UNA MOSTRA COSI’ GAGLIARDA

“UNA MOSTRA COSÌ GAGLIARDA”

Minacce francesi e difese genovesi nel 1679 *

 

  1. Gli anni che precedettero il bombardamento francese del 1684 furono, com’è noto, tra i più critici nella storia politica e diplomatica della Repubblica di Genova. I suoi governanti videro, o credettero, minacciata l’indipendenza stessa di Genova senza poter fare troppo conto sul sostegno militare che la Spagna aveva un tempo assicurato. Nella prima metà del 1679 i magnifici temettero imminente un attacco militare francese, condotto d’intesa con il duca di Savoia, il tradizionale nemico della Repubblica, se non addirittura sotto le sue bandiere. I genovesi provvidero perciò a ingaggiare un comandante militare e un ingegnere, levare truppe mercenarie, acquistare armi, riassettare fortificazioni, e anzitutto a raccogliere con attenzione tutti gli avvisi riguardanti i preparativi militari francesi. Il temuto attacco non avvenne: non quell’anno, almeno. L’attesa aveva tuttavia messo allo scoperto le risorse e gli orientamenti di un ceto di governo dalle deboli risorse militari e tradizionalmente alieno dall’assumere iniziative marziali, ma non per questo disposto a soccombere alla politica del Re Sole. Quanto accadde, o meglio non accadde, nel 1679 offre perciò un saggio della politica dei magnifici in tempi difficili.
  2. Per la Repubblica di Genova la cessazione delle ostilità in Europa, nel corso del 1678, ebbe la conseguenza paradossale di acuire i pericoli. Proprio in quell’anno la flotta francese, avvisaglia allarmante, bombardò Sanremo e Sampierdarena. E la pace di Nimega («pace vergognosa», a giudizio di un genovese filoimperiale [1]) in via di perfezionamento lasciava il Re Sole arbitro dell’Europa [2]. Come ammoniva minacciosamente un ufficiale di marina francese: «Non vi è più Carlo Quinto; Carlo Quinto è il nostro Re hora» [3]. Francesco Maria Imperiale Lercari, un influente oligarca che pochi anni dopo sarebbe divenuto doge, certo delle intenzioni aggressive della Francia, additava ai consorti come sola garanzia internazionale per Genova la tradizionale alleanza spagnola e la protezione del Pontefice: la riproposta, insomma, di una politica antica e collaudata [4]. Nell’inverno 1678-79 l’oligarchia cercò una salvaguardia diplomatica chiedendo che la Repubblica fosse inclusa nella pace tra il re di Francia e l’Imperatore, firmata infine ai primi di febbraio e ratificata alcuni mesi più tardi. La carestia e il malcontento popolare, che gli informatori del governo coglievano nelle radunanze serali dei portoriani e nel grido «Viva Francia!» partito da una folla di affamati radunata sotto il palazzo del principe Doria [5], potevano indurre qualche osservatore ostile a pensare che l’oligarchia disponesse di un consenso più fragile di quanto non fosse in effetti. Certo, le frequenti lamentele e gli occasionali atti di insubordinazione della plebe erano ben presenti all’attenzione dei governanti. I provvedimenti contro i ladri e i «ladretti» (cioè i giovanissimi), contro gli oziosi e i mendicanti forestieri, i propositi di nominare un commissario per la città con compiti di polizia tradivano una preoccupazione per l’ordine pubblico che nelle lettere di qualche magnifico ai Collegi assumeva i contorni dell’incubo [6]. Ma più che sugli strascichi della carestia, la cui fase più acuta era ormai superata [7], l’attenzione degli oligarchi si concentrava sulle complicazioni internazionali. E su questo terreno, come a voler indurre i colleghi a manifestare apertamente la scelta di campo di Genova, l’Imperiale Lercari raccomandava di nominare al più presto nuovi ambasciatori della Repubblica a Madrid e a Roma (dove nel frattempo operavano degli agenti), mentre riteneva che a curare gli affari a Parigi bastasse il segretario di legazione Bernardo Salvago: libero, a differenza di un ambasciatore, dai vincoli dell’etichetta, questi poteva muoversi con disinvoltura e con efficacia nelle anticamere dei ministri del re [8]. Coincidente l’opinione dell’ex residente a Parigi Nicolò De Mari: soltanto in circostanze straordinarie andava inviato un ambasciatore al Re Sole [9]. Era, questa, l’opinione degli oligarchi filospagnoli? Forse. Ma l’avviso contrario, di nominare quanto prima un nuovo ambasciatore a Parigi (oltre che a Roma: su questo non c’era disaccordo), raccoglieva la maggioranza dei consensi nel Consiglietto ed era approvato nelle stesse corti spagnola e pontificia [10]. Che questa opinione prevalesse largamente, era un giudizio implicito sul conto che poteva farsi delle forze spagnole per la difesa della Repubblica. Si rivelò tuttavia impossibile trovare subito chi accettasse gli incarichi. Nel mese di marzo un candidato per Roma e due per Parigi rifiutarono la nomina. Timore delle spese di rappresentanza (che a Roma proprio l’Imperiale Lercari aveva fatto fortemente lievitare gareggiando col residente savoiardo per le preminenze [11]) e preoccupazione per gli interessi privati concorsero a far sì che quando più pareva temibile l’aggressione francese il servizio diplomatico della Repubblica si trovasse in un assetto precario.

L’irresolutezza contrassegnò, all’inizio dell’anno, anche la discussione sul problema delle ascrizioni alla nobiltà. Gli oligarchi consultati in proposito erano nel complesso favorevoli a passare la posta di ascrivere: ma per alcuni gli ascribendi dovevano essere scelti sulla base dei soli meriti, conformemente alla lettera delle leggi (ciò che era probabilmente un modo indiretto e sottile di opporsi alla posta), mentre i più favorevoli alla posta si mostravano disposti ad ascrivere anche chi semplicemente sborsasse denari [12]. Questa disponibilità rivelava la preoccupazione di almeno una parte dell’oligarchia per la mancanza di denaro nelle casse della Repubblica, impedimento all’organizzazione di un’eventuale difesa. Non a caso i più corrivi allora a vendere la nobiltà si dimostrarono in seguito i più preoccupati dell’attacco francese. La posta dell’ascrizione, messa in votazione nel Consiglietto sei volte con suffragi sempre crescenti, fu tuttavia bloccata da un nocciolo duro di circa settanta oppositori. Per quell’anno non era da lì che la Camera poteva aspettarsi un soccorso [13].

  1. La paura dei francesi cominciò a manifestarsi in febbraio. Il 6 di quel mese, nella seduta del Consiglietto dedicata ai ricordi, Gian Francesco Spinola mise in guardia contro un attacco francese dal mare [14]. Sui tavoli degli Inquisitori di Stato e dei Collegi cominciarono ad affluire avvisi preoccupanti. “Il tavoliere sopra del quale si giocarà”, scriveva un corrispondente, «sarà o del Mantovano, o del Genovese» [15]. Voci di grandi preparativi in Provenza rimbalzavano a Genova da Bruxelles con una lettera del 10 febbraio [16]. A Roma, secondo il cardinale Raggi, circolava la «comune opinione» di un imminente attacco alla Repubblica [17]. Verso il 20 febbraio alcuni avvisi individuavano in Casale l’obiettivo più probabile dei francesi; altri avvisi prevedevano invece un attacco a Ginevra e l’acquisto di Monaco da parte della Francia. Era dato per certo il viaggio del re a Lione in primavera, e per imminente l’arrivo di Louvois a Pinerolo e di Vivonne a Marsiglia [18]. Il 21 febbraio i Collegi ricevettero la falsa notizia dell’avvistamento di quaranta vascelli circa al largo di Ventimiglia, mentre Milano faceva da sponda ad avvisi parigini che preannunciavano l’attacco a Genova. Bernardo Salvago, nel riferire la spiegazione ufficiale dei ministri del Re Sole, che i preparativi navali erano contro Tripoli, aggiungeva tuttavia che erano state «studiate, e distese in carta tutte le ragioni, che questa corona pretende contro, o sopra gli stati della Repubblica Serenissima» [19]. Le voci di allarme vennero riprese ed enfatizzate in particolare dal governatore di Milano, conte di Melgar, che attraverso il residente genovese Gian Nicolò Spinola mise ripetutamente in guardia la Repubblica[20]. Ai timori per il concentramento di soldati francesi in Provenza, Delfinato e Linguadoca si aggiunsero presto quelli per la lontana squadra navale di Brest, in procinto, secondo avvisi dei primi di marzo, di portarsi nel Mediterraneo [21]. Gli astrologi si affrettarono a pronosticare sciagure per i mesi di maggio, giugno e luglio [22]. Col passare dei giorni gli avvisi precisarono gli obiettivi dei francesi: Genova stessa, più probabilmente Savona, forse il golfo della Spezia. Si congetturava che i francesi avrebbero attaccato sotto bandiera savoiarda e che avrebbero preso Ginevra per cederla a Madama Reale (la reggente del ducato di Savoia) in cambio di Savona. La riviera di ponente, la Savoia, Monaco, Nizza vennero a turno evocate come pedine di scambio tra il Re Sole e Madama Reale [23]. L’epicentro dell’allarme si trovava in Piemonte e stabiliva il tenore delle corrispondenze da Torino e da Pinerolo. Le voci raggiungevano Lugano e da lì i cantoni svizzeri, erano accreditate nella stessa Casale, si diffondevano a Venezia e a Napoli, dove la rosa degli obiettivi francesi si allargava a comprendere la Corsica e Messina [24]. Gli avvisi dalla Toscana includevano la previsione giunta dalla corte di Baviera del «disponersi in Italia un gran fuoco fra Genovesi, e Savoiardi da un gran Principe» [25]. Nel contempo un flusso di notizie altrettanto continuo e preoccupante giungeva dalla Provenza e da Nizza. A Savona gli allarmi spinsero alcuni a «mandare qualche robbe negli monasteri» [26]. A metà marzo arrivò voce che i mercanti di Lione avevano scritto ai corrispondenti di Livorno di non imbarcare merci sui navigli genovesi e che istruzioni analoghe erano pervenute al console francese a Genova, Nicolas de Compans [27]. A Roma la sorte della Repubblica veniva discussa «con sentimenti di commiserazione», benché l’imbarazzato Pontefice non potesse promettere altro aiuto che le proprie preghiere [28]. Al culmine del pericolo i magnifici, «attese le congiunture presenti», cominciarono a «mandar via denari, robbe, et anche […] partirsi dalla Città e levar casa dalla medesima»; molti, pare, ritirarono i depositi in San Giorgio «con qualche strepito et apparenza» [29]. Non che i Collegi mettessero in discussione il diritto di ciascuno di disporre del proprio denaro; ma eccepivano sullo «strepito et apparenza» della corsa agli sportelli. In mezzo all’allarme non mancavano le notizie tranquillizzanti; ed anche ad un osservatore allarmista delle mosse dei francesi a Pinerolo pareva «cosa incredibile tanta incertezza e varietà di parlare in tanta vicinanza» [30].

Nella seconda metà di marzo, a misura che le notizie sui movimenti delle soldatesche francesi si facevano più confuse, l’attenzione si spostò sui preparativi navali. Il 19, tuttavia, i Collegi appresero dal dispaccio di Bernardo Salvago del 6 precedente che la stampa delle rivendicazioni francesi su Genova era stata sospesa [31]. Da Torino il 20 giunse notizia che «della marchia de’ francesi a Pinerolo non se ne discorre più» [32]. I segnali di allarme che pur continuarono a giungere durante la seconda metà del mese erano per lo più lettere scritte alcune settimane prima e superate dai più recenti avvisi. Il momento critico pareva passato. La paura, semmai, si decentrava: a fine marzo, stando agli Inquisitori di Stato, era diffusa nella riviera di ponente. Ma il governatore di Savona Carlo Spinola, invitato «a inanimare questi paesani», rassicurò ben presto che non ce n’era bisogno, «stante, che non si sente che faccino mottivo alcuno» [33]. Ad Ovada, il 10 aprile, l’allarme portato da un abitante di ritorno dalla riviera spinse alcuni possidenti a trasferire in tutta fretta la «robba» nel feudo imperiale di Roccagrimalda [34]. Ma proprio in aprile giunsero infine formali assicurazioni dal Pomponne che la pace tra Genova e Francia non era per il momento in pericolo. L’attenzione si orientò di nuovo su Casale; ed anche a quel riguardo il Salvago avvertì tempestivamente che erano sorti ostacoli all’occupazione della città da parte dei francesi [35]. L’inviato genovese a Milano constatava il 17 aprile come gli affari di Italia s’andassero «instradando alla quiete» [36]. A Torino la preoccupazione principale non era più quella dei francesi, ma di una «influenza di febri maligne» [37]. Bernardo Salvago aveva scritto sin dal 10 aprile che le truppe francesi del Delfinato erano tornate negli accantonamenti e che gli armamenti navali non eccedevano l’ordinario. Altre fonti aggiungevano che le galee scarseggiavano di ciurme e che a Marsiglia donne e bambini avevano tumultuato per il pane [38]. Louvois era di ritorno a corte. Pomponne, confermava da Roma il cardinale Spinola, dava «buone speranze» [39]. Mentre con singolare intempestività un informatore lanciava allarmi da Casale ancora il primo di maggio, agli osservatori non restava che domandarsi quale «speciale disegno» avesse spinto il re di Francia ad «una mostra così gagliarda» [40].

  1. La paura dell’aggressione francese aveva alimentato il sospetto del tradimento. L’ambasciatore del Re Sole a Torino, scriveva da quella città un osservatore genovese l’8 marzo, «è informatissimo di quanto si fa in Genova e di che genio siano molti cittadini particolari, di quel che si tratta in cotesti consigli, della fortezza di Genova, di quanti soldati, di che apparecchi, di che munitioni etc.» [41]. Anche a parere del cardinale Spinola «le pratiche discusse in Consiglietto riescono poco segrete» [42]. Fra gli stessi nobili, accusava un avviso da Pieve di Teco di metà marzo, c’era «intelligenza con la Francia» [43]. Un corrispondente da Torino nominò apertamente Gian Luca Durazzo, che era stato ambasciatore a Parigi, come «persona gradita ai francesi» [44]. Un altro corrispondente anonimo mise più genericamente in guardia contro «la nobiltà adherente al Re, e particolarmente quelli sono stati in Francia, a quali il Re ha fatto molte cortesie» [45]. Dall’anonimato salivano insinuazioni sulla lealtà dei supremi reggitori della Repubblica, voci di un ritorno sulla scena di Raffaele Della Torre (che nel suo esilio francese era sorvegliato dal governo genovese e che temeva, non a torto, i pugnali dei sicari) [46], la denuncia della «proposizione che incomincia a correre in bocca di qualcheduno, cioè sia bene il pensar presto ad avvantaggiare con la Francia di condizione» [47]. Un prete fiammingo che si protestava «fedelissimo suddito» della Repubblica esortava in aprile «a star vigilante sopra qualche tradimento» [48]. Un bandito, che offriva di vendere importanti rivelazioni, pregava l’intermediario della trattativa (non conclusa) di «non parlarne con persona nota, mentre in Genova vi sono molti spioni tenuti per avvisare tutto quello passa» [49]. In realtà i primi a non far conto su trame sovversive di nobili filofrancesi erano proprio gli informatori del Re Sole. Giusto era, in definitiva, lo scarso interesse che, a quanto pare, Collegi e Inquisitori di Stato prestavano alle denunce di quel genere [50]. I sospetti degli Inquisitori si appuntavano piuttosto, allora e in seguito, sugli stranieri: viaggiatori (o sedicenti tali) francesi, religiosi di origine piemontese, profughi messinesi (ce n’erano in città alcune decine). Ma, individuati gli obiettivi del controspionaggio della Repubblica, restava da procurare l’intelligenza delle mosse francesi. Come?
  2. La via regia delle informazioni era naturalmente quella dei dispacci diplomatici. Bernardo Salvago da Parigi, Gian Benedetto Pichenotti da Madrid, Giulio Spinola da Vienna, Gian Nicolò Spinola da Milano ragguagliavano i Collegi con cadenza più o meno settimanale [51]. Eccettuati i dispacci da Milano, le loro lettere impiegavano da due a quattro settimane, a seconda delle distanze, per arrivare a Genova. Particolarmente delicato si presentava il compito del Salvago, chiamato a decifrare gli «impenetrabili pensieri» del Re Sole (al quale, osservava un avviso, «gli stessi francesi ubbidiscono alla cieca e giocano al pari di noi ad indovinare» [52]) e lo stile «segreto, circospetto, con risponder succintamente senz’alcun impegno» del Pomponne [53]. Da Roma le informazioni importanti giungevano non dall’agente, ma dai cardinali Raggi e Spinola, ed erano contenute nella corrispondenza formalmente privata fra i due porporati ed alcuni parenti a Genova.

Di grana più grossa e di valore assai diseguale erano gli avvisi dei giusdicenti del ponente minacciato, alcuni dei quali, come il governatore di Savona Carlo Spinola, dimostravano sangue freddo, mentre altri, come il capitano di Ventimiglia Gian Filippo Giussano, inclinavano all’allarmismo. I giusdicenti dei borghi rivieraschi ricevevano notizie dalle imbarcazioni di ritorno dai porti provenzali. A Savona venivano interrogati i viaggiatori dal Piemonte e il «pedone» di Avignone, venivano lette le missive da Pisa per il cavalier Gavotti, notabile locale, e la corrispondenza di «una dama di queste nostre langhe»; all’occorrenza il governatore mandava un «espresso» in ricognizione nei dintorni di Mondovì. Pieve di Teco era il centro di smistamento degli avvisi di Angelo Maria Massa, un prete che, mentre si recava a Torino per suoi interessi, raccoglieva informazioni dal fratello là residente. Ad Albenga svolgeva la stessa attività Pietro Francesco Griffo, che, come ricordava ai Collegi il locale giusdicente, aveva già operato come informatore della Repubblica in Piemonte, salvandosi per il rotto della cuffia dall’arresto. Il capitano di Polcevera interrogava i mulattieri di Campomorone e di Pontedecimo che durante l’inverno avevano guidato convogli da Lione a Pinerolo, facendo tappa presso un compaesano trapiantato a Susa come appaltatore delle dogane. Le valutazioni del Massa e del Griffo sull’entità delle forze francesi, basate su voci e avvisi, non differivano da quelle che per altra via pervenivano direttamente ai Collegi. I mulattieri dell’alta Valpolcevera, testimoni oculari, fornivano invece precisi ragguagli sulla quantità e qualità delle munizioni trportate o viste nei magazzini, mentre discordavano nel giudizio sulle truppe incontrate, che, per esempio, ad uno erano parse francesi e ordinate e al compagno di viaggio savoiarde e «male andate» (e ci si può chiedere se stessero parlando degli stessi reparti) [54]. Ancora più incerte erano le notizie date da informatori anonimi di varie località, da Torino e Casale a Venezia e Napoli, spesso tratte da lettere private che i destinatari mettevano a disposizione dei Collegi: notizie di seconda o terza mano, la cui dubbia attendibilità veniva compensata dalla attribuzione, di volta in volta, a «persona di grande autorità», «personaggio grande e che lo può sapere», «ministri superiori e di tutta fede», un «ministro principale» della corte di Parma, il fratello di un agente del duca di Mantova, in mancanza di meglio una «persona ordinaria, ma che ha introduttione con molti ministri, e penetra molte cose» [55].

Di seconda mano erano anche gli avvisi di informatori in buona fede. Giambattista Micone, a Nizza per affari, descriveva in una lettera al padre i preparativi militari francesi che aveva «inteso da Monsù Parletto et il spetiaro di Villa Franca che l’hanno inteso da Senatori di questa città». Il padre Profumo sapeva che c’erano truppe francesi oltre Grasse per averlo appreso che c’erano truppe francesi oltre Grasse per averlo appreso da padre Guglielmo da Voltri. A Marsiglia si diceva pubblicamente che gli armamenti navali erano contro Genova: e questo riferivano lealmente i naviganti alassini di ritorno a casa. Nei mercati piemontesi si dava per certo che i francesi avrebbero presto attaccato la Repubblica: ed era quanto diffondevano i viaggiatori.

Le stime delle truppe francesi a Pinerolo variavano da settemila a undicimila uomini circa; ma c’era chi parlava di «poca gente» o di soli millecinquecento uomini in più del presidio ordinario; due avvisi dello stesso giorno davano cifre differenti. Le truppe di Provenza e del Delfinato, che nessuno degli informatori aveva visto, ammontavano secondo la maggior parte degli avvisi a trentamila uomini e secondo qualcuno a cinquantamila o anche a settantamila; a fine marzo il Salvago informò che i soldati non erano più di diecimila; ma un avviso di metà aprile segnalava ancora quarantamila fanti e quattordicimila cavalli. Contare le navi francesi, alla fonda nei porti o negli arsenali, era certamente più facile che non valutare le dimensioni di un esercito. Eppure, anche in quel caso le discordanze erano sensibili. In febbraio i mercanti e marinai genovesi di ritorno da Marsiglia e Tolone dicevano che in quei porti erano in allestimento 8 vascelli e 24 galee; in marzo le stime variavano da un minimo di 10 vascelli e 15 galee a un massimo di 24 vascelli e 28 galee; ma per qualcuno le galee erano 37. Nella prima metà di aprile un inviato degli Inquisitori di Stato, che si presentava come appaltatore di vino per le galee della Repubblica, visitò Marsiglia, Tolone e Monaco. Appurò che a Marsiglia c’erano 20 galee pronte e 8 in allestimento e a Tolone 8 «fregatte» e 4 «buslotti»; parlò con ufficiali francesi di sua conoscenza e con un amico gabelliere del principe di Monaco; ma, oltre ad accertare che a Monaco tutto era quieto, ricavò solo che alcuni degli ufficiali prevedevano un attacco a Genova ed altri no. Più precisa, ma ormai era maggio, una persona mandata in Piemonte a raccogliere informazioni smentì l’esistenza di pericoli per Genova.

Un osservatore, anch’egli per altro latore di notizie implausibili, ebbe ad esprimere disprezzo per le «voci popolari che subito scompaiono» [56]. Quelle diffuse dal mondo itinerante dei naviganti e dei mulattieri, dei preti e dei mercanti erano in realtà voci persistenti e omogenee, che traevano origine dalla constatazione dei preparativi di guerra; e nel generale allarme, che in Piemonte era forse più ancora paura dell’accaparramento di vettovaglie ad opera dei furieri di Louvois che non delle ostilità, filtravano anche valutazioni realistiche e notizie esatte. Ma come riconoscerle? Molto più sicuro, per i governanti genovesi, attingere informazioni alle fonti più alte, «penetrare», come raccomandava il cardinale Raggi, «i sentimenti di personaggi riguardevoli», cercare di infiltrare, come raccomandava un altro ecclesiastico, persone fidate nel seguito del residente spagnolo a Torino, duca di Giovinazzo, di origine genovese, e dell’ambasciatore del Cattolico a Parigi, Paolo Spinola Doria, anch’egli oriundo genovese [57]. Bernardo Salvago, riferendo i propri vani sforzi di mettere le mani sulla stampa delle rivendicazioni francesi, osservava che lo stampatore si era rivelato «invincibile a tutti i tentativi che molti gli ho fatti fare da più parti» [58]. Aveva fallito, ma aveva provato. A loro volta gli Inquisitori di Stato si proponevano «per mezzo di qualche regallo indurre per alcun tempo il S.r Compans», il console francese a Genova, «a dare le notizie che si potessero di qualche serviggio» [59]. Ci riuscirono? E a chi, se non ad un informatore, il procuratore perpetuo Cesare Gentile venne autorizzato a versare personalmente in segreto del denaro [60] ? Nei corridoi della corte imperiale Giulio Spinola captava e trasmetteva a Genova le notizie che una dama riceveva da un suo «galano o mezzano» francese: notizie che fruttavano alla donna, vero e proprio agente segreto in guardinfante, una pensione dall’imperatore e che altre volte si erano dimostrate esatte, ma che nel febbraio (infortuni del servizio segreto) accreditavano la voce di un attacco francese alla Repubblica [61].

Infine, le informazioni decisive giunsero da dove era più naturale attenderle: da Bernardo Salvago, che a Parigi aveva stretto buoni rapporti con «Monsù Passò, commesso di Monsù di Pompona, e Monsù de Girò sottointroduttore degl’ambasciatori, animati da particolare inclinazione» (forse opportunamente incoraggiata) per la Repubblica [62]. Fosse per l’abilità personale o per le occasioni offertegli dalla sua posizione o per l’uso accorto di informatori, Salvago fornì costantemente ai Collegi un quadro lucido e pacato della crisi in corso. Non meno misurati nei giudizi si dimostrarono i cardinali. Il cardinale Spinola, in particolare, oltre a dare ragguagli, consigliò ai Collegi la linea di condotta più opportuna per la Repubblica, consistente in un rafforzamento discreto delle difese che non provocasse il suscettibile monarca di Versailles [63]. Suggerimenti che non rimasero inascoltati.

  1. Di provocare il re, era dubbio che la Repubblica avesse la possibilità. Desolante appariva ai magnifici il catalogo delle debolezze di Genova sul fronte militare: mal difeso il porto, bisognose di riparazioni le nuove mura, sguarnita Savona e, quel che era forse peggio di tutto, vuote le casse della Camera. Per risolvere quest’ultimo problema, nella seduta dei «ricordi di mese» del 7 marzo fu proposto di «infeudare qualche picciole terre» (Agostino Franzone), di «voltarsi alla vendita de’ stabili publici» (Giambattista Grimaldi), di battere come al solito cassa a San Giorgio (Giovanni Torriglia), di sacrificare le argenterie («offrendosi il proponente [Marco Doria] di dare l’esempio»), di inasprire qualche gabella (Cristoforo Centurione): tutti espedienti per varie ragioni insufficienti o controproducenti, talché Nicolò Grimaldi non sapeva consigliare altro che di «implorare l’aiuto divino e placarlo per li peccati commessi» [64]. A tassarsi, la nobiltà riluttava. L’operazione si presentava lunga e complicata; e restavano da riscuotere i residui di una precedente tassa sulle riviere. Il passo fu compiuto solo nel 1681. Nel frattempo l’emergenza venne affrontata racimolando denari dove era possibile e soprattutto lesinando sulle spese.

All’inizio di marzo il commissario della fortezza di Savona, Giuseppe Pallavicino, lamentò che la guarnigione non bastava nemmeno per assicurare i turni di guardia, e che di 55 pezzi di artiglieria disponibili sulla carta appena 21 erano utilizzabili; solo dopo un mese e nuove lagnanze ottenne che gli fossero assegnati i cannoni della demolita fortezza di Vado [65]. A fine marzo il magistrato di Corsica segnalò che il presidio dell’isola consisteva di 511 uomini in tutto, e chiese almeno duecento soldati oltramontani di rinforzo. Viceversa, per difendere la terraferma i Collegi fecero arruolare alcune compagnie di corsi, che una volta pronte restarono tuttavia bloccate a Bastia dal maltempo, ma più ancora dal timore di incrociare durante la rotta vascelli francesi. E non appena possibile, buona parte delle nuove leve venne smobilitata [66]. L’intero corpo di artiglieria della Repubblica contava circa 270 uomini. Poiché Lucca nicchiava a concedere il consueto arruolamento di bombardieri, fu disposto l’ingaggio di artiglieri inglesi a Livorno: salvo ripiegare, una volta conosciute le loro richieste salariali, sulla soluzione autarchica di invitare i consoli di alcune arti a mandare a far addestrare i loro lavoranti [67]. Le armi da fuoco conservate nell’armeria erano «in numero assai scarso»; le picche avevano le aste «tarlate»; gli spingardi mancavano di cavalletti, i moschetti di forcine, i badili di manico; inoltre erano spariti molti moschetti e archibugi, «quali non si sa dove possino essere andati» [68]. La Repubblica dovette perciò provvedere urgentemente all’acquisto di partite d’armi e munizioni. A Savona, avvisava l’1 aprile il governatore, i lavori di fortificazione andavano a rilento perché «gl’operarij si fanno operar di più, e meglio con il denaro alla mano, e pagarli prontamente»: e invece dalla Camera non giungevano denari né per le maestranze né per la compagnia arruolata a rinforzo del presidio [69].

L’acme del pericolo, insomma, giunse e passò senza che la Repubblica disponesse di difese adeguate. Il condottiero che pareva necessario procurare era stato presto individuato in Don Carlo Tasso, un comandante di cavalleria nativo del Dominio, disoccupato per essersi appena dimesso dal servizio del re Cattolico. Giulio Spinola, incaricato all’inizio di marzo di ingaggiarlo, presentava il Tasso come un «huomo d’honore, di ponto, buon patriotto», che per una questione di puntiglio aveva abbandonato un impiego ormai trentennale [70]. La Repubblica prometteva al veterano l’ascrizione alla nobiltà, ma gli offriva uno stipendio inferiore ai precedenti e alle aspettative. L’agente genovese faceva inoltre notare ai Collegi che «questo è povero huomo, et honorato, e che non si chiama uno a venir a servire senza provederlo d’aiuto di costa per il viaggio» [71]. Quando il Tasso partì per Genova, fu Giulio Spinola a prestargli amichevolmente il denaro necessario. La Repubblica era anche alla ricerca di un ingegnere. Alla corte imperiale non ce n’erano «di buoni, ma ne anche di mediocri» [72]. A Milano gli ingegneri erano quasi tutti già al servizio del re di Spagna e, comunque, esigenti in fatto di stipendio. Tra un candidato «d’esperienza» ed uno «di maggior scienza e habilità» proposti dall’agente Gian Nicolò Spinola la Repubblica (questione d’ingaggio?) propendeva per il primo; alla fine d’aprile arrivò invece una terza persona, l’ingegner Barca, «più presto agrimensore che ingeniere», secondo lo sprezzante giudizio di un alto dignitario spagnolo che lo conosceva [73].

L’opera del Tasso non si rese necessaria. Il suo piano di guerra sembra prevedesse l’abbandono di Savona e il concentramento delle forze della Repubblica alla difesa di Genova: ciò che più d’un oligarca aveva proposto in Consiglietto sin dalla fine di febbraio. In realtà, quando il minuscolo stato maggiore della Repubblica fu costituito, la minaccia di un attacco francese o savoiardo per via di terra era ormai svanita. Preoccupava, semmai, la flotta di Vivonne, salpata dai porti provenzali nella prima metà di maggio per la consueta crociera. Per evitare incidenti a motivo delle precedenze e dei saluti, i Collegi raccomandarono che le galee della Repubblica non si facessero trovare in mare aperto. I giusdicenti delle riviere, pur esortati a stare all’erta, ricevettero istruzioni generiche. Al governatore di Savona, che aveva chiesto insistentemente ordini precisi per il caso che le galee francesi volessero entrare nel porto, i Collegi risposero, dopo lunghe tergiversazioni, con un capolavoro di tortuosità, che mirava molto probabilmente ad addossare proprio al giusdicente locale la responsabilità di eventuali incidenti [74].

Quando la flotta di Vivonne fece scalo a Genova, le sue mosse furono seguite con attenzione. Ma per non contrariare il suo comandante uno sfortunato disertore venne prontamente riconsegnato agli ufficiali del Re Sole. Nel frattempo, sempre per compiacere i francesi, era stata accelerata la pratica che un certo Monsù Forno aveva con la Camera e della quale si era interessato lo stesso Colbert [75]. Così quell’estate trascorse senza incidenti.

  1. Durante il tardo inverno e la primavera del 1679 le voci di minacce francesi su Genova vennero, lo si è detto, volentieri raccolte e amplificate dal governatore di Milano, conte di Melgar, e dall’ambasciatore spagnolo a Genova, Don Manuel Coloma, i quali colsero in quel modo l’occasione di proporre alla Repubblica l’ingresso in una lega difensiva che avrebbe dovuto collegare alcuni stati italiani (Venezia, la Toscana, Genova appunto) alla Spagna: un’iniziativa lanciata già l’anno precedente dai ministri del re Cattolico e tendente, fra l’altro, a snidare Genova dalla sua preoccupata neutralità. Le proposte avanzate dal Melgar a Gian Nicolò Spinola alla fine di febbraio, però, non coincidevano con quelle che ai primi di aprile Coloma presentò al doge, nel corso di un’udienza straordinaria appositamente sollecitata. La discrepanza fra le due proposte, riguardo all’inclusione del papa e del duca di Savoia nella lega, fornì ai genovesi l’appiglio per tergiversare, tanto più che, come fu notato, di lega non si parlava nei dispacci di Pichenotti da Madrid [76]. Il governatore di Milano, impegnato a fronteggiare con scarse forze le manovre francesi per occupare Casale, d’accordo o no con la Corte di Madrid, spargeva allarme per calcolo e non per faciloneria, come sembrava ritenere a Vienna Giulio Spinola [77].

La discussione sulle offerte di entrare nella lega, anzi di svolgere una parte attiva nella sua costituzione (offerte che Melgar accompagnava con la minaccia di rifiutare il proprio aiuto alla Repubblica in caso di bisogno), divise il Consiglietto, dove si confrontarono valutazioni diverse sia del pericolo che la Repubblica stava correndo, sia dell’atteggiamento da tenere con Melgar, sia infine della praticabilità di soluzioni alternative. Tre erano in sostanza gli orientamenti. Alcuni oligarchi, soprattutto delle famiglie Spinola e Doria, esortavano a proseguire i negoziati ed anche (era il caso di Gian Francesco Spinola) a far lega con la sola Spagna; altri, come Giambattista Grimaldi, propendevano per un rafforzamento autonomo delle difese della Repubblica; altri ancora, infine, non davano alcun credito alle affermazioni di Melgar e non temevano la Francia. Questi ultimi (Pietro Durazzo anzitutto, Gian Luca Durazzo, Paolo Geronimo Franzone, Gian Carlo Serra, Giacomo Maria Salvago, Giambattista Lomellini) erano il nocciolo del partito francese all’interno del patriziato. In minoranza fra i notabili chiamati a consulto, facevano abilmente notare le logiche conseguenze dei provvedimenti richiesti sia dal partito spagnolo sia da chi voleva che la Repubblica facesse da sé: un carico di spese che la Camera non poteva sopportare. Perciò si opponevano a progetti di lega, armamento di nuove galee, leve di milizie e arruolamenti di mercenari, movimenti di truppe che provocassero la Francia. Erano argomenti di peso, che nella votazione del 28 marzo riuscirono a far respingere una risposta interlocutoria al governatore di Milano. Il successivo chiarirsi della situazione facilitò l’accantonamento, almeno momentaneo, dei propositi di rompere la neutralità. L’agente e informatore francese Dancourt riferì al suo governo, proprio nel 1679, che la politica della Repubblica era diretta dagli oligarchi fautori di casa d’Austria [78]. Eppure, le iniziative che essi presero in quell’anno vennero tenacemente ostacolate e non di rado neutralizzate da una consorteria contrapposta. I contrasti all’interno del patriziato sulla condotta da seguire nei confronti della Francia erano destinati a proseguire negli anni seguenti.

  1. Il senso della «mostra così gagliarda» delle armi francesi si chiarì col passare dei mesi. A fine febbraio Villars, ambasciatore uscente di Luigi XIV a Torino, scrisse a Pomponne che tutta l’Italia era incerta su quale fosse l’obiettivo del Re Sole, se Genova, Ginevra o Casale [79]. Come entrambi sapevano, era Casale. La fortezza sarebbe dovuta cadere nelle mani di Catinat nel febbraio 1679, in conseguenza dell’accordo segreto stretto a Venezia dall’inviato francese d’Estrades col duca di Mantova e perfezionato (così almeno si credeva) a Parigi dall’agente mantovano conte Ercole Mattioli [80]. «Huomo di pensieri sempre torbidi, e cabalista», raccontava un avviso dell’agosto 1679, questi «fece progetto di vendere Casale et anche il Monferrato, e ne strinse molto la pratica, vogliono in Mantova fosse ciò senz’alcun ordine» [81]. Dopo aver scucito denari al d’Estrades, Mattioli rivelò la trattativa alle autorità milanesi e veneziane, e prima ancora a Madama reale, che malauguratamente per lui informò la corte di Francia del suo doppio gioco. Louvois in persona era stato coinvolto nella macchinosa trattativa segreta per Casale. Per mascherare il colpo a sorpresa su quella piazzaforte erano state inutilmente mosse truppe, diffuse e alimentate voci false, escogitati complicati accorgimenti che avevano, tra l’altro, tenuto la Repubblica di Genova col fiato sospeso. Una grande e accurata operazione di disinformazione dei francesi era stata affossata dalla doppiezza dell’agente mantovano. Mattioli, proseguiva l’avviso citato, «non saria maraviglia finisse sopra una forca, come in altre occasioni gli fu pronosticato» [82]. La sua punizione, è noto, fu meno banale: rapito dai francesi all’inizio di maggio, finì i suoi giorni recluso, diventando dopo morto uno dei candidati all’identificazione dell’enigmatico ‘uomo dalla maschera di ferro’ [83].

Quando la sorte di Mattioli si compì, le galee di Vivonne stavano salpando per la crociera che allarmava i governanti genovesi. Ma era un allarme davvero fondato? Nei primi mesi dell’anno l’ambasciatore sabaudo a Parigi aveva fatto osservare al Salvago che se Louvois «havesse havuto la millesima parte dell’odio di Colbert contro i genovesi era già longo tempo che la Repubblica sarebbe distrutta» [84]. La relazione su Genova che Seignelay, un figlio di Colbert, aveva steso nel 1671 al ritorno dal suo viaggio in Italia, pur imprecisa nell’informazione e tributaria dei luoghi comuni correnti sul governo della Repubblica e su San Giorgio, attestava l’interesse della côterie Colbert per gli «Olandesi d’Italia» [85]. Un interesse ostile, noto ai genovesi e ricordato con preoccupazione da Francesco Maria Imperiale Lercari nella sua relazione ai Collegi. Pochi anni dopo, Seignelay diresse personalmente il bombardamento di Genova. Ma, appunto, diverso e prevalente si rivelò sul momento l’orientamento di Louvois, che guardava alle frontiere settentrionali e orientali del regno, e in Italia alle piazzeforti padane, piuttosto che ai grandi porti mediterranei come Genova e Messina. Dei contrasti fra le alternative politiche e strategiche dei principali ministri del Re Sole e degli schieramenti di corte e dei gruppi di interesse ad essi legati (‘cabala’ di Colbert, ovvero il mondo gravitante attorno alla marina; ‘cabala’ di Louvois, ovvero gli ambienti legati all’esercito) l’oligarchia genovese era semplice spettatrice e potenziale vittima [86]. Nella primavera del 1679 essa trovò, nella linea di minor resistenza, nella politica del rinvio delle scelte e dell’economia di sforzi la condotta forse non obbligata ma certo più congeniale, e nell’occasione anche più efficace. Ma sarebbe bastato questo a sostenere il confronto con il Re Sole? Nel giro di pochi anni gli eventi si incaricarono di mostrarlo.

* Questo saggio, il più antico fra quelli qui raccolti, venne scritto su invito di Claudio Costantini per gli Studi in onore di Francesco Cataluccio e fu pubblicato nella «Miscellanea Storica Ligure», XV/1 (1983), 31-47. Per rispettare i limiti di spazio non era corredato da note, tranne una, che alla fine del testo segnalava i riferimenti archivistici e bibliografici essenziali. In questa sede è stato perciò aggiunto l’intero apparato delle note. Il lavoro aveva preso le mosse dalla scoperta di quanto fossero abbondanti i documenti d’archivio su un non-evento come l’operazione di depistaggio, disinformazione o intossicazione, come si voglia definirla, attuata dai francesi nel quadro del primo tentativo di occupare la fortezza di Casale Monferrato. Gli anni ‘70 del Seicento, con il maturare del conflitto tra la Repubblica e la Francia, accompagnato dalle campagne di raccolta d’informazioni da parte degli agenti di Luigi XIV, sono forse il momento della storia genovese che meglio si presta a un’indagine del genere di quella che Paolo Preto ha dedicato allo spionaggio veneziano (I servizi segreti di Venezia, Milano, Il Saggiatore, 1994). Del resto, proprio questi anni fanno da sfondo alla singolare vicenda di Gian Paolo Marana (recentemente illuminata dai lavori di Gian Carlo Roscioni e Salvatore Rotta), che un sospetto di spionaggio condusse in carcere.

[1] Il ministro genovese a Vienna, Giulio Spinola. Cfr. ASGe, AS 2552, Spinola a doge e governatori, Vienna 1679 aprile 9. Giulio Spinola q. Giulio era nato attorno al 1622, ed era stato ascritto assieme al fratello cadetto Gian Domenico nel 1649. Fu ministro residente della Repubblica presso l’Imperatore dal maggio 1673 al gennaio 1691. La sua fu perciò una delle più lunghe ambasciate della storia diplomatica della Repubblica. Cfr. ASGe, AS 2835, doc. 36; Guelfi Camajani, Liber nobilitatis, 495; Vitale, Diplomatici e consoli, 120.

[2] Sulla pace di Nimega cfr.The Peace of Nijmegen.

[3] ASGe, AS 1592, 1679 aprile 26.

[4] Cfr. ASGe, AS 2382, relazione di Francesco Maria Imperiale Lercari ai Collegi, senza data, ma posteriore al 12 novembre 1678, data dell’ultimo dispaccio dell’inviato, e anteriore alla fine dell’anno; altra copia in AS 2717 . L’Imperiale Lercari era stato ministro residente della Repubblica presso il Pontefice dal marzo 1677 all’ottobre 1678. Cfr. Vitale, Diplomatici e consoli, 22-23. Sul personaggio cfr. anche “Il piccolo sempre succombe al grande”, più avanti in questo stesso volume.

[5] Cfr. ASGe, AS 1592, 1679 aprile 25; aprile 12.

[6] Cfr. ASGe, AS 1592, relazione degli Inquisitori di Stato ai Collegi, 1679 gennaio 13: «Vanno mendicando con domandare elemosina per la presente città, così di giorno, come di notte, molti giovinastri, buoni per altro a travagliare, li quali schivando d’impiegarsi, s’assuefanno all’otio; dal che si può temere, che facilmente declinino a commettere delitti, e specialmente de’ rubbamenti». In ASGe, AS 1047, fasc. 7, si legge un biglietto trovato nei calici del Minor Consiglio il 26 gennaio 1677 nel quale già si lamentavano «li continui latrocinij, che seguono alla giornata», nel quale l’anonimo, certamente un membro del Consiglietto, auspicava la nomina di un commissario straordinario di polizia per la città, che «vada di notte, e di giorno per le bettole».

[7] Cfr. Gatti, Problemi annonari a Genova nel 1678.

[8] Cfr. ASGe, AS 2382, Imperiale Lercari al doge e governatori.

[9] Cfr. ASGe, AS 2717. Nicolò De Mari era il secondogenito dei sei figli maschi di Stefano De Mari, doge di Genova nel 1663-1665. Battezzato il 6 giugno 1645 nella chiesa di San Siro, fu ascritto alla nobiltà il 7 marzo 1663. Nell’agosto 1678 venne inviato in Francia come inviato straordinario, in seguito agli incidenti tra la Repubblica e la squadra navale francese. Richiamato nel novembre, rientrò soltanto nel febbraio 1679. Cfr. Vitale, Diplomatici e consoli, 146. In patria lo attendeva una brillante carriera: tredici volte elettore dei Consigli tra il 1686 e il 1714, due volte nei Protettori di San Giorgio, due volte senatore, due volte candidato al dogato, al quale a differenza dei fratelli Domenico Maria e Gerolamo non riuscì tuttavia a pervenire. Apparteneva comunque ad una delle casate più influenti e più presenti sul proscenio della politica genovese nel Sei-Settecento. Le informazioni sulla carriera politica provengono dalla base di dati sui detentori delle principali cariche di governo della Repubblica dal 1686 al 1725 preparata da chi scrive per un lavoro in corso sulla politica della Repubblica attorno alla guerra di Successione spagnola.

[10] Cfr. ASGe, AS 1592, «ricordi di mese», 1679 gennaio 9. Tobia Negrone sosteneva l’urgenza di disporre di un ambasciatore a Roma; Giambattista Grimaldi riteneva «molto più» necessario che la Repubblica avesse «ministro qualificato» in Francia. Che era un voto di sfiducia nei confronti di Bernardo Salvago. Ibidem, ricordi di mese, 1679 marzo 7, Giambattista Pallavicini ribadiva che «il Ministero di Francia non è raccomandato quanto basta al Segretario Salvago, et haver neccessità di Gentilhuomo Residente». Nella stessa seduta Paolo Geronimo Franzone giudicava invece «del tutto inutile» inviare a Parigi un residente. Ibidem, «Capitolo di lettera del Sig.r Cardinale Spinola in data di Lucca sotto li 14 marzo 1679», dove il prelato esortava «che non si dilatasse a mandar Minsitro sagace in Parigi, che havesse, come si suol dire, autorità di spendere in gastos secretos; e che si inviasse persona grata, discreta, et atta a conciliarsi li animi in Roma».

[11] Cfr. Neri, Saggio della corrispondenza di Ferdinando Raggi.

[12] Cfr. ASGe, AS 1592, 1679 gennaio 10-13. Tobia Negrone si dichiarava «per l’affermativa e senza denari ma per li meriti, o meriti e denari»; Giambattista Grimaldi «per l’affermativa e con denari e senza quando vi siano li meriti»; Agostino Franzone «per l’affermativa quando vi siano persone con meriti, ma hoggi non sa che ve ne siano, e ne meno chi habbia denari»; Gian Francesco Spinola «quando vi sijno persone che diano denari vi concorrirà»; Marcantonio Lomellini «l’istesso, et haver inteso che vi siano sogetti che daranno denari et chi è molto esperto nel mestiere militare, che si offerisse di servire»; Paolo Geronimo Franzone «non approva che si ascriva per danari ma per meriti, et per questo ascriverebbe il Tasso, con derrogare alle leggi»; Gian Francesco Pallavicini «se vi sono persone meritevoli passare la posta, et ascrivere, ma quando non vi siano tali persone non passarla»; Giambattista Lomellini «passerebbe la posta e se vi saranno meritevoli si ascriveranno altrimente non si ascriverà, ne vede inconveniente in non ascrivere»; Nicolò Doria «passar la posta».

[13] Le votazioni in ASGe, AS 1592, 1679 gennaio 10-13. I favorevoli a passare la posta dell’ascrizione salirono da 71 a 103 nel corso delle votazioni: sempre insufficienti per battere la settantina di irriducibili oppositori.

[14] Cfr. ASGe, AS 1592, «ricordi di mese», 1679 febbraio 6.

[15] ASGe, AS 1592, «Aviso di corrispondente da Turino sotto li 8 febraro 1679».

[16] Cfr. ASGe, AS 1592, «Capitolo di lettera di Bruxelles dei 10 di febbraio». Lo scrivente vantava: «sono quasi due anni che l’ho scritto al Sig. Abbate Durazzi, che tardi, o presto la Francia rompirebbe con Genova».

[17] Cfr. ASGe, AS 1592, il cardinale Raggi a Luca Maria Invrea, Roma 1679 febbraio 11.

[18] Cfr. ASGe, AS 1592, avvisi di varie date.

[19] ASGe, AS 2918, Bernardo Salvago a Doge e Collegi, Parigi 1679 febbraio 13. «Di che», precisava Salvago, «hebbi qualche sentore sin dal mese d’agosto prossimo passato».

[20] Cfr. ASGe, AS 1592, Gian Nicolò Spinola a Doge e Collegi, Milano 1679 febbraio 22; marzo 8; marzo 19.

[21] Cfr. ASGe, AS 1592, lettera di anonimo, s. l., 1679 marzo 4.

[22] Cfr. ASGe, AS, 1592, lettera anonima senza data, letta ai Collegi l’8 marzo.

[23] Cfr. ASGe, AS 1592, lettere di varie date.

[24] Cfr. ASGe, AS 1592, lettere di varie date.

[25] ASGe, AS 1592, relazione ai Collegi sugli avvisi pervenuti, letta il 17 marzo.

[26] ASGe, AS 1592, Carlo Spinola, governatore di Savona, a Doge e Collegi, Savona 1679 marzo 10.

[27] Cfr. ASGe, AS 1592, Carlo Spinola, governatore di Savona, a Doge e Collegi, Savona 1679 marzo 12.

[28] Cfr. ASGe, AS 1592, Sigismondo Raggi a Doge e Collegi, Roma 1679 aprile 1. Raggi riferiva l’udienza avuta da Innocenzo XI, secondo il quale «il rimedio più efficace era l’implorare il divino aiuto. Et havendo io soggiunto, che al certo era riparo, e rimedio accertato il ricorso all’assistenza di Dio (…), ma convenirsi ancora di pensare alli mezzi humani; ripigliò subito Sua Santità, che questi erano molto deboli».

[29] ASGe, AS 1592, i Collegi agli Inquisitori di Stato, Genova 1679 marzo 14. I Collegi chiesero anche agli Inquisitori di accertare chi fossero i magnifici che davano il cattivo esempio: il solo nome fatto fu quello di Quilico Di Negro. Ibidem, stessa data: proposta dei Collegi di invitare i concittadini a ritirare i depositi in San Giorgio «con quella maggior quiete che merita la congiuntura de’ tempi».

[30] ASGe, AS 1579, «Capitolo di lettera di Torino de 7 marzo», letta ai Collegi il 14 seguente. La lettera riferisce un colloquio avuto dall’anonimo con il segretario dell’inviato francese Villars.

[31] Cfr. ASGe, AS 2198, Bernardo Salvago a Doge e Collegi, Parigi 1679 marzo 6; letta il 19 seguente.

[32] ASGe, AS 1592, lettera anonima da Torino, 1679 marzo 15, letta ai Collegi il 20 marzo.

[33] ASGe, AS 1592, Carlo Spinola a Doge e Collegi, Savona 1679 marzo 29, letta ai Collegi l’1 aprile.

[34] Cfr. ASGe, AS 1592, Giambattista Clavarino, capitano di Ovada, a Doge e Collegi, Ovada 1679 aprile 11.

[35] Cfr. ASGe, AS 2198, Bernardo Salvago a Doge e Collegi, Parigi 1679 marzo 17; letta il 5 aprile.

[36] ASGe, AS 1592, Gian Nicolò Spinola a Doge e Collegi, Milano 1679 aprile 17.

[37] Ibidem

[38] Cfr. ASGe, AS 1592. Notizia degli agenti genovesi in Francia: sulle corrispondenze dei consoli a Marsiglia cfr. Schiappacasse, I consoli genovesi a Marsiglia nel secolo XVII; Papagna, Le relazioni tra Genova e Marsiglia nei secoli XVII e XVIII.

[39] ASGe, AS 1592, il cardinale Raggi a Doge e Collegi, Roma 1679 aprile 29.

[40] Ibidem.

[41] ASGe, AS 1592.

[42] ASGe, AS 1592, il cardinale Spinola a corrispondente non nominato, Lucca 1679 marzo 24.

[43] ASGe, AS 1592.

[44] ASGe, AS 1592.

[45] ASGe, AS 1592.

[46] Sul Della Torre cfr. Cacciabue, Per la biografia di Raffaele Della Torre.

[47] ASGe, AS 1592, lettera anonima letta dai Collegi il 18 marzo 1679. L’autore esortava il governo a stringere senz’altro lega con la Spagna.

[48] ASGe, AS 1592, don Pietro Francesco Vanderlynden a Doge e Collegi, Ravenna 1679 aprile 12.

[49] ASGe, AS 1592, Giuseppe Giovando, «bandito dalla Camera Ecc.ma di testa», scrive al cognato proponendo un abboccamento con gli Inquisitori di Stato in cambio di un salvacondotto, Savigliano 1679 aprile 10. La richiesta venne lasciata cadere.

[50] Sulle «lettere orbe» e il loro significato come fonte cfr. Grendi, Lettere orbe.

[51] Bernardo Salvago fu agente della Repubblica presso il re di Francia; Gian Benedetto Pichenotti fu residente a Madrid dal 1676 al 1681. Cfr. Vitale, Diplomatici e consoli, all’indice.

[52] ASGe, AS 1592, «Capitolo di lettera da Torino de 28 febbraro».

[53] Cfr. ASGe, AS 1592, il cardinale Raggi a Luca Maria Invrea, 1679 aprile 8. Il cardinale ripostava il giudizio del cardinale Cybo sullo «stile» di Pomponne.

[54] Cfr. ASGe, AS 1592, il capitano di Polcevera agli Inquisitori di Stato, 1679 marzo 9 e 10. Le due lettere contengono le informazioni portate da Francesco Cepolina di Pontedecimo, Giovanni Rivera e Francesco Barixione.

[55] Tutte le citazioni sono tratte da lettere conservate in ASGe, AS 1592.

[56] Cfr. ASGe, AS 1592, «Capitolo di lettera scritta d’Alessandria de 23 marzo dal S.r Enrico Petinari», letta ai Collegi il 28 marzo.

[57] Cfr. ASGe, AS 1592, lettera senza firma né data letta dai Collegi il 10 marzo 1679. Paolo Spinola Doria era nipote del marchese Ambrogio Spinola. Vedere notizie sui due in Istruzioni, e Enciclopedía Española Ilustrada.

[58] ASGe, AS 2198, Bernardo Salvago a Doge e Collegi, Parigi 1679 marzo 6.

[59] ASGe, AS 1592, Genova 1679 marzo 9, deliberazione dei Collegi perché gli Inquisitori di Stato «restino incaricati…a praticare tutte le diligenze possibili per intendere quali avvisi abbia avuto il console Compans», nonché per corrompere il console.

[60] Cfr. ASGe, AS 1592, Genova 1679 marzo 9: la Camera viene invitata a pagare 120 lire di moneta corrente all’Eccellentissimo Cesare Gentile «per doversi da Sua Eccellenza corrispondere alla persona a lei nota».

[61] Cfr. ASGe, AS 2552, Giulio Spinola a Doge e Collegi, Vienna 679 febbraio 19; letta il 10 marzo.

[62] ASGe, AS 1592.

[63] Cfr. ASGe, AS 1592, varie lettere del Salvago.

[64] Cfr. ASGe, AS 1592, «ricordi di mese», 1679 marzo 7.

[65] Cfr. ASGe, AS 1592, Giuseppe Pallavicini, commissario della fortezza di Savona, al doge e Collegi, Savona 1679 marzo 8.

[66] Cfr. ASGe, Magistrato di guerra 361.

[67] Cfr. ASGe, Magistrato di guerra 361.

[68] ASGe, Magistrato di guerra 361, «Relatione a’ Ser.mi Collegi» del Magistrato dell’artiglieria, 1679 aprile 5; letta il 19 aprile.

[69] Cfr. ASGe, AS 1592, Carlo Spinola, governatore di Savona, a Doge e Collegi, Savona 1679 aprile 11.

[70] Cfr. ASGe, AS 2552, Giulio Spinola a Doge e Collegi, Vienna 1679 aprile 15; letta il 5 maggio.

[71] Cfr. ASGe, AS 2552, Giulio Spinola a Doge e Collegi, Vienna 1679 aprile 9; letta il 28 aprile.

[72] Ibidem. Come spiegava Spinola, «le fortificazioni di qui in Ungaria, e per l’Imperio, sono palanche, terra, e fossi d’acqua; onde non sono persone, ne anche a proposito per le nostre montagne, sassi, e dirupi. E quel tale giovine Martini Genovese, che tre anni sono, quando si prese Filisburg, venne qui, et io a preghiere del S.r Stefano Centurione lo raccomandai al Principe di Baden Generale dell’Artiglieria, e non era solo fra noi un figlio d’un muratore capo d’opera, e sì come un poco prattico nelle cose del molo in acqua, fece nel Reno qualche operazioni di machine, questo dico, fu stimato in gran huomo».

[73] Cfr., rispettivamente, ASGe, AS 1592, Gian Nicolò Spinola a Doge e Collegi, Milano 1679 maggio 15; ASGe, AS 2458, Gian Benedetto Pichenotti a Doge e Collegi, Madrid 1679 settembre 14 (letta il 5 ottobre). Pichenotti riferiva i giudizi di don Vincenzo Gonzaga, del Consiglio di Stato del re di Spagna: «disse che il Barca era un agiutante di ingeniere, più presto agrimensore che Ingeniere, che non si fidassimo di lui come si fidammo di quel tonto di Berreta, epiteto da Sua Eccellenza datoli, che nell’uno [sic], ne l’altro sanno qual sia la loro man dritta, che li conosce perché li ha creati».

[74] Cfr. ASGe, Senato, Litterarum 872, Carlo Spinola, governatore di Savona, a Doge e Collegi, 1679 marzo 14; letta il 21. La minuta della risposta sul retro della lettera; altra richiesta ibidem, 1679 aprile 6.

[75] Cfr. ASGe, AS 1592, 1679 marzo 13: i Collegi esortano i Supremi Sindicatori ad occuparsi con rapidità della causa di Monsù Forno, della quale Pomponne aveva parlato all’inviato genovese Nicolò De Mari nel dicmebre 1678.

[76] Cfr. ASGe, AS 1592, consulta del Consiglietto, 1679 marzo 23.

[77] Cfr. ASGe, AS 2552, Giulio Spinola a Doge e Collegi, Vienna 1679 febbraio 26; letta il 17 marzo.

[78] Cfr. ASCGe, Mss 58, «Miscellanea di memorie genovesi», cc. 150-163v: «Delle forze di Genova». L’autore del testo è stato identificato nel francese Dancourt da Roscioni, “Sulle tracce dell’“Esploratore turco”.

[79] Cfr. Rousset, Histoire de Louvois, III, 104.

[80] Cfr. De Maria, Le trattative diplomatiche per l’acquisto di Casale nel 1681.

[81] Cfr. ASGe, AS 1592, avviso del 1679 agosto 15.

[82] Ibidem.

[83] Sulla ‘maschera di ferro’ cfr. Duvivier, La maschera di ferro; Mongredien, La masque de fer. Secondo l’opinione oggi prevalente, sostenuta anche dai due autori appena citati, il misterioso personaggio era invece Eustache Dauger.

[84] ASGe, AS 2198, Bernardo Salvago a Doge e Collegi, Parigi 1679 febbraio 22; letta l’8 marzo.

[85] Cfr. Colbert de Seignelay, L’Italie en 1671.

[86] Sulle rivalità, ma anche le solidarietà, tra i principali ministri di Luigi XIV cfr. Meyer, Colbert; Un nouveau Colbert; Corvisier, Louvois; Mettam, Power and Faction in Louis XIV’s France; riprendo la nozione di cabala da Le Roy Ladurie, Système de la Cour.

Carlo Bitossi

Sono nato (1951) e ho studiato a Genova. Laureato in Filosofia (1976), ho lavorato sedici anni nell’Archivio di Stato di Genova. Dal 2000 ho insegnato nell’Università di Ferrara, come professore dapprima associato e poi ordinario di Storia moderna. Sono in pensione dall’ottobre 2021. Imitando i colleghi anglosassoni che forniscono nei profili anche informazioni private aggiungo che amo i gatti e sono un sostenitore irriducibile del Genoa CFC.