si adimanda”.
[687] Cfr. ASG, AS 2910: “Discorsi del Minor Consiglio sulla proposizione di pagare in conto della capitazione quello fu pagato dalli tassati nel 1738”: 4 dicembre 1744. Anche Gian Domenico Spinola intervenne a favore della proposta.
[688]Si veda il resoconto anonimo pubblicato in appendice. Le trattative con la Spagna sono ricostruibili attraverso la ricca edizione di documenti delle Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovese. VI. Spagna (1721-1745), a c. R. Ciasca, Roma, 1967, pp. 249-513.
[689] Cfr. ASG, AS 2769. A Madrid si trovava, dal 1739, l’inviato straordinario Gerolamo Grimaldi. Cfr. V. Vitale, Diplomatici e consoli, , p. 186; e Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, citato.
[690] Cfr. ASG, AS 2910: ricordi del Minor Consiglio del 1745; mancano i fascicoli relativi ai mesi di gennaio e febbraio; gli intervenuti nelle sedute furono, al solito, assai pochi: Gian Domenico Spinola, Gian Carlo Brignole, Ippolito e Gian Battista De Mari, Gian Francesco Brignole Sale, Giacomo Lomellini.
[691] ASG, AS 1640 A.
[692] Cfr. rispettivamente ASG, AS 1639 B: “Per li giovinastri che tiravano sassate”, 25 aprile 1743; e ASG, AS 1640 A: ricordi del Minor Consiglio, seduta del 7 novembre 1743. Nella stessa seduta, Rodolfo Brignole espresse preoccupazioni per la missione tenuta da Padre Leonardo da Porto Maurizio, in vicinanza delle porte della città: “che l’oggetto di tali missioni è santo, ma che una tanta moltitudine di popolo radunato vicino alle porte della città merita le considerazioni politiche”.
[693]Una panoramica non recentissima ma ricchissima di spunti si trova in Mouvements populaires et conscience social, XVIe-XIX siècles, a c. J. Nicolas, Paris, 1985; ma non vanno dimenticate le ricerche degli storici sociali britannici, tra le quali si ricorda soltanto E. P. Thompson, Customs in Common, London, 1991. Curiosamente la rivolta genovese del 1746, uno tra i più importanti momenti insurrezionali del Settecento, non è mai stata studiata in questa prospettiva, sino al contributo di Luigi Grasso nel presente volume.
[694] Nel corso dei primi anni ’40 Brignole intervenne quasi ad ogni seduta dei ricordi del Consiglietto per sostenere l’applicazione delle leggi suntuarie, nelle quali vedeva un toccasana anche alle sue preoccupazioni nataliste; e all’occasione per proporre la sospensione delle feste di carnevale, la chiusura obbligatoria di botteghe e uffici per partecipare a preghiere e processioni; e condiva questa attitudine con un’ossessiva polemica nei confronti degli ebrei, che voleva veder allontanati da Genova.
[695] Le citazioni e il riassunto degli interventi di Gian Carlo Brignole sono basati su ASG, AS 1640 e 1640 A.
[696]Sulla condizione delle finanze pubbliche genovesi si veda il contributo di Giuseppe Felloni a questo volume.