“IL PICCOLO SEMPRE SUCCOMBE AL GRANDE”

“IL PICCOLO SEMPRE SUCCOMBE AL GRANDE”

La Repubblica di Genova tra Francia e Spagna (1684-1685) *

  1. Tra il 1672 e il 1684 un anonimo lettore dei Ricordi di Andrea Spinola (classico politico indigeno del patriziato genovese, a giudicare dal numero di copie manoscritte che ne sono rimaste) così commentò l’ormai invecchiato ammonimento a guardarsi dagli spagnoli: “hoggidì conviene guardarsi bene da giochi che ci possono fare li Francesi, perché essi solo sono li giocatori” [1]. Forse (ma non importa molto stabilirlo) l’autore della chiosa era Gian Andrea Spinola, un personaggio che ritroveremo spesso nelle pagine seguenti: oligarca di spicco, negli anni ‘80 a lungo ambasciatore genovese a Madrid, letterato [2]. Quella chiosa costituiva in ogni caso un aggiornamento d’obbligo; dopo l’intervento mediatore di Luigi XIV per comporre la guerra tra la Repubblica e il duca di Savoia, il sabotaggio francese del tentato ritorno genovese nell’Impero Ottomano [3], l’attrito tra la Repubblica e il Re Sole per il sostegno dato dai genovesi al re di Spagna nella repressione della rivolta di Messina [4], i magnifici erano in rotta di collisione con Luigi XIV[5]. Alla fine degli anni ‘70 vennero le crociere intimidatorie della squadra francese del Mediterraneo: che nel 1679 coprirono il tentativo di Luigi XIV di occupare Casale, ma l’anno precedente si erano concluse con il cannoneggiamento di Sanremo e Sampierdarena. Il susseguirsi di questi episodi, ai quali si aggiunsero infine il sostegno alle rivendicazione del conte Fieschi e le richieste del deposito di sale a Savona e del disarmo di parte della squadra genovese, convinse già i contemporanei (genovesi, almeno) a vedere ne “l’horrido eccidio delle bombe” l’esito quasi annunciato dell’ostinata volontà aggressiva di Luigi XIV. Giudizio tanto esatto sul piano fattuale, quanto semplificatore: perché quell’esito era pur sempre il risultato di decisioni politiche prese non soltanto a Versailles, ma anche a Genova [6]. In effetti, i magnifici dovevano destreggiarsi tra la Spagna, sempre pronta a influenzare le scelte della Repubblica colpendo gli investimenti genovesi (come fece nel 1679 il governatore di Milano conte di Melgar), ma non più in grado di assicurare in cambio uno scudo militare impenetrabile; e la Francia, decisa a subentrarle nell’esercizio di un informale protettorato sulla Repubblica. L’ostilità di Colbert verso gli “olandesi d’Italia” era perfettamente nota agli interessati, i quali contavano sulle divergenze di orientamento tra i ministri del Re Sole: nel settembre 1683 salutarono con gioia la morte di Colbert, sperando nel ritorno in auge di Pomponne, “huomo di tratto più dolce”, e nel prevalere di Louvois, “gran galant’huomo” [7].

Ma se dopo il 1672 Genova soddisfece per quanto possibile le richieste e tollerò le ostilità francesi, non ruppe per questo i legami con la Spagna: sia perché il soccorso spagnolo era vitale per la Repubblica in caso di pericolo, sia (e soprattutto) perché una stretta intesa con il Cattolico restava l’obiettivo esplicito di un settore dell’oligarchia cittadina. Né i governanti spagnoli, a Madrid e nei domini d’Italia, intendevano lasciar cadere Genova nell’orbita francese senza muovere un dito. “Si discorre di noi frequentemente nel Consiglio di Stato”, riferiva ai Collegi l’ambasciatore a Madrid Gian Andrea Spinola verso la fine del 1682, “et apprendendo vivamente nei nostri pregiudicij i loro pericoli fanno aperta professione di che si debba a tutto conto sostenere la repubblica”. Il duca d’Alba ammetteva: “converrà che’l facciamo per proprio bene” [8]. E nel 1684, nel momento dell’effettivo bisogno, l’aiuto militare spagnolo (magari non immune da pensieri nascosti) giunse, comandato da un antipatizzante della Repubblica come Melgar.

Lo spazio di manovra dei magnifici, però, si restringeva a misura che la presenza militare francese nel Mediterraneo, promossa da Colbert e dispiegata con un certo successo nel corso della guerra di Messina, si rafforzava. I governanti genovesi si chiedevano se l’iniziativa navale francese avesse un fine tattico o strategico. Nella seconda ipotesi, come controbatterla? La risposta più paradossale consisteva nel rinunciare all’indipendenza: una soluzione estrema ventilata dalla pubblicistica genovese già negli anni ‘20 del Seicento, sia pure nella prospettiva della dedizione al pontefice; ora l’accettazione del dominio spagnolo avrebbe sigillato un legame di interesse antico in via di logoramento, concedendo alla Spagna in ritirata di Carlo II quello che era stato negato alla Spagna vittoriosa di Carlo V. Negli anni della guerra di Messina, secondo un osservatore coevo, una parte dell’oligarchia genovese meditò di alzare sulla città lo stendardo del re Cattolico [9]. Fondata o meno che fosse questa sorprendente notizia (di fonte, come vedremo, francese), di certo fra i magnifici esisteva una forte corrente di filospagnoli, assai attiva nelle vicende che precedettero e seguirono il bombardamento.

  1. Quale immagine abbiamo della politica genovese a cavallo degli anni ‘70 e ‘80? Anzitutto quella offerta da alcune relazioni stese in quell’arco di tempo ad uso dei ministri del Re Sole. Di una, databile al 1679, contenente la notizia della progettata dedizione di Genova agli spagnoli, fu autore l’agente francese Dancourt (del quale è attestata la presenza a Genova almeno a due riprese, nel 1679 e nel 1680), aiutato da informatori genovesi, fra i quali probabilmente Gian Paolo Marana [10]. Questi, una volta esule in Francia, contribuì indirettamente alla stesura anche della assai più nota e diffusa relazione, risalente al 1682, che va sotto il nome dell’ambasciatore francese a Genova François Pidou de Saint-Olon [11]. Tanto la relazione del 1679, quanto quella detta di Saint-Olon, descrivevano la politica genovese ricorrendo alla tradizionale tripartizione in nobili, “borghesi” (l’ordine non ascritto, nel vocabolario politico cittadino: il popolo grasso dei commerci, delle arti e delle professioni) e plebe. La relazione del 1679 sottolineava l’ostilità verso i nobili sia della plebe, sia dell’ordine non ascritto; quella successiva enfatizzava invece l’insoddisfazione dei soli non ascritti. Scrivendo al termine di un biennio di fame, Dancourt registrava forse una congiuntura di scontento plebeo [12]; mentre la vicenda personale di Marana, intellettuale le cui origini e i cui legami stavano nel mondo delle arti e delle professioni, incombeva sulle valutazioni di Saint-Olon. Della nobiltà, piuttosto convenzionalmente, i due testi segnalavano concordi la divisione in una fazione favorevole a “casa d’Austria”, forte tra i nobili ‘vecchi’ e i titolari di feudi imperiali (connotati spesso coincidenti), e una fazione, composta soprattutto di nobili ‘nuovi’, tiepida nei confronti degli spagnoli. Tuttavia, la correlazione tra filospagnolismo e appartenenza alla nobiltà ‘vecchia’ non era mai stata totale, e tanto meno lo era in quegli anni. Neanche all’interno dello stesso nucleo familiare esisteva, né forse era mai esistita, unanimità di vedute [13]. Nel Consiglietto, lo attestano i verbali delle consulte, si manifestava una varietà di opinioni spesso classificabili solo per approssimazione come filofrancesi e filospagnole. Gli schieramenti che si formavano a proposito di problemi specifici, per esempio lo smantellamento del “convoio”, cioè dell’armamento pubblico, più volte all’ordine del giorno in quegli anni, non coincidevano necessariamente con quelli che si determinavano attorno alle grandi scelte di politica internazionale [14]. Per quanto restino utili punti di partenza per la ricerca, le dicotomie di ‘Vecchi’ e ‘Nuovi’, filofrancesi e filospagnoli, navalisti e assentisti danno un’immagine fuorviante, per eccesso di semplificazione, della politica genovese. La sola analogia adeguata alla sociologia politica del patriziato genovese pare quella con la chimica organica o la biologia molecolare suggerita, a proposito di un’altra, e sia pure ben diversa, società di antico regime, da E. Le Roy Ladurie: l’individuazione delle ‘cabale’, e delle diverse valenze dei rapporti intercorrenti tra gli individui e le consorterie in ordine ai problemi di volta in volta in discussione, è forse l’approccio più proficuo per la comprensione della storia politica della Repubblica [15].
  2. Qualche conferma delle osservazioni precedenti viene dall’esame del dibattito politico genovese. Un secolo di storia della Repubblica è infatti leggibile attraverso quella ricca e acuta pubblicistica nella quale, dalla metà del ‘500 alla metà del ‘600, l’intellettualità politica cittadina riversò i frutti di un assiduo esercizio di auto-osservazione [16]. Negli anni ‘60-’70 questa vena era però quasi esaurita; fra gli ultimi preziosi, alcune chiose alle pagine di Andrea Spinola e al Giornale del doge Alessandro Giustiniani: riflessioni, cioè, su scritti vecchi di quaranta-cinquant’anni almeno e prodotti in un contesto nel frattempo mutato: se, ad esempio, una delle preoccupazioni principali dello Spinola e del Giustiniani era stata il rapporto con la Spagna, ora il problema all’ordine del giorno era il raggiungimento di un modus vivendi con la Francia[17]. All’inizio degli anni ‘70 risale l’ultimo frutto della riflessione politica genovese: la Panacea politica terminata nel 1674 da un patrizio (forse Nicolò Imperiale) nascosto sotto lo pseudonimo di Cassadro Liberti [18]. Nel titolo, come è stato osservato, par di cogliere una replica a Le politiche malattie della Repubblica di Genova e loro medicine, il pamphlet pubblicato nel 1655 da Gaspare Squarciafico, sotto lo pseudonimo di Marco Cesare Salbriggio, e ristampato a Torino (ma con la falsa indicazione di Amberga) nel 1676 [19]. Cassandro Liberti mirava soprattutto a ricostruire il fallito tentativo di riconversione al commercio marittimo patrocinato da alcuni settori del patriziato tra la fine degli anni ‘30 e gli anni ‘50; il suo scritto cadeva a ridosso di un altro fallimento: quello del tentato ritorno genovese nel Levante. Quanto ai problemi interni di Genova, lo scrittore individuava un focolaio di opposizione al governo nell’ordine “non ascritto”, mentre riconosceva la fedeltà del popolo minuto. Tra le ragioni del malcontento del secondo ordine, Liberti ricordava il problema delle ascrizioni e la diffusa convinzione che “la legge di gennaio de nobilibus sia stata fraudolentente alterata e che la parola possint sia stata rimessa in cambio di debeant”: cioè che le leggi del 1528 avessero inizialmente previsto l’obbligo di ascrivere annualmente alla nobiltà dieci individui, e che la trasformazione dell’obbligo in semplice possibilità, a discrezione del Consiglietto, fosse stata un sopruso dei nobili. Le conclusioni del Liberti sull’orientamento dei popolari, grassi e minuti, anticipavano quelle espresse nella relazione detta di Saint-Olon, e forse prendevano atto di uno stato di cose. Al tempo stesso, il riferimento alla credenza diffusa tra i non ascritti nella surrettizia modifica di un’originaria lettera costituzionale riproponeva un argomento polemico presente già in un dialogo anonimo del 1621/23, e molto verosimilmente originato dal rancore per il quasi quarantennale blocco di fatto delle ascrizioni alla nobiltà seguito all’infornata del 1576 [20]. Quanto al testo dello Squarciafico, la riproposta del contrasto tra filospagnoli e filofrancesi, era nel 1676 quanto mai attuale; anche se risultavano profondamente cambiati il contesto internazionale e il rapporto di forza tra le due grandi potenze. Piuttosto, Squarciafico,  pur leggendo la politica genovese in termini di polarità (‘Vecchi’ e ‘Nuovi’, filospagnoli e filofrancesi, anziani e giovani), rinveniva poi al di sotto di esse proprio quel gioco di cabale e di schieramenti informali e oscillanti che costituiva la quotidianità effettuale della politica oligarchica. A conferma, si scorra il carteggio intercorso negli anni 1681-1685 tra Giambattista Spinola (fratello del già nominato Gian Andrea Spinola) e l’amico Paolo De Marini, allora ambasciatore della Repubblica presso Luigi XIV [21]. Le contrapposizioni tra gli oligarchi, e le manovre per ottenere o per meglio sfruttare le cariche di governo appaiono dipendenti da complesse interrelazioni tra individui e gruppi mal riducibili a polarizzazioni nette.
  3. Seppure breve e fortunata, la guerra del 1672 contro il duca di Savoia aveva costretto la Repubblica a spendere per levare truppe e riassettare fortificazioni, e di conseguenza ad imporre una tassa della quale dieci anni dopo restavano da riscuotere i residui. Le annuali crociere intimidatorie della squadra navale francese resero poi inevitabile il prolungamento dell’emergenza militare e del conseguente trasferimento di risorse finanziarie alla difesa. La relazione del 1679 era singolarmente scettica sull’opulenza di Genova e dei suoi reggitori, sulla base di un’argomentazione antica – l’aleatorietà degli investimenti genovesi collocati all’estero, e specialmente nei domini spagnoli – abbondantente sviluppata circa mezzo secolo prima da Andrea Spinola nei suoi scritti, e da sempre cavallo di battaglia dei critici dell’inserimento di Genova nell’orbita spagnola. Secondo Dancourt, nelle casse di San Giorgio esisteva addirittura un ammanco, conseguenza di vecchi errori contabili. Come spiegare una affermazione tanto sensazionale, se vera? Un fraintendimento? Un’indicazione deliberatamente falsa degli informatori genovesi di Dancourt? Un tentativo dell’agente di guadagnare credito presso il suo sovrano con l’eccezionalità delle informazioni? Certo è che in quegli anni di tensione i problemi finanziari campeggiavano ancor più del solito al centro dei dibattiti del Consiglietto. Nel 1679, nell’attesa preoccupata e infine vana di un attacco francese, le angustie della Camera avevano sbrigliato l’immaginazione dei magnifici, tra proposte di fondere le argenterie e suggerimenti di infeudare terre in Corsica, tra la rassegnata accettazione di una nuova tassa e la tentazione di ascrivere alla nobiltà chi versasse somme significative nelle casse pubbliche: che era un modo di ripetere l’infornata di ascrizioni straordinarie del 1673 (successiva non a caso alla guerra con il duca di Savoia), quando erano state nobilitate dieci famiglie. I patrizi più favorevoli a vendere la nobiltà erano quelli più timorosi dell’aggressione francese, ed anche più disposti a rompere la neutralità per allearsi con la Spagna [22]. Nel 1679 non venne preso alcun provvedimento. Ma nel 1680 furono ascritti per denaro gli Orero, i Recagno e i Pinceti; due anni più tardi fu la volta di due famiglie di Taggia, i Lombardi e i Pastorelli [23]. Nel 1681 venne deliberata una nuova tassa dell’1% sui patrimoni, la cui riscossione, al solito, richiese più anni e minacce di sanzioni ai morosi [24]. Nel 1682 i problemi finanziari restavano perciò all’ordine del giorno del Consiglietto. In marzo Gherardo Spinola additava nuovamente le ascrizioni straordinarie come “la forma più propria di trovare denari”. A luglio Gian Maria Spinola incitava a “fare ogni giorno Consiglietto fino a che si provveda alla camera il dovuto introito e si aggiustino li conti”. Il bisogno stimolava inedite animosità. In gennaio Cristoforo Centurione aveva proposto di “ampliare la tassa anche ai franchi, mentre il bisogno cui si aplica è la difesa della libertà, e conseguentente de medesimi privilegi de franchi, onde vi doverebbero concorrere ancora gli ecclesiastici, e non concorrendovi ultroneamente privarli delle franchigie che godono per mera generosità del Principe, o almeno farlo per metà”. A maggio Antonio Grimaldi sosteneva a sua volta che “li beni che passano agli ecclesiastici passano con li carichi che hanno”. Testimonianze del risentimento che suscitava l’estendersi della proprietà ecclesiastica, questi suggerimenti rimasero tuttavia vani [25]. Il fabbisogno finanziario della Repubblica continuò ad essere affrontato con interventi precari e improvvisati. E questo contribuiva ad ancorare Genova ad una cauta e preoccupata neutralità che era, se non altro, fonte di risparmio. Nel 1679 agli avversari del riarmo bastò ricordare quanto questo sarebbe costato, per convincere una consistente e decisiva minoranza dei Consigli a rifiutare gli stanziamenti per leve e fortificazioni.
  4. La capitazione del 1681-82 offre un’immagine certamente parziale e da valutare con cautela, ma nondimeno importante, della situazione del patriziato cittadino. La cautela è imposta dalla natura stessa della fonte fiscale; la parzialità risulta dall’esame della lista dei contribuenti, che non è completa: 179 sono i cognomi elencati, ma solo per 160 esistono in tutto o in parte le cifre degli imponibili. I nuclei fiscali censiti sono 1053, quelli tassati 801: e si tratta sia di individui, sia di eredità indivise riferibili a più persone, anche di cognomi diversi. La mancata registrazione dell’imponibile di alcuni personaggi ricchi e influenti nella politica cittadina (per esempio, Pietro Durazzo) tara ulteriormente il valore della fonte in questione. In ogni caso: risultano tassati 30 cognomi ‘vecchi’ per un totale di 422 nuclei fiscali, e 130 cognomi ‘nuovi’ per un totale di 379 nuclei fiscali; i ‘Vecchi’ sommano il 52,6% dei nuclei fiscali e il 66,4% dell’imponibile complessivo. ‘Vecchi’ sono la maggior parte dei detentori di imponibili milionari; ma tra i ‘nuovi’ spicca l’opulenza di alcuni appartenenti alle famiglie Balbi, Brignole, Durazzo, Raggio, Franzone, Sauli e De Franchi. Si conferma l’impressione, ricavabile dalla pubblicistica della prima metà del secolo: appunto Balbi, Durazzo, Brignole, le prime due strettamente e ripetutamente imparentate, e legate ad altre casate ‘nuove’ come gli Invrea e i Saluzzo. Tra i ‘Vecchi’ si registrano due imponibili milionari tra i De Mari, uno tra i Doria, i Grimaldi, gli Imperiale, due tra i Lomellini e i Negrone, tre tra i Pallavicini, uno tra i Serra, cinque tra gli Spinola [26]. ‘Vecchi’ erano senz’altro la maggioranza dei detentori di feudi imperiali, ed anche i personaggi più legati alla corte spagnola, come Domenico Grillo, che proprio in quegli anni fu elevato a grande di Spagna [27], e i tradizionali asientistas delle famiglie Spinola, De Mari, Doria, Grimaldi, etc. L’immagine, riproposta da Dancourt alla fine degli anni ‘70, di un partito di feudatari e assentisti filoasburgici ‘vecchi’ aveva certo un solido riscontro nella realtà; e più o meno gli stessi termini vennero adoperati da un testimone degli avvenimenti genovesi degli anni precedenti il bombardamento (come vedremo più avanti). Ma questo non toglie che anche le casate meno compromesse in senso filospagnolo (Durazzo e Balbi, per anticipare due esempi) avessero consistenti interessi nei domini del re Cattolico.

Una relazione inviata da Saint-Olon al Re Sole alla fine del 1682 riferiva che il Maggior Consiglio della Repubblica contava circa 520 membri [28]. Nel testo della più nota relazione attribuita all’ambasciatore francese la valutazione della nobiltà ammessa al Maggior Consiglio è invece di 700 persone [29]. La differenza di computo potrebbe dipendere dall’essere inclusi nel secondo caso tutti i nobili maggiorenti, e nel primo solo quelli ballottati per il Maggior Consiglio. Nel 1671 era stato infatti reintrodotto un filtro per l’ammissione in questo consesso, dopo l’apertura a tutti i nobili adulti imposta al governo nel 1657 dai vuoti aperti dalla peste su un gruppo sociale già in ripiegamento demografico [30]. Non molto diverso era il numero di nobili passati sotto l’approvazione dei Trenta Elettori per l’ingresso nel Consiglietto, in quegli anni [31].

Comunque calcolato, il corpo della nobiltà era numericamente rattrappito. Dai calcoli condotti sul movimento delle ascrizioni alla nobiltà, il ventennio 1666-1685 appare una fase di stagnazione demografica, cui avrebbe fatto seguito, tra fine secolo e inizio secolo, una modesta ripresa, in attesa del tracollo della prima metà del ‘700. Il livello del ricambio era per giunta sostenuto (come del resto sarebbe accaduto anche per la ripresa degli anni ‘90) dalle già menzionate infornate di ascrizioni straordinarie.

Intatti restavano i meccanismi informali di distribuzione dei posti di governo. Continuava a vigere la tacita bipartizione delle funzioni principali tra nobiltà ‘vecchia’ e nobiltà ‘nuova’: il doge era tratto alternativamente dall’una e dall’altra parte; i Trenta elettori dei Consigli erano sempre metà ‘Vecchi’ e metà ‘Nuovi’, e un po’ meno rigorosamente, perché il numero poteva essere dispari, la bipartizione veniva applicata agli imbussolamenti nell’urna del Seminario; anche il governatorato di Corsica era assegnato con lo stesso criterio [32]. Rappresentanza equilibrata le due fazioni finivano per avere anche nei Collegi, per il semplice meccanismo dell’estrazione a sorte: nei quinquenni 1676-1680 e 1681-1685 vennero estratti a far parte dei Collegi, rispettivamente 32 ‘Vecchi’ e 28 ‘Nuovi’, e 25 ‘Vecchi’ e 29 ‘Nuovi’; e restringendo l’attenzione al solo Senato, nel primo quinquennio vi entrarono 19 ‘Vecchi’ e 16 ‘Nuovi’, e nel secondo 15 ‘Vecchi’ e 18 ‘Nuovi’ [33].

  1. Come nel 1625, nel 1627 venne istituita una Giunta dotata di suprema autorità, per assicurare la necessaria rapidità di decisioni in una situazione della massima ergenza [34]. Negli anni seguenti l’idea di conferire poteri ampi ad un corpo ristretto venne accarezzata in più occasioni; e nel gennaio 1682 fu nuovamente costituita una Giunta per un anno. Alla scadenza del mandato, Gian Francesco Spinola, un vecchio oligarca filospagnolo, ne invocò la riconferma: gli sembrava il solo mezzo per assicurare una difesa efficace [35]. La Giunta venne prorogata. Poco più tardi, un personaggio di convincimenti diversi, se non proprio opposti a quelli di Gian Francesco Spinola, Giambattista Spinola, lamentò che l’azione della Giunta, a suo parere investita di poteri non abbastanza ampi, fosse frenata dalle discussioni nel Consiglietto: “nel numero grande si perde gran tempo”. Personaggi altrimenti discordi concordavano nel desiderare l’esautoramento delle assemblee. Controcorrente, nel dicembre 1682 Gian Francesco Pallavicini, osservando

quanto pochi voti siano concorsi nell’approvatione delle poste per l’esazione della tassa […] e per la somma necessaria alla terminazione delle fortificazioni della presente città”, giustificò invece gli oppositori e gli astensionisti: a molti “poteva parrere per avventura strano […] che dipenda da otto o diece il restare ogni cosa a suo modo, anche in quelle che riguardano, e toccano la generalità.

Chiedeva perciò consultazioni e votazioni più frequenti nei Consigli: limiti, insomma, al potere dei Collegi, come ad ogni generazione invocavano i critici del governo. In realtà, non tutti quelli che avevano respinto le richieste dei Collegi erano stati mossi dalle ragioni di principio del Pallavicini. Uno di questi, Cristoforo Centurione, sosteneva anzi: “se si pretende che li pochi siano obbligati a fare a modo delli più si pretende di sconvolgere le constitutioni della Repubblica Serenissima, le quali vogliono che quando li pochi ciò è li Collegi Serenissimi non stimano una cosa salutare al publico non siano obligati a proponerla” [36]. Centurione accettava, anzi teorizzava, la supremazia dei Collegi sui Consigli, rifiutando soltanto l’espediente tattico dei Collegi di diluire le richieste di stanziamenti in più sedute del Consiglietto per smorzare le opposizioni al provvedimento. Con spirito non diverso il già citato glossatore anonimo degli scritti di Andrea Spinola confessava, in quel torno d’anni, di non opporsi mai alle nomine proposte dai Collegi “perché mi persuado”, scriveva, “che chi vuol essere nominato non manca mai di un berrettone amico” [37]. Gian Francesco Pallavicini dava in qualche modo voce ad una dissidenza ‘consiliare’ tanto tenacente vitale, quanto invariabilmente minoritaria.

Nell’imminenza dell’attacco francese fu comunque deciso, il 3 maggio 1684, di eleggere una nuova Giunta composta dal doge, da quattro membri dei Collegi e da altrettanti membri del Consiglietto: le operazioni di voto ebbero però luogo solo il 14 maggio. La somma dei poteri era ancora una volta concentrata in poche mani. Nel contempo il quorum richiesto per l’approvazione delle leggi venne abbassato dai quattro quinti ai due terzi dei consiglieri votanti, allo scopo di snellire il processo di formazione delle decisioni e di evitare che i veti incrociati delle opposte consorterie portassero ogni discussione del Consiglietto allo stallo [38].

A rafforzare complessivamente l’esecutivo contribuiva l’ampliamento dei poteri degli Inquisitori di Stato, prontamente segnalato da Saint-Olon nel dicembre 1682 e ricordato da tutti gli studiosi [39]. Quei provvedimenti si iscrivevano però in una linea di tendenza risalente e rispondevano ad un’esigenza di autodifesa dell’oligarchia non del tutto ingiustificata, a ricordare i vicini precedenti della congiura del Della Torre, e l’andirivieni di agenti francesi. E’ dubbio (e comunque da dimostrare) che rafforzassero di molto la rete di spionaggio in città, stando alla documentazione superstite degli Inquisitori di Stato già assai efficiente.

  1. Nel febbraio 1684, preceduto dalla fama di “huomo di machina e di raggiro”, giunse a Genova il nuovo ambasciatore spagnolo don Juan Carlos Bazán. Venne omaggiato da “molti poveri gentil’huomini […] per cavare da esso qualche sussidio, come le è riuscito”. Gli Inquisitori di Stato, incaricati dai Collegi di indagare su questa infrazione alle leggi, individuarono alcuni partecipanti alla questua. Erano personaggi oscuri: una conferma, se ce n’era bisogno, dell’inclinazione prevalente tra la nobiltà minore genovese, fosse ‘vecchia’ o ‘nuova’ [40]. Quello stesso anno solo due patrizi, Cristoforo Battista (“Agabitino”) Centurione ed Eugenio Durazzo, festeggiarono il carnevale assieme al residente francese Saint-Olon. Attorno all’inviato del Re Sole i magnifici avevano fatto il vuoto: perciò la scelta conviviale dei due patrizi era rivelatrice [41]. Senza inesattezza potevano essere definiti filofrancesi. Cristoforo Battista Centurione, per giunta, aveva un figlio in collegio a Torino, e manteneva corrispondenza con alcuni religiosi residenti negli stati sabaudi, ai quali inviava notizie correnti [42]. Quanto al Durazzo, cinque anni prima il fratello, Gian Luca, già ambasciatore della Repubblica presso Luigi XIV, era stato denunciato da alcuni anonimi come simpatizzante del Cristianissimo. Per filofrancese passava anche Ippolito Centurione, nipote di un doge, Giorgio Centurione, gravato a suo tempo dallo stesso sospetto: segno che tra le casate dell’oligarchia non esistevano solo le continuità di simpatie per casa d’Austria [43]. Ippolito Centurione, già al servizio di Luigi XIV e per un momento emulo dei tradizionali asientistas de galeras per il re Cattolico, i Doria di Tursi, ispirava a qualche collega particolare diffidenza. “Galee, darsina, e cose simili temo che se gli aggirino per la mente”, osservò nel giugno 1682 Gian Andrea Spinola. Il quale, nel dicembre dello stesso anno, giudicando “utile in occasione che si faranno i Consigli il tener questo soggetto, quanto più si può, lontano dal sapere le materie segrete del governo”, chiese al collega Paolo De Marini di sorvegliare i contatti parigini del Centurione [44]. Nel 1683 questi partecipò come volontario alla spedizione francese contro Algeri. Ma quando il re di Francia aprì le ostilità contro la Repubblica il Centurione, smentendo i dubbi nutriti sulla sua lealtà, si pose immediatamente agli ordini del governo. Il Re Sole non trovò dunque spade tra i magnifici, almeno non contro Genova. Reclutò invece qualche penna.

Informatori ufficiali del re di Francia (e, prima ancora, di Mazzarino) a Genova erano Giannettino Giustiniani e il figlio Gian Domenico: veri residenti senza titolo prima dell’arrivo di Saitn-Olon [45]. Ma anche altri inviavano alle gazzette straniere informazioni sulla Repubblica che trovavano regolarmente eco malevola a Parigi: forse Goffredo De Marini, sul quale i colleghi nutrirono seri sospetti [46]; certamente Carlo Spinola, figlio del conte di Tassarolo, informatore della Gazzetta di Leida, collaboratore, dopo un’ini­ziale freddezza, di Saint-Olon, e perciò imprigionato all’epoca del bombardamento [47]. In Francia si trovavano dei patrizi fuorusciti, come Sinibaldo Fieschi, protagonista disinvolto e discusso del ritorno genovese a Costantinopoli tra gli anni ‘60 e ‘70, e Giacomo Raggio, figlio dello Stefano Raggio incarcerato nel 1650 sotto l’accusa di cospirazione e suicida nella Torre [48]. A questa presenza nobiliare, piuttosto esigua e già priva dei personaggi più pericolosi, dei promotori delle cospirazioni contro il governo (Gian Paolo Balbi, spentosi ad Amsterdam nel 1675, e Raffaele Della Torre, assassinato a Venezia nel 1681) [49] si aggiungeva una pattuglia di esuli non ascritti, di “popolari”, come li chiamava, adoperando il tradizionale vocabolario fazioso cittadino, l’agente genovese a Madrid Gian Benedetto Pichenotti [50]. Tra questi, il già citato Gian Paolo Marana, consulente di Saint-Olon alla vigilia della partenza per Genova. Non a caso la relazione attribuita all’inviato francese sottovalutava la capacità dell’oligarchia di mantenere il consenso dell’ordine non ascritto attraverso l’ascrizione periodica dei suoi esponenti di maggior rilievo, o per la via ordinaria dei meriti o per quella straordinaria del denaro. In questo, d’altronde, la relazione riproponeva l’identificazione, consueta nella tradizione libellistica su Genova, dei non ascritti o popolari come antispagnoli e perciò come filofrancesi in pectore [51]. Ancor meno documentabili, e verosimilmente inesistenti, le inclinazioni filofrancesi tra il popolo minuto, sul quale infatti gli emissari del Re Sole facevano poco affidamento [52]. Il vero partito francese a Genova, in effetti, lungi dall’essere una quinta colonna di cospiratori collegata all’esilio parigino, un corpo estraneo all’oligarchia, era rappresentato da quella parte della stessa oligarchia che propendeva per una politica di disarmo e di accomodamento con Luigi XIV, e che era pronta a pilotare la deriva della Repubblica dall’orbita spagnola a quella francese. Gli emissari del Re Sole a Genova potevano contare sulle confidenze di personaggi eminenti. Nel novembre 1681 l’abate d’Estrades, agente francese a Torino, riferì a Louvois che un informatore recatosi a Genova (sempre Dancourt?) “avoit des amis dans cette ville, et entre autres un senateur des plus considerables de la Republique” [53]. Durante la ‘grande paura’ dei francesi del tardo inverno e della primavera 1679 personaggi come Pietro Durazzo, Paolo Geronimo Franzone, Giacomo Maria Salvago avevano ostentato tranquillità. Nel 1684 il copione fu replicato. Un mese prima del bombardamento Paolo Geronimo Franzone propose nella consulta del Consiglietto di “sospendere o trattenere l’armamento delle galee di libertà”, aggiungendo che “nelle pratiche di Francia non escluderebbe affatto l’affare del sale”. Ancora il 4 maggio, mentre in Provenza la flotta francese si apprestava a salpare le ancore, Pietro Durazzo, sostenendo che “la Francia nel stato presente non sia per fare l’attentato temuto”, sconsigliò di chiedere il soccorso delle squadre navali spagnole e suggerì di “terminare le pendenze con la Francia e disinganare quel Re” [54]. Quando Paolo De Marini, alla Bastiglia, apprese i nomi dei componenti della Giunta istituita a Genova all’inizio di maggio, scrisse all’amico Giambattista Spinola di essere

soddisfatto maxime quia non vi è alcun D. che battezzando con nome di prudenza la viltà e col nome di economia l’avarizia han sempre fatto e faran sempre un gran male a parer mio alla Republica fin che saran seguitati non che sentiti con tanto aplaoso i loro pareri; se pure la viltà et avarizia loro o pure prudenza ed economia che vogliamo chiamarla non è una indegnissima politica di pensare e provvedere sempre a se stessi e mai al publico et al dovere [55].

Agli occhi di un oligarca ostile, e reso più astioso dall’affronto del carcere, il partito francese a Genova pareva identificarsi con il clan Durazzo e col suo capo Pietro. In una certa misura era davvero così. Ma dalla città bombardata, dalla quale De Marini mancava ormai da due anni e mezzo, Giambattista Spinola rispose esprimendo un apprezzamento più articolato della situazione.

  1. “Repubblichista”: tale si considerava Giambattista Spinola, con ciò scegliendo nella geografia politica genovese il composito schieramento di quei patrizi “zelosos de la libertad” [56], che, ostentando di porre avanti a tutto gli interessi della Repubblica, rifiutavano di identificarsi tanto come filofrancesi quanto come filospagnoli. Nel 1680 il cospiratore notaio Ferrari, distinguendo il “genio” delle famiglie nobili, elencava “francese, spagnolo, imperiale, e neutrali o republichisti” [57]. Si ha l’impressione che la ‘neutralità’ dei repubblichisti si qualificasse soprattutto come disimpegno nei confronti della Spagna. Cristoforo Battista Centurione, che neutrale non era, insisteva sui suoi concetti “di quanto convenga a buoni republichisti ossequiare e servire a’ rappresentanti del re”, cioè a Saint-Olon [58]. Ed infatti, proprio perché repubblichista Spinola si era dichiarato incline a dare una risposta almeno interlocutoria alla richiesta francese di stabilire a Savona un deposito di sale per la guarnigione francese di Casale: un’iniziativa respinta dalla Repubblica (e successivamente da molti storici) come una pericolosa lesione dei privilegi di San Giorgio e un cavallo di Troia della Francia sul territorio genovese; ma un’iniziativa che un oligarca smaliziato poteva giudicare negoziabile e, a certe condizioni, utile alla Repubblica per conciliarsi a buon mercato il Re Sole realizzando nel contempo un piccolo profitto. Spinola non temeva la Francia, convinto com’era che Saint-Olon, “huomo minuto, scrocco et interessato”, sarebbe stato facilmente corruttibile (un po’ come nel 1625 i magnifici avevano pensato di corrompere Lesdiguières) e che male si fosse fatto a non tentare di comprarlo. Temeva invece che gli spagnoli facessero pagar caro il loro aiuto, e che i sostenitori genovesi di casa d’Austria abbracciassero il partito estremo di dare la città al re cattolico. Gli spagnoli d’Italia, in particolare, gli sembrava contassero di trarre profitto dalle difficoltà della Repubblica. In Melgar riconosceva un risoluto antifrancese, da tempo fautore di una strategia politica ‘asburgica’ più che ‘spagnola’, attenta agli interessi dinastici di casa d’Austria (dunque a quelli imperiali) più che agli interessi immediati della Spagna [59]. La scelta di Melgar era del resto condivisa, sin dagli anni della guerra d’Olanda, dai governatori dei Paesi Bassi. La stessa entrata in guerra della Spagna contro la Francia nell’autunno del 1683 venne precipitata dalla decisione del governatore dei Paesi Bassi, il marchese di Grana, di accettare lo scontro con i francesi in Fiandra. Mossa avventata, secondo qualche osservatore contemporaneo (e secondo più d’uno storico); o forse soltanto mossa mal calcolata, suggerita da quanti, nei diversi centri decisionali spagnoli, allo stillicidio delle annessioni francesi preferivano un’iniziativa che provocasse la ricostituzione dell’alleanza tra Spagna, imperatore e Olanda [60]. In concorrenza con le pressioni di Luigi XIV su Genova, ci furono perciò anche le pressioni degli spagnoli e degli oligarchi amici di ‘casa d’Austria’ per arruolare la Repubblica nello schieramento antifrancese. E un anno dopo il bombardamento Giambattista Spinola ricapitolò al De Marini l’accaduto in un brano significativamente cifrato.

La vigilia delle bombe e le bombe stesse hanno rovinato Genova e scomposto li humori; vi era forte partito di spagnardi, assentisti, feudatari con molti altri gloriosi senza discorso. Questi vollero le quattro galee per unirsi alla Spagna quale faceva spiccare le cattive intenzioni della Francia contro Genova per obbligarla a fare lega et entrare in ballo. E non le riuscì questo, ma fatto le galere sostennero di non levarle o prender qualche disimpegno. Il che campì a Santolon di godere la congiuntura per finire di rovinarne in Francia con dipingere costi le cose in termini diversi e rappresentar l’impresa per facile sfogando il suo talento irritato da molte cose che si sarebbero potute sventare essendo huomo venale e facile a guadagnare […] A quello partito si aggionse in appresso un numero di disperati et irritati per li danni onde fu miracolo del Signore che in genaro si unissero li voti sufficienti per la pace. Guai a noi se vi volevano li 4 quinti: già si miravamo tutti di malo occhio […] Quelli che facevano del caporione a pena pagarono la tassa ben tardi e e cordi suo volevano dar la Republica al spagnuolo […] secondo il disegno del governatore di Milano che ha patito al accordo come hora lo fa vedere l’Ecc.za sua; Gio Carlo[61] è andato a Napoli perché vi ha patito in non fare a modo e Tasso[62] in Spagna, gli altri fremono e non si disingannano e hanno gusto che la Francia dimandi a chi ne aspetta et all’hora guai a noi per sempre [63].

Spinola forse sbagliava nel credere che Saint-Olon fosse influenzabile, e che avesse avuto parte nel determinare il Re Sole a passare all’azione contro Genova. Molto più verosimilmente egli era stato, come Pomponne nel suo soggiorno olandese, un ambasciatore mandato a preparare la guerra [64]. Ma il racconto di Spinola presenta egualmente uno straordinario interesse, perché rivelando i retroscena genovesi dello scontro tra la Repubblica e Luigi XIV getta una luce sulla complessità dei giochi interni e internazionali sottesi a quello che pareva a prima vista un duello tra Davide e Golia.

In effetti il bombardamento sciolse nel modo brutale e intimidatorio caratteristico di quella fase della politica del Re Sole un nodo intrecciato non solo a Versailles, ma anche nelle aule del Consiglietto e in almeno alcuni dei centri decisionali spagnoli. I governanti genovesi si interrogarono subito sullo scopo esatto dell’azione francese. Pochi giorni dopo la fine del bombardamento Paolo De Marini scrisse ai Collegi che l’attacco a Genova era stato “una diversione a favor del Turco”, un modo per incoraggiare i bellicisti della Porta a proseguire la guerra contro Leopoldo I e per sottrarre i “soccorsi dell’Italia” all’offensiva imperiale in Ungheria. Genova sarebbe stata una pedina da sacrificare sulla scacchiera della grande politica europea. De Marini si diceva al tempo stesso convinto (come scrisse all’inizio di luglio) che i ministri del Re Sole “adesso che han sfogato la loro rabbia all’uso della Nazione, riflettono al passo che han fatto, forse non vorrebbero che fosse seguito, perché […] trovano, che han ben fatto un gran danno a noi, ma senz’alcun loro profitto”. Due mesi più tardi ribadì il suo curioso convincimento (“stimo certo che sian pentiti di quel che han fatto”), aggiungendo però la previsione che i ministri francesi avrebbero perseverato a piegare la Repubblica a

condescendere ai loro voleri, il primo dei quali oggidì io credo che sia lo staccarla dalla Spagna e sopra tutto non veder di nuovo radicata in cotesta darsena una squadra di galee di quella corona quale aggiunta alla nostra o pure ogni poco che crescesse di numero toglierebbe alla Francia la comodità di barcheggiare tutto l’anno per cotesti mari con dieci sole galee alla volta senza alcuna opposizione come faccevano gli anni adietro [65].

De Marini, mentre dalla Bastiglia incitava i consorti genovesi a resistere a Luigi XIV, riconosceva insomma al bombardamento un obiettivo strategico ben chiaro: quello di snidare una volta per tutte la flotta spagnola da Genova e assicurare alla Francia il controllo indisturbato del Tirreno, ostacolato dal rafforzamento della flotta genovese e dall’alleanza tra la Spagna e la Repubblica. Il bombardamento doveva servire, se non ad occupare Genova (un obiettivo massimo forse accarezzato e all’evenienza certamente gradito, ma altrettanto certamente non perseguito sino in fondo), almeno a forzare il cambiamento di segno della neutralità genovese, da benevolmente filospagnola a benevolmente filofrancese.

  1. “Fino dell’83 erano per noi destinate quelle bombe che scoppiarono in 84”, osservò Gian Andrea Spinola nel 1688, al ritorno dalla sua ambasciata a Madrid [66]. C’è motivo di credere che avesse ragione [67]. Impreviste furono la consistenza della flotta francese, la scelta di Genova stessa come obiettivo, l’eccezionale volume di fuoco delle galeotte; non la volontà del Re Sole di regolare i conti con la Repubblica. Come è stato più volte ricordato, l’almanacco del 1683 prevedeva un’impresa contro Genova [68]. Ogni anno, a fine inverno, il governo genovese faceva spiare i preparativi negli arsenali di Marsiglia e Tolone, a primavera-estate ordinava ai giusdicenti delle riviere di vigilare sulle mosse delle squadre francesi che incrociavano nel Tirreno. Gli “avvisi” che giungevano al governo genovese sulla consistenza delle forze navali del Re Sole erano generalmente fondati e precisi [69]. E, se non altro per esperienza delle precedenti operazioni della flotta di Luigi XIV, era noto il pericolo che la città correva. Nel 1682 Raffaele Giustiniani propose in Consiglietto di sistemare le batterie del porto in modo da “impedire ai pontoni con li mortari” l’avvicinamento alla città [70]. Tuttavia, il 17 maggio 1684, con la flotta di Duquesne dispiegata davanti a Genova, il capitano Gian Agostino Germano, l’esperto consultato dalla Giunta, rassicurò “circa al particolare delle bombe di gran machina”: “credo esser cosa da temersi poco” [71]. Rendeva fiducioso Germano il parziale insuccesso del bombardamento di Algeri.

Prima ancora che salpasse le ancore, era comunque chiaro che la flotta di Duquesne si preparava a fare qualche “carcassata o bombardatione” [72]. E che il suo obiettivo potesse essere Genova, gli Inquisitori di Stato lo riferirono alla Giunta il 5 maggio, grazie alla loquacità di un francese (il console?) “che più di molti può havere partecipato nelle notitie di Monsù S. Olone” [73]. Avvisi falsamente rassicuranti (il solito depistaggio messo in atto dalla rete diplomatica francese) la volevano tuttavia diretta verso la Catalogna. Fino all’ultimo la Repubblica tenne la strada della cautela e dell’acco­modamento, trattando con il Papa l’invio delle quattro galee di libertà di recente armamento (uno degli atti ostili dei quali la Francia chiedeva riparazione) a combattere i turchi in Levante con la squadra veneziana. Le pressioni degli spagnoli perché la Repubblica accettasse le truppe di Melgar in città e le galee di Napoli e di Sicilia in porto vennero respinte. Nelle prime settimane di maggio la Giunta operò febbrilmente, decretando il richiamo del naviglio leggero delle riviere e l’armamento delle milizie locali [74]. Dell’ef­ficienza di queste ultime i magnifici generalmente dubitavano, come testimonia la frequenza nei “ricordi” del Minor Consiglio di lamentele per lo scadente stato degli “scelti”. I comandanti nobili, diffidenti, preferivano disporre di soldatesca pagata. Ed effettivamente le milizie dell’entroterra in qualche caso riluttarono a mobilitarsi ed in qualche altro caso si sbandarono una volte giunte in città. Allo stesso modo, del resto, “coralline”, “barcarecci”, “bregantini”, il naviglio leggero soprattutto ponentino (quello che i Collegi più desideravano avere a disposizione) mancò largamente all’appello; e dovettero rimpiazzarlo le imbarcazioni dello spezzino e delle Cinqueterre. La flotta francese era in ogni caso strapotente. La capacità delle palandre di colpire restando fuori tiro o incassando i colpi delle batterie costiere senza danno apparente sorprese, prima che i genovesi, gli stessi ufficiali del Re Sole reduci dalle ben più difficili spedizioni contro Algeri. “Nous avons trouvé”, scrisse uno di loro, “une grande difference de leurs batteries a celles d’Alger. Il n’y a pas de comparaison en aucun manière. Je ne crois pas me qu’ils ayent donné un seul coup de cannon” [75]. Far uscire la flotta della Repubblica non pareva consigliabile, anche se la popolazione, che doveva sfollare le case, lo chiedeva. Solo le sei galee da catena erano in ordine; mentre con gli equipaggi delle quattro galee di libertà si potevano armare al più due unità. L’offerta di alcuni mercanti inglesi, di noleggiare alla Repubblica i propri vascelli alla fonda nel porto, venne declinata. Rientrato un tentativo di sortita, la città dovette subire le bombe. Il governo parve preoccupato, più ancora che di combattere i francesi, i cui sbarchi furono respinti dai tanto disprezzati miliziani, di mantenere l’ordine in città.

Cinquecento spagnoli delle guarnigioni più vicine al confine della Repubblica affluirono a Genova appena iniziato il bombardamento; altrettanti il giorno dopo. Per ragioni opposte, ma intuibilmente convergenti, tanto i francesi quanto gli spagnoli ingigantirono il disordine provocato in città dalle bombe: i primi compiacendosi di avere messo Genova in ginocchio; i secondi enfatizzando l’importanza del proprio aiuto. Secondo un avviso milanese datato da Genova il 20 maggio, “nella città non si trovano né capi né consegli […] onde mandatisi corrieri a darne parte a Napoli e Milano è qua arrivato il terzo de spagnoli, e quello de Napoletani che furono ricevuti con ogni maggiore, e con moltiplicate voci viva, viva il Re Cattolico con altre dimostrazioni di gioia inalberando le bandiere di Spagna e consegnando a detti terzi li posti più esposti e pericolosi” [76]. La confusione e le rovine avevano effettivamente scatenato il disordine e incoraggiato il saccheggio. L’oligarca Francesco Invrea, ad esempio, fu rapinato a mano armata nella propria casa. Ma la plebe non si ribellava al governo né tantomeno acclamava lo stendardo di Francia: al contrario, si era volta contro i sudditi del Re Sole (che per altro la Giunta fece di tutto per proteggere [77]) e contro i presunti traditori, saccheggiandone le case e malmenandoli. Si diffuse la voce che il governo avesse posto taglie sulle teste di Eugenio Durazzo e Cristoforo Battista Centurione, il quale, riconosciuto e arrestato dai miliziani di Voltri, rischiò il linciaggio [78]. Era un tumulto a suo modo antinobiliare, ma quasi incruento, diretto (salvo eccezioni come quella ricordata) contro le proprietà più che contro le persone, e mai, per quanto si sa, contro i simboli del governo: non l’insurrezione messa forse nel conto dai francesi, ma uno scoppio di collera del resto rapidamente soffocato [79]. I soldati spagnoli, che pure in qualche caso approfittarono della situazione, vennero impiegati a ristabilire l’ordine fucilando i saccheggiatori colti in flagrante (trentadue sarebbero stati passati per le armi) o rastrellandoli per avviarli al remo. Alle porte della città qualche capoposto nobile, irritato all’improvvisato commercio della roba trafugata nelle case patrizie, largheggiò nel bastonare le schiene dei plebei sfollati: così Nicolò Saluzzo, per il momento prudentente invitato dal governo a contenersi. Nei mesi seguenti, però, una Giunta sopra i furti, composta da due membri dei Collegi, si impegnò con un certo successo (grazie al consueto strumento delle delazioni) nel recupero del bottino [80]. Il governo, trasferitosi nell’Albergo dei Poveri, incoraggiò l’esodo dalla città del popolo minuto, trattenendo i cittadini ascritti entro la cerchia delle nuove mura e proibendo l’afflusso di gente dalle campagne e dai monti [81]. Nella città militarizzata commissari di quartiere nobili e non nobili (smentita armata, questi ultimi, alle illusioni dei francesi e degli esuli sull’umore eversivo del secondo ordine) provvedevano a organizzare le ronde. Dopo lo sbandamento iniziale, la situazione rimase sotto il controllo del governo. Allontanatasi la flotta francese, la difesa della città da nuovi attacchi navali fu rafforzata piazzando finalmente batterie costiere capaci di tirare a pelo d’acqua. A Milano intanto Franco Lercari trattava l’arruo­lamento di duemila mercenari svizzeri. E un anno apertosi con un inverno “horrido e rigoroso” a settembre vide forti mareggiate in anticipo sulla stagione bloccare a Villafranca le galee e a Vado i galeoni francesi, scongiurando così il temuto (ma quanto a ragione?) ritorno della flotta del Re Sole. Ad agitare provvidenzialmente le onde, più di un magnifico se ne diceva convinto, era la “onnipotente mano del Signor Iddio”. Perché non “lasciar combattere Dio per noi”, come auspicava Giambattista Spinola? Suggerimento tanto pio, quanto accorto: giacché sui modi di supplire alla provvidenza nel sostenere lo sforzo bellico i magnifici erano tutt’altro che concordi [82].

  1. Passato il bombardamento e giunto il momento delle risoluzioni, ogni consulta del Consiglietto divenne occasione di contrasto. Tra fine luglio e inizio d’agosto lo stesso prolungamento dei poteri della Giunta fu materia di dissidio. Il 27 luglio, su venti nobili consultati, sei si dichiararono senz’altro contrari al rinnovo della Giunta. Nella consulta del 5 agosto diversi intervenuti proposero di limitare i poteri dell’organismo ai problemi della difesa: così Pietro Durazzo, Giambattista Cattaneo, Ansaldo Grimaldi, il quale suggerì di istituire due giunte, competenti rispettivamente per la città e per il Dominio (Grimaldi formulava forse una proposta realmente operativa; mentre un avversario della resistenza come Durazzo mirava probabilmente a recuperare uno spazio di manovra restituendo autorità al Consiglietto). Anche sostenitori della Giunta come Gian Francesco Sauli e Agostino De Franchi concedevano che si dovesse operare qualche, non precisata, modifica [83]. In agosto avanzato, al momento di deliberare l’invio delle squadre genovese e spagnola in Catalogna, i pareri si divisero di nuovo. La spedizione, una volta conclusa la tregua tra la Spagna e la Francia, venne giudicata da parecchi magnifici superflua o senz’altro dannosa; sempre Gian Francesco Sauli, stavolta insieme a Nicolò Doria, sostenne il partito di man­tenere la più stretta intesa con la Spagna. A metà settembre, dovendosi trattare la mediazione del Papa, l’unico oppositore alla relazione della Giunta sul proposito fu ancora Gian Francesco Sauli, sostenuto da Giacomo Grimaldi nel parere che non si desse “alcun motivo di mala soddisfazione e di ombra” alla Spagna. La controffensiva delle squadre congiunte genovese e spagnola si esaurì però ingloriosamente nel corso dell’estate. Ai genovesi riusciva sospetta la riluttanza dell’ammiraglio spagnolo a rischiare la battaglia; agli spagnoli, che avevano perso una squadra l’anno precedente e stavano venendo a patti col Re Sole, pareva inopportuno il desiderio di rivincita degli alleati. La mobilitazione corsara del naviglio delle riviere non compensava i danni provocati al commercio genovese dall’incrociare nel Tirreno dei vascelli di Tourville. La flotta della Repubblica, condotta infine da Ippolito Centurione, al suo ultimo comando, nelle acque della Catalogna, fu messa fuori combattimento dalle malattie [84]. La composizione della Giunta andava nel frattempo cambiando. Il consesso eletto all’inizio di maggio comprendeva Raniero Grimaldi, Gherardo Spinola, Giambattista Brignole e Agostino Saluzzo dei Collegi; Luca Spinola q. Luciano, Gian Francesco Brignole, Bendinelli Negrone e Agostino Viale del Consiglietto. All’inizio di settembre nella rappresentanza dei Collegi Gherardo Spinola e Giambattista Brignole lasciarono il posto a Geronimo De Mari e Giannettino Odone; in quella del Consiglietto Bendinelli Negrone fu sostituito da Marc’Antonio Doria. Nel complesso sembra che fosse prevalente un orientamento latamente filospagnolo. Ma col passare del tempo, mentre a Parigi Louvois redigeva i piani per una campagna di terra contro la Repubblica da condurre nel 1685, a Genova guadagnarono forza, e alla lunga si imposero, le ragioni dei conciliatori, timorosi più del mezzo aiuto spagnolo che delle ostilità francesi [85]. I filofrancesi di sempre, Pietro Durazzo in testa, finirono col guadagnare l’adesione di importanti oligarchi come Giambattista Cattaneo (citato da Dancourt, nel 1679, come uomo di casa d’Austria), Francesco Maria Balbi, Francesco Maria Sauli, Agostino Viale, nonché di personaggi meno eminenti, ma perciò forse più rappresentativi degli umori dei colleghi, come il ripetutamente citato Giambattista Spinola: il quale, secondo Marc’Antonio Grillo, giunto a Madrid come inviato straordinario della Repubblica agli inizi di settembre del 1685, “nel discorso delle contribuzioni, si rendeva compatibile con le lacrime, e con le esclamationi, che non haveva con che vivere, e che se fusse obbligato a continuare i sussidij e le tasse si ridurrebbe a miseria” [86]. Segno evidente del mutare del vento, nel novembre 1684 Pietro Durazzo entrò a far parte della Giunta, in sostituzione di Gian Carlo Brignole che era stato eletto ambasciatore in Spagna [87]. Il 4 gennaio la Giunta venne confermata ancora per due mesi, con possibilità di proroga, di mese in mese, per altri sei. Il 5 la rappresentanza dei Collegi venne rinnovata sostituendo al Grimaldi e all’Odone Gian Carlo Brignole e Stefano Lomellino; mentre in quella del Consiglietto al confermato Pietro Durazzo si affiancarono Gian Francesco Pallavicino, Francesco Invrea e di nuovo Bendinelli Negrone [88]. Stavolta l’orientamento era piuttosto antispagnolo, come conferma indirettamente il disappunto di Paolo De Marini [89]. Il rappresentante genovese a Madrid, Gian Benedetto Pichenotti, era certamente uomo di parte spagnola: ma i commenti contenuti nelle sue lettere a Paolo De Marini ribadiscono in sostanza quel che si ricava, a proposito della spaccatura, all’interno del patriziato genovese, dalle consulte del Consiglietto [90]. Quando si venne al voto per approvare il trattato con la Francia, in febbraio, secondo lo storico Casoni gli autori dei due discorsi che trascinarono il Consiglietto al sì furono per l’appunto Giambattista Cattaneo e Francesco Maria Balbi[91]. Pichenotti metteva in lista nera, oltre ai Durazzo e ai due Francesco Maria (Balbi e Sauli), Giovanni Torriglia, Agostino e Benedetto Viale, Gian Francesco Pallavicino, Paride Maria Salvago: i “cattoni genovesi”, ai quali aggiungeva il doge in carica Francesco Maria Imperiale Lercari e gli ex dogi Agostino Spinola e Giambattista Centurione. Giudicava “sugetto di mezzo” Nicolò Baliani, candidato al dogato accettabile per i filospagnoli, almeno come male minore rispetto al favorito e temuto Pietro Durazzo. Pichenotti riservava i propri elogi a Gian Francesco Sauli, Giovanni Odone, Giulio De Franchi, Agostino Saluzzo, alcuni dei sessantanove magnifici contrari in febbraio alla ratifica dell’accordo con la Francia: “gente ostinata e presita”, ironizzava, “che non si rende a 150 predestinati amici della quiete e desiderosi di essere rientegrati nella buona grazia del monarca di Francia”. Secondo un fautore del viaggio del doge a Versailles, Francesco De Franchi, “chi non ha adherito, e non adherisce alla venuta costì del Serenissimo mostra poca prudenza, et ha sentimenti giovenili” [92]. Le ragioni del realismo e del risparmio convergevano nell’orientare al pacifismo la maggioranza del Consiglietto. Ancora nel gennaio 1685 il Consiglio di Stato di Madrid discusse l’apprestamento di una squadra navale da inviare a difendere Genova: ma il progetto naufragò sullo scoglio del costo dell’operazione, che gli spagnoli speravano di accollare ai genovesi, e che la Repubblica non intendeva accettare. A fine febbraio Melgar e Bazán giudicavano Genova “proclivissima a Francia”, lamentando di non essere stati “attesi, né creduti” dai governanti genovesi [93]. All’inizio di aprile il marchese de los Balbases, Paolo Spinola Doria (nipote del grande Ambrogio), confidava al Pichenotti l’opinione che “da nostri Patrizzij di Genova si fusse troppo anticipatamente temuto il colpo della Francia” [94]. Carlo Tasso, di ritorno in Spagna, criticava il doge Imperiale Lercari, “della cui ardenza e vehemenza praticata da tempo in qua, se ne ricorderanno i nipoti de viventi et i loro pronepoti” [95].

Questi erano i giudizi interessatamente astiosi di parte spagnola. Ma anche un osservatore tutt’altro che prevenuto contro la Spagna, l’ambasciatore Gian Andrea Spinola, oscillò significativamente nelle valutazioni. All’inizio di febbraio gli pareva che la Repubblica non potesse “uscire questo ballo, se non col perdere volontariamente la libertà, o col difenderla costantente fino all’ultimo spirito”. A giugno le pretese del conte di Melgar lo inducevano a recriminare contro il governatore di Milano:

si maschera con l’obligo della gratitudine per il molto che si giatta di aver fatto per noi. Non si mette però in conto per nulla lo aver operato la Spagna non solo per noi, ma per lo interesse della propria conservazione, lo aver noi corrisposto con la perdita in suo serviggio di una squadra per così dire di galee, l’essere la republica in questo ballo per la Corona Catolica, l’esser stati abbandonati da lei nel più bello col ridurci alla necessità di sacrificar poco meno che la libertà alle violenze francesi.

E tuttavia in agosto, di fronte alle richieste francesi di graziare Giacomo Raggio, di risarcire l’ambasciatore Saint-Olon, il console Aubert e altri cittadini francesi danneggiati nei tumulti seguiti al bombardamento, e di rifondere le prede fatte dai corsari genovesi, Spinola formulava esagerate previsioni sugli appetiti del Re Sole verso la Repubblica:

vorrà sale, vorrà darsina, e senza poter né meno aprir bocca in contrario converrà darle, perché la ragione sarà la stessa e quando anche voglia bisognerà dare una piazza, lasciar, mettere una fortezza ed offerire insomma le chiavi della città. E pure vi sarà chi si accomodi […] a tasse e sussidij per pagare Sant’Olon, Obert e Patù, e per rifare le rappresaglie di mare e si torcerà poi, anzi negherà apertamente di contribuirli per diffendere la libertà. Vi sarà chi si spolpi di buona voglia per mettersi e stringersi le catene, e ricuserà di dare un moderato soccorso per liberarsene.

Sin da giugno egli aveva tratto la sconsolata conclusione: “il nostro stato è cattivo: siamo fra il marco e l’incudine battuti da nemici, e dagli amici trattati poco sinceramente” [96].

  1. Costretta infine a dichiararsi, l’oligarchia genovese trovò il modo di compiere un gesto esemplare. Nell’agosto 1685, scaduto il biennio dell’Imperiale Lercari, fu rapidamente eletto doge Pietro Durazzo. Apertesi il 19, le operazioni elettorali si conclusero il 23. Esclusi dalla rosa dei candidati tutti i più aperti filospagnoli, l’unico serio competitore del Durazzo parve Gian Carlo Brignole: ma nella votazione finale Durazzo prevalse nettamente[97]. L’Imperiale Lercari fu sottoposto a un sindicato puntiglioso e lungo più di quanto non fosse da tempo consueto: i Supremi Sindicatori iniziarono l’esame delle “pontature” presentate a carico dell’ex doge il 5 settembre; l’assoluzione venne pronunciata il 26 novembre [98]. In alcuni interventi disinvolti o precipitosi dell’ex doge fu vista una volontà prevaricatrice; il suo frettoloso trasferimento da Palazzo Ducale all’Albergo dei Poveri venne giudicato troppo somigliante a una poco decorosa fuga. Benché fosse stato a suo tempo uno dei primi a mettere in guardia i colleghi contro le mire francesi su Genova, l’Imperiale Lercari era riuscito a dispiacere all’ala filospagnola del patriziato. Un portavoce di questa come il già ricordato Pichenotti così aveva commentato i preparativi del viaggio dogale in Francia: “dal Serenissimo e dall’Eccellentissimo [il senatore Paride Maria Salvago] si prettende d’andare in trionfo, e vanno ad un atto di vassallaggio” [99]. Secondo Giambattista Spinola la durata del sindicato dipendeva dall’astio del priore dei Supremi Sindicatori, il filospagnolo Gian Francesco Sauli, verso l’Imperiale Lercari: ragioni private e motivazioni procedurali avrebbe avuto la (relativa) disgrazia dell’ex doge, che dopo qualche mora fu comunque ammesso alla dignità di Procuratore perpetuo. Spinola era forse sincero (e poteva comunque sbagliarsi) o forse prudente; neanch’egli nutriva però simpatia per lo sfortunato doge del viaggio a Versailles.

Habbiamo bisogno – scriveva al De Marini – di un huomo sodo, savio e prudente, che ne’ tempi presenti sappia dirigere le materie, prevenirle molte volte, e molte altre scansare gli incontri, hora con rallentare et hora con affrettare secondo la congiuntura; et in questo signore credo che concorrano tutte queste qualità [100].

Il possessore di tante doti (con probabile disappunto del De Marini) era Pietro Durazzo, l’uomo della pace. Pace voleva dire, anche, smobilitazione: per “sgravare la Camera di quel peso troppo grande che ha sofferto nelle contingenze passate”. Le truppe svizzere frettolosamente arruolate divennero allora occasione di una lunga contesa col Melgar e oggetto di ripetuti passi della Repubblica presso la corte di Madrid per stabilire a chi toccasse pagare i mercenari ormai inutili. Era l’anticlimax, il ritorno all’or­dinaria amministrazione dopo le pose eroiche dei giorni di maggio.

A governare la pace ritrovata restavano pur sempre (né poteva essere altrimenti) i protagonisti della difficile congiuntura del 1684. Il dogato di Pietro Durazzo imprese alla politica della Repubblica una virata in senso filofrancese? Difficile rispondere con una sola parola. Vincens osservò che dopo il 1684 quelli che egli definiva “fautori dell’indipendenza” (e che rappresentavano forse una coalizione di repubblichisti e filofrancesi) non riuscirono a tradurre in atto il loro orientamento perché ostacolati dai partigiani degli Asburgo. Più recentente anche Venturi ha sostenuto che Genova “rimase nella sfera d’influenza spagnola” [101]. Eppure Saint-Olon fu il primo dei residenti francesi in città a pieno titolo: il monopolio della rappresentanza diplomatica spagnola era infine spezzato. Pochi anni dopo il bombardamento, durante la guerra della Lega d’Augusta, furono gli spagnoli a lamentarsi della condotta della Repubblica, e gli imperiali ad estorcere contribuzioni con la minaccia delle armi [102]. Forse il bombardamento di Genova andrebbe considerato, sotto il puro aspetto del rendimento politico e strategico, una delle più fruttuose operazioni del Re Sole. Al costo di una spedizione navale, la Francia ottenne gli obiettivi che si era proposti e che i contemporanei avevano subito sensatamente individuato: l’accesso allo scalo genovese e il ridimensionamento della flotta della Repubblica. L’oligarchia cittadina finì col far propria la linea di condotta candidamente anticipata, in privato, da Giambattista Spinola nel 1683: osservare una “essatta neutralità”, essere “sempre ossequenti a tutti li prencipi grandi”, restare semplici “spettatori delle imprese altrui” [103].

* Nel giugno 1984 l’Archivio di Stato di Genova organizzò una giornata di studio nel terzo centenario del bombardamento francese di Genova, del quale fu vittima tra l’altro anche la documentazione dell’antico archivio notarile, successivamente confluita nell’Archivio di Stato. Il testo qui pubblicato nacque come intervento a quel convegno, venne ampliato e corredato di note per la pubblicazione in Il bombardamento di Genova nel 1684. Atti della giornata di studio nel Terzo centenario. (Genova 21 giugno 1984), Genova, La Quercia edizioni, 1988, 39-69, ed è stato appena aggiornato nella bibliografia e ritoccato nel testo per questa raccolta. Mi è sempre parso che il bombardamento del 1684 e la successiva guerra tra Genova e la Francia fornissero materia per una ricerca di largo respiro nella quale si intrecciassero il racconto delle vicende diplomatiche e militari e la microanalisi della società genovese: per un libro, insomma, che tenesse presenti come modelli L’Invincibile armada di Garrett Mattingly, o il più recente lavoro, sempre sull’Armada, di Geoffrey Parker e Colin Martin. Il materiale per un’indagine del genere conservato negli archivi e nelle biblioteche genovesi è molto abbondante. Altrettanto, se non di più, se ne trova nel resto d’Italia e all’estero. Il libro rimane perciò, al momento, un sogno di difficilissima realizzazione. Ma la sua scaletta è in buona sostanza anticipata nella scansione dei paragrafi di questo saggio.  La citazione nel titolo è tratta da ASGe, AS 2201 ter: Giobatta Spinola a Paolo De Marini, Genova 1685 agosto 27.

[1] Cfr. ASCGe, Mss Brignole Sale, 107 D 24: voce “Giochi”. Su Andrea Spinola cfr. SPINOLA, Scritti scelti.

[2] La copia dei Ricordi di Andrea Spinola contenente, assieme ad altre, la chiosa citata porta sul dorso il nome di Gian Andrea Spinola. Potrebbe trattarsi di un semplice errore di attribuzione: che però non si trova negli altri manoscritti sinora noti dei Ricordi. Gian Andrea Spinola, nato nel 1627 e negli anni ‘70 ormai inoltrato nel cursus honorum, aveva assai più della maggioranza dei suoi colleghi inclinazione alla scrittura. L’identificazione dell’anonimo chiosatore con Gian Andrea Spinola resta tuttavia una semplice congettura.

[3] Cfr. Pastine, Genova e l’Impero Ottomano nel secolo XVII.

[4] Sulla guerra di Messina cfr. Laloy, La révolte de Messine; La rivolta di Messina (1674-1678).

[5] Per il quadro generale si rimanda a Costantini, La Repubblica di Genova e alla bibliografia ivi contenuta; qualche altro riferimento negli Orientamenti bibliografici in appendice a Vitale, Breviario, che va visto per la sistemazione del giudizio tradizionale.

[6] Cfr. Spinola, Dissertazione intorno alle negoziazioni diplomatiche; De Maria, Le trattative diplomatiche circa il bombardamento di Genova del 1684; Pastine, La politica di Genova nella lotta veneto-turca. I più recenti storici francesi di quegli avvenimenti dedicano al bombardamento di Genova scarsissima attenzione. Rapidi cenni nel capitolo VIII (di G. Zeller) della Storia del mondo moderno, V, La supremazia della Francia, 1648-1688; due righe in Mandrou, Louis XIV en son temps; sorprendente Corvisier, La France de Louis XIV: “…en 1684 Gênes qui avait aidé l’Espagne et entretenait la piraterie contre les navires français vit approcher une escadre française qui appuyait une demande d’explication. Cette demande ayant été mal reçue, la ville fut bombardée et le Doge dut venir à Versailles présenter des excuses”.

[7] La definizione di Colbert in ASGe, AS 2382: Francesco Maria Imperiale ai Collegi, Roma [1679]; altri riferimenti in Venturi, Utopia e riforma, 39-44. I giudizi su Colbert e Pomponne in ASGe, AS 2201 ter: Giambattista Spinola a Paolo De Marini, Genova 1683 settembre 21; quello su Louvois ibidem, 1684 gennaio 4. cfr. anche il giudizio del notaio di Cervo Alessandro Ferrari, processato per lesa maestà nel settembre 1680: “privato Pompona del posto della Segreteria per intelligenza e caosa della repubblica, che Pompona proteggeva, e sconsigliava il Re a non entrare in Italia, e sostituitovi il figlio di Monsù Colbert inimico d’Italiani, e massime della Repubblica di Genova”: ASGe, AS 3000.

[8] Cfr. ASGe, AS 2460: Gian Andrea Spinola ai Collegi, Madrid 1682 dicembre 31.

[9] Cfr. la relazione di Dancourt citata infra; la dedizione al papa in ASGe, Mss 859, un dialogo sulla politica genovese nel 1622/23 ricco di riferimenti pungenti a individui e gruppi; diverse valutazioni di questo testo in Costantini, La Repubblica di Genova, e in Doria-Savelli, “Cittadini di governo”.

[10] Cfr. una copia in italiano della relazione del 1679, utilizzata da Costantini, La Repubblica di Genova, in ASCGe, Mss 78. L’originale è stato individuato a Parigi, AMAE, dal professor Gian Carlo Roscioni, che ringrazio per avermi segnalato il ritrovamento e l’identificazione dell’autore. Secondo una segnalazione anonima letta nei Collegi il 13 marzo 1680 Dancourt, che aveva soggiornato a Genova nel 1679 “sotto pretesto d’esservisi trasferito per una facenda di Tabarca”, stava per tornare: ASGe, AS 1593.

[11] Sui problemi testuali e sulla paternità di questa relazione, e sulle carte parigine di Saint-Olon, rinvio a Roscioni, Sulle tracce dell’“Esploratore turco”. In Ciasca, Genova nella “relazione” d’un inviato francese, è edita una copia in italiano della relazione attribuita a Saint-Olon e in Recueil des Instructions, 181-204 una relazione di Saint-Olon del dicembre 1682. Su Saint-Olon cfr. Bottaro Palumbo, La crisi dei rapporti.

[12] Sulla crisi annonaria di fine anni ‘70, Gatti, Una congiuntura difficile: 1677-78. In generale sulla situazione economica genovese, Bulferetti-Costantini, Industria e commercio in Liguria; Giacchero, Il Seicento e le Compere di San Giorgio.

[13] Dove abbonda, la documentazione attesta semmai il contrario. I fratelli Gian Andrea e Giambattista Spinola, ad esempio, nei mesi della lotta aperta tra la Repubblica e il Re Sole erano impegnati il primo, come ambasciatore a Madrid dal 1681, a negoziare un’altra alleanza antifrancese che comprendesse Genova, e il secondo a persuadere epistolarmente l’amico e corrispondente Paolo De Marini, l’ambasciatore genovese a Parigi in quel momento ospite della Bastiglia, dell’opportunità per la Repubblica di trovare un accomodamento col Re Sole. Ciò non impediva a Gian Andrea di scrivere pagine fortemente critiche sul governo spagnolo, e a Giambattista di considerarsi non un filofrancese, ma piuttosto un difensore degli interessi di Genova.

[14] Nel sostenere lo smantellamento del “convoio”, infatti, si trovarono concordi un po’ tutti i principali oligarchi, dai filofrancesi Eugenio e Pietro Durazzo ai filospagnoli di casa Doria: cfr. in ASGe, AS 1592-1595 i manualetti e fascicoli dei “ricordi di mese” del Minor Consiglio e le relative consulte.

[15] Cfr. Le  Roy  Ladurie, Système de la Cour (Versailles vers 1709). Ma cfr. gli studi di prosopografia della nobiltà inglese di Namier (The Structure of Politics, e  Id., England in the Age of the American Revolution i principali) ricordati da Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria,  200 sgg. proprio a proposito dell’oligarchia genovese.

[16] Costantini, La Repubblica di Genova ha utilizzato al meglio questa produzione, per la quale si rinvia alla bibliografia di quel volume, nonché a Id., La ricerca di un’identità repubblicana e agli altri contributi allo stesso fascicolo della “Miscellanea Storica Ligure”.

[17] Le chiose agli scritti spinoliani, e il rapporto tra la posizione di Andrea Spinola e quella di Alessandro Giustiniani in Spinola, Scritti scelti, e Bitossi, Famiglie e fazioni.

[18] L’identità di Nicolò (o meglio Nicolò Maria, come si trova scritto su una copia della Panacea) Imperiale, sempre che questo fosse il vero nome dell’autore, resta incerta. Due sono i candidati: Nicolò q. Gian Carlo, nato nel 1602 circa, e Nicolò q. Francesco, nato nel 1620 circa. Il primo era uno zio del doge del bombardamento, Francesco Maria Imperiale Lercari; il secondo, morto prima del 1682, un pronipote di Andrea Spinola, che dedicò a Francesco Imperiale, padre di Nicolò, un tomo dei suoi Ricordi. Quella con il secondo sarebbe l’identificazione più intrigante e forse anche più plausibile, perché attesterebbe una continuità di impegno pubblicistico e di orientamento navalista, già suggerita dalla presenza di Nicolò q. Francesco nella Compagnia marittima di San Giorgio (cfr. Costantini, La Repubblica di Genova,  521). Un episodio del 1674 documenterebbe anche una continuità di spirito polemico. Il 3 febbraio di quell’anno il Preside degli Inquisitori di Stati fu incaricato di fare una “ammonitione” privata all’Imperiale, che “nelli circoli, nelle piazze a Banchi, e nelle conversationi dove si ritrova con persone della sua qualità ha trascorso notabilmente in censurare le deliberazioni publiche et è andato discorrendo sopra le deliberazioni e consulte segrete, e tal’hora discorso sopra le imaginatesi”. Nicolò Imperiale però preferì “andarla palesando, con soggiongere di havere redarguito detto Ecc. mo Presidente, il quale non havesse saputo risponderle”. Il 7 marzo gli Inquisitori proposero di esiliare l’Imperiale; il giorno dopo i Collegi accolsero l’idea di una “correzione più efficace”; ma se esilio venne decretato, dovette rimanere in sospeso: e il 2 aprile fu deliberato di fare una ammonizione scritta. Cfr. ASGe, AS 1587.

[19] Gaspare Squarciafico q. Giuseppe, nato nel 1627 circa, apparteneva ad una famiglia di nobiltà vecchia impegnata negli asientos col re di Spagna e coinvolta nella bancarotta del 1627. Protagonista delle turbolenze nobiliari giovanili dei primi anni ‘50 e costretto all’esilio, si rifugiò dapprima in Piemonte; ma nel 1679 risiedeva in Spagna, da dove chiese invano la revoca del bando.

[20] Cfr. ASGe, Mss 859; Nicora, La nobiltà genovese.

[21] Un cenno a questo carteggio, del resto già segnalato da Vitale, Diplomatici e consoli,  147, e da T. O. De Negri negli Orientamenti bibliografici aggiunti a Vitale, Breviario, in Bitossi, “In tempi così compassionevoli. Cfr. ora in questo volume l’appendice a L’ambasciatore alla Bastiglia.

[22] Cfr. in questo volume Una mostra così gagliarda.

[23] Sulle ascrizioni alla nobiltà cfr. Nicora, La nobiltà genovese, e Grendi, Capitazioni e nobiltà.

[24] Gli elenchi dei nobili tassati nel 1681-1682 in ASGe, Notai antichi 8530 [Lavaggi Giambattista, fz 5]. Sui problemi fiscali del patriziato genovese in generale cfr. Grendi, Capitazioni e nobiltà.

[25] Tutti i pareri citati in ASGe, AS 1595, nel manualetto di ricordi del Minor Consiglio.

[26] Sulle capitazioni cfr. Grendi, Capitazioni e nobiltà, Bitossi, Famiglie e fazioni (dal quale riprendo le cifre e le percentuali citate), e Doria-Savelli, “Cittadini di governo”.

[27] Cfr. Kamen, Spain in the Later Seventeenth Century, che elenca i principali operatori finanziari della Spagna del tempo: tra loro i genovesi Grillo, Spinola e Pichenotti.

[28] Cfr. Recueil des Instructions, 186.

[29] Cfr. Ciasca, Genova nella “relazione” d’un inviato francese,  103. Tengo presente però una copia della relazione conservata in ASGe, AS 1596: “Relatione del stato della Republica mandata al Re di Francia da Monsù di Sant’Olon. 1683”, accompagnata da una lettera ai Collegi, non sottoscritta: “Ser.mi Sig.ri, essendomi capitata alle mani, e non so d’onde, copia della presente relatione, ho stimato bene inviargliene l’acclusa, acciò quando non gli ne sia ancora pervenuta notitia, possano cavarne le riflessioni che merita”.

[30] Cfr. Forcheri, Doge, governatori, 42 (legge 24 ottobre 1671); Grendi, Capitazioni e nobiltà,  417.

[31] Cfr. ASGe, Officiorum et conciliorum 22. Ecco l’andamento degli eligendi al Consiglietto. 1671: 561; 1672: 584; 1673: 577; 1674: 580; 1675: 560; 1676: 540; [1677 manca]; 1678: 541; 1679: 521; 1680: 516; [1681 manca]; 1682: 541; 1683: 530; 1684: 540; solo negli anni ‘90 il numero risaliì stabilmente sopra le 550 unità.

[32] Cfr. Bitossi, Famiglie e fazioni per un accenno sugli effetti della bipartizione nella prima metà del secolo.

[33] Questi calcoli sono basati su ASCGe, Mss Brignole Sale 105 E 9; sono esclusi i personaggi che rinunciarono alla carica prima di prenderne possesso; naturalmente il periodo non per tutti risulta compreseo nei quinquenni in esame.

[34] Cfr. ASGe, Mss Biblioteca 68; eletta a luglio, la giunta venne prorogata a novembre dopo ripetute votazioni.

[35] Cfr. ASGe, AS 1595: manualetto dei ricordi di mese del Minor Consiglio.

[36] Questa e le precedenti prese di posizione in ASGe, AS 1595.

[37] Cfr. ASCGe, Mss Brignole Sale 107 D 24, voce “Mal sodisfatti”.

[38] Per la Giunta del 1684 cfr. ASGe, Mss Biblioteca 70: viene esplicitamente richiamato il precedente del 1672; la Giunta non ha facoltà di far guerre attive, pace, leghe, o aderenze; i 6/9 dei componenti sono sufficienti a deliberare; la proposta di ridurre il quorum a 2/3 fu presentata il 4 maggio e approvata il 6; il 25 novembre fu prorogata per tutto il 1685.

[39] Cfr. Recueil des Instructions, 186-187; Venturi, Utopia e riforma,  42; Petracchi, Norma “costituzionale” e prassi.

[40] Il giudizio sul Bazán in ASGe, AS 2460: Gian Andrea Spinola ai Collegi, Madrid 1683 giugno 17; la questua in ASGe, AS 1597: 1684 febbraio 24. Il 7 marzo fu riferito ai Collegi che “alcune dame siino state a dimandar elemosina al Sr. D. Carlo Bassano”: ibidem.

[41] Sul Centurione e il Durazzo cfr. ASGe, AS 1597, biglietto non datato del 1684; sul Saint-Olon cfr. ASGe, AS 2201 ter, le lettere di Giambattista Spinola a Paolo De Marini, passim.

[42] Cristoforo Battista Centurione q. Agabito, nato nel 1626 circa, fu processato nel 1684 per delitto di lesa maestà: a suo carico venne prodotta la corrispondenza con i fratelli Gian Francesco e Gian Agostino Peyre, religiosi nizzardi, e con personaggi della corte sabauda: cfr. ASGe, AS 3000, e ASGe, Mss 270 e 396 (due dei copialettere sequestrati al Centurione ed esaminati al processo, da aggiungere a quelli conservati in AS 3000). Il Centurione venne anche imbussolato nell’urna del Seminario nel 1677; estratto come Procuratore per il biennio 1 luglio 1682 – 30 giugno 1684 non poté assumere la carica perché impedito. Dal carteggio risultano l’inequivocabile familiarità col mondo franco-sabaudo e l’ammirazione per i francesi (“i nostri” in una lettera a proposito della spedizione contro Algeri), ma anche un indubbio patriottismo all’evenienza antifrancese (nell’episodio della perquisizione del convoglio genovese da parte dei francesi ad Alicante), e una attitudine ostile ai gesuiti (nella lettera al Padre Peyre, a Torino, del 9 settembre 1682, scriveva: “Come già ho scritto, né voi né alcuno altro la puole co’ Gesuiti. Chi ignorerà questa verità ben presto se ne farà dotto leggendo le lettere del fu loro Generale Oliva, da’ quali risulta la loro condotta alla dominatione delle volontà, e più di quelle che comandano alle altrui”). Centurione è citato nella prefazione di A. Neri a Casoni, Storia del bombardamento di Genova,  XXVIII-XXIX, in maniera comprensibilmente liquidatoria, data l’impostazione dello scritto del Neri.

[43] Le accuse a Gian Luca Durazzo e a Giorgio Centurione in Bitossi, Una mostra così gagliarda e Famiglie e fazioni; cfr. inoltre Nuti, Centurione, Ippolito.

[44] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Gian Andrea Spinola a Paolo De Marini, Madrid, 1682 giugno 11 e dicembre 10 (entrambe in cifra).

[45] Sui filofrancesi a Genova e fuori cfr. l’introduzione di A. Neri a Casoni, Storia del bombardamento di Genova; Ciasca, Genova nella “relazione” d’un inviato francese, Pastine, Le rivendicazioni dei Fieschi e il bombardamento di Genova del 1684. A una biografia di Giannettino Giustiniani sta lavorando Barbara Marinelli.

[46] Cfr. ASGe, AS 1593: vari biglietti di calice dell’autunno 1680. Goffredo De Marini veniva chiamato in causa come possibile assentista di galee per il re di Francia; imprudentemente faceva “professione d’essere a pieno informato de’ segreti del Minor consiglio e li propalava in Banchi, et in altri luoghi ponendo in ridicolo quello si opera in esso Consiglio”; il 7 ottobre 1680 venne perciò fatto incarcerare. Giambattista Spinola, nella sua corrispondenza con Paolo De Marini, fece più di un riferimento ai sospetti suscitati da Goffredo: cfr. ASGe, AS 2201 ter.

[47] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: varie lettere di Giambattista Spinola a Paolo De marini; e ibidem altre lettere di Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, in una delle quali si fa riferimento a missive originali di M. le Cocq, commesso della Posta di Lione, indirizzate a Gian Domenico Giustiniani, copia della maggior parte delle quali era in possesso degli Inquisitori di Stato.

[48] Su Sinibaldo Fieschi cfr. in particolare Pastine, Genova e l’Impero Ottomano.

[49] Su Gian Paolo Balbi e Stefano Raggio cfr. Bitossi, Il governo dei magnifici; su Raffaele Della Torre, il nipote omonimo del celebre uomo di legge e di governo genovese, cfr. almeno De Maria, Carlo Emanuele II e la congiura di Raffaele Della Torre, e Cacciabue, Per una biografia.

[50] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, Madrid 1685 aprile 12: “Mi avviserà che faranno cotesti Popolari Marrana, Bono, Peri e compagni quando sarà costì il nostro Serenissimo”; per Pichenotti Marana era “il nostro scellerato Marrana, che meriterebbe un buon frisio in quel volto sfacciato”: ibidem, lettera del 10 maggio 1685.

[51] Accanto al filofrancesismo andrebbe considerato il filosabaudismo, esemplificato del resto dalle più note congiure genovesi del ‘600, quella del Vachero e quella del della Torre. Alessandro Ferrari, notaio oriundo di Cervo, processato per delitto di lesa maestà nel 1680 (si era autodenunciato chiedendo in cambio l’impunità), e trovato suicida nella sua cella, in uno scritto che gli venne sequestrato (Arcana dialogistica historiographica) si dimostrava nel contempo fautore delle ragioni del re di Francia su Genova, e sostenitore del Duca di Savoia. Rimproverava, tra l’altro, al governo genovese un orientamento giurisdizionalistico che gli ispirava un bizzarro parallelo tra genova e Ginevra come città ribelli alla Chiesa; ed era ostile all’ammissione degli ebrei: “hebreos in civitate aggregant et introducunt”: cfr. ASGe, AS 3000.

[52] La relazione attribuita a Saint-Olon era esplicita: “v’è di più un terzo partito, e questo è il popolaccio, che non havendo per se stesso alcuna susistenza, vive de’ suoi travagli manuali […]. Questo partito, ch’è più numeroso però il meno considerabile, è tutto spagnolo”. Cito dalla copia in ASGe, AS 1596.

[53] Paris-Vincennes, Archives de la Défense, A 1, 664, f. 96: d’Estrades a Louvois, Torino, 1681 dicembre 12. La relazione (ibidem, A 1, 668,  284 e sgg.) menzionava anche un secondo senatore.

[54] Cfr. ASGe, AS, 1597: manualetti dei ricordi di mese di aprile e maggio 1684.

[55] ASGe, AS 2201 ter: Paolo De Marini a Giambattista Spinola, Parigi, 1684 maggio 29. Sui Durazzo cfr. L’archivio dei Durazzo.

[56] Per usare le parole di don Francisco de Melo, a vario titolo ambasciatore spagnolo a Genova dal novembre 1632 all’aprile 1637; sulla relazione da lui inviata al re di Spagna cfr. Bitossi, Il governo dei magnifici, capitolo VII.

[57] Cfr. ASGe, AS 3000. Si noti l’interessante e fine distinzione tra spagnoli e imperiali, che Ferrari coglieva con tempestività.

[58] Cfr. ASGe, Mss 396: lettera a Padre Peyre a Torino, 1682 settembre 2. Centurione deprecava il rifiuto dei patrizi genovesi di ricevere l’ambasciatore e la consorte.

[59] E non si sbagliava: negli anni’90 Melgar, ormai Almirante di Castiglia, sarebbe stato l’uomo di punta della camarilla filoimperiale alla corte di Madrid; durante la guerra di successione al trono di Spagna si sarebbe schierato per Carlo d’Asburgo. Su Melgar cfr. la voce in Enciclopedía Universal Illustrada, X,  208; sulla politica spagnola di fine Seicento cfr. Kamen, Spain in the Later Seventeenth Century.

[60] Cfr. Kamen, Spain in the Later Seventeenth Century, e Stradling, Europe and the Decline of Spain.  Secondo l’ambasciatore genovese “tutti conoscono che lo stare in pace è un certo perdere”: ASGe, AS 2460, Gian Andrea Spinola ai Collegi, Madrid, 1683 novembre 18.

[61] L’ambasciatore spagnolo a Genova, Bazán.

[62] Il maestro di campo generale delle forze genovesi, don Carlo Tasso, un veterano degli eserciti spagnoli e imperiali, nativo del Dominio della Repubblica, che lo chiamò al proprio servizio (e lo ascrisse alla nobiltà) nel maggio 1679. Sulle circostanze del suo ingaggio cfr. in questo volume Bitossi, “Una mostra così gagliarda”.

[63] ASGe, AS 2201 ter: Giambattista Spinola a Paolo De Marini, Genova, 1685 agosto 21.

[64] Cfr. Rowen, The Ambassador Prepares for War, e  Pomponne’s Relation de mon ambassade en Hollande 1669-1671,. Lo stesso Cristoforo Battista Centurione scrisse al Padre Peyre già il 26 agosto 1682: “ma gli più considerati vedono benissimo che il ministro di Francia non istà qui che per porgere beveroni”: ASGe, Mss 396.

[65] Cfr. ASGe, AS 2203: Paolo De Marini a Giambattista Spinola, Parigi, 1684 giugno 2, luglio 3, settembre 8 rispettivamente. Nel primo dei tre dispacci De Marini riferiva l’opinione di “tal uno che conosce bene l’umor del Re, le intenzioni del suo Consiglio e le massime della Francia”.

[66] La lunga relazione ai Collegi di Gian Andrea Spinola è edita in  Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, V, Spagna (1681-1721),  3-206; cito dalla copia manoscritta in ASGe, Mss Biblioteca 127, c. 413.

[67] Cfr. Lettres, instructions, et mémoires de Colbert, III,  249 e 746, da dove risulta che Luigi XIV avrebbe deciso il bombardamento di Genova nel maggio 1683; nel luglio Colbert scriveva all’Intendente di Marina di Tolone, M. de Vauvre, di voler dare al re “la satisfaction de voir l’insolence des Génois punie de la mesme manière que l’a été celle des Algériens”. Devo questa segnalazione al professor Gian Carlo Roscioni, che ringrazio.

[68] Citato da Giacchero, Il Seicento e le Compere di San Giorgio,  545.

[69] Cfr., per la diversa qualità degli avvisi sulle forze di terra e di mare del Re Sole nel 1679, C. Bitossi, Una mostra così gagliarda.

[70] Cfr. ASGe, AS 1595: ricordi del Minor Consiglio del 10 novembre 1682.

[71] Cfr. ASGe, Magistrato di Guerra 1178. Vale la pena di ricordare la consistenza della squadra francese, secondo il ruolo riportato da un avviso da Marsiglia del 15 maggio: “17 vaisseaux de guerre; 20 galères; 4 fregattes legères; 2 brulots; 6 flutes; 10 galiottes à bombes; 20 chalouppes de vaisseaux chacune son mortier; 20 chalouppes de galères; 30 batteaux de pecheures; 16 tartane; 6 autres tartanes: in tutto 151 voiles”. Cfr. ASGe, AS 2203. Le fonti per la ricostruzione dell’operazione da parte francese sono descritte in due recenti lavori sulle galee di Luigi XIV:  Vigié, Les galériens du roi, e Zysberg, Les galériens.

[72] Cfr. ASGe, AS 1597: biglietto di calice del 4 maggio 1684.

[73] Cfr. ASGe, Magistrato di Guerra 1178.

[74] Gli atti della Giunta, sui quali si fondano questo paragrafo e, in parte, il successivo, si trovano in ASGe, Magistrato di Guerra 1177-1183: una massa documentaria consistente, ricca di informazioni sulla microstoria della Genova bombardata.

[75] ASGe, AS 2203: copia di un avviso datato “Devant Genes le 19 may 1684 à 1 heure apres minuit” trasmesso a Genova dall’ambasciatore Paolo De Marini. Al quale l’amico Giambattista Spinola aveva scritto a sua volta: “non havereste mai potuto figurarvi quanto grande sii la portata del tiro delle bombe”: cfr. ASGe, AS 2201 ter, Genova, 1684 agosto 5. Comprensibilmente, invece, il manifesto difensivo del governo genovese, redatto da Bernardo Salvago (Lettera intorno all’hostilità usate da Francesi contro Genova scritta da quella città dal Sig. N al Signor N a Turino per modo di manifesto: cito dalla copia in BCB, Mss rari VII.2.2,  227) accentuava i danni inflitti dalle batterie costiere alla flotta di Duquesne.

[76] Cfr. ASGe, AS 2203: estratto di avviso di Milano datato “Genova 20 detto maggio”. L’avviso descriveva la tecnica di fuoco degli artiglieri francesi sui pontoni (“subito dato fuoco a mortari l’incendiari si gettano in acqua sin tanto sia seguito il colpo”), e insisteva sulla “confusione grande di tal colpo non aspettato, creduto più tosto sopra a Savona”.

[77] La Lettera d’un nobile di Genova al suo inviato in Francia (datata “di Genova 27 maggio 1684”), che cito da BCB, Mss rari VII.2.2, riferiva però: “qui v’erano molti habitanti francesi, le case de’ quali sono state tutte saccheggiate, e loro per il più dal popolo uccisi”.

[78] L’avviso milanese citato supra riferiva addirittura che “scopertasi per tanto la congiura tramata da Christoforo Antonio [sic] Centurione, che con Eugenio Durazzo e l’Abbate Pallavicino havevano determinato dare in mano de’ francesi la città, è stato uno d’essi decapitato e gli altri fuggiti”. Cristoforo Battista Centurione fu arrestato nel novembre 1684 e condannato per delitto di lesa maestà a dodici anni di torre, poi commutati nella relegazione a Levanto. Cfr. ASGe, AS 3000. Il breve, e filospagnolo, resoconto del bombardamento contenuto nella Lettera d’un nobile di Genova precisava invece: “Credesi havevano intelligenza alla Porta degli Angeli con un tal capitano Pallavicino dello stato di Venezia, che venne per prenderne la guardia dicendo di esser mandato dalla Gionta di Guerra, ma non gli fu creduto, et è prigione”.

[79] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Giambattista Spinola a Paolo De Marini, Genova, 1684 luglio 9: “Egli è certo che nelli tre primi giorni delle bombe qualche facinorosi, godendo della commotione della città, et inventando vani pretesti si accinsero a rubbare molto, anche nelle case nostre particolari, e questi furono quelli che per operare più impune battezzarono per ribelle questo e quell’altro. Male che potea crescere molto più in infinitum, se non vi si ponea rimedio con farne archibuggiar molti”. Anche la  Lettera d’un nobile di Genova, 229 riferiva: “molti ladri presero occasione di saccheggiare, ma vi fu posto rimedio, essendone stati archibugiati circa 30, il che tenne gli altri in timore”.

[80] Cfr. gli atti della “Deputazione contro ladri, 1684” in ASGe, Rota Criminale 30.

[81] L’evacuazione della città venne notata dai francesi: l’avviso  citato supra riferiva il 19 notte: “les femmes commencerent hier a sortir de la ville. Je crois que les hommes ont été aussi contraints de la faire”. E in Paris, Archives Nationales, K 1355, 1684 maggio 21: “les habitants s’enfuyent dans la montagne et laissent leurs maisons toutes meublées exposées au pillage”: citato in Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme, 3, Les temps du monde,  131. Ai patrizi era vietato allontanarsi dalla città; ma soltanto a Novi, secondo una nota letta alla Giunta l’1 giugno, si trovavano una ventina di ascritti: cfr. ASGe, Foglietta 1178.

[82] Le citazioni sono tratte da ASGe, AS 2201 ter: Giambattista Spinola a Paolo De Marini, Genova, 1684 febbraio 8 e settembre 24.

[83] Le consulte del Consiglietto citate in questo paragrafo si trovano in ASGe, Magistrato di Guerra 1181.

[84] Cfr. Caneva, L’ultimo comando in mare.

[85] Cfr. Rousset, Histoire de Louvois, III,  276-277. Vi è citata una “Mémoire pour le bombardament de Gênes, 12 janvier 1685”, che dovrebbe trovarsi a Parigi, Archives de la Défense, Depôt de la Guerre 741. Dovevano essere mobilitati 24.000 fanti, 6.000 cavalli, 25 mortai, 12.000 bombe e polvere per 600.000 livres. Ma secondo il marchese di Dangeau,  citato sempre dal Rousset, Luigi XIV aveva dichiarato al Nunzio pontificio che non avrebbe occupato Genova “mais qu’il faisoit marcher ses troupes pur désoler leur pays et laisser un exemple mémorable de sa vegeance à tous ceux qui oseraient l’offenser”.

[86] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, Madrid, 1685 settembre 10.

[87] Cfr. ASGe, Officiorum et conciliorum 22; ma il Brignole non partì: e ci si può chiedere se non si trattasse di una manovra abilmente concertata dal partito durazziano, visto che quella del Brignole fu l’unica surroga di un memembro della Giunta.

[88] Le notizie sulle elezioni nella Giunta in ASGe, Officiorum et conciliorum 22. Luca Spinola, De Mari, Doria, Saluzzo e Odone erano, a giudicare dai commenti del filospagnolo Gian Benedetto Pichenotti, amici di casa d’Austria; Viale apparteneva al partito opposto.

[89] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Paolo De Marini a Giambattista Spinola, Parigi, 24 gennaio 1685: “Mi è dispiaciuto che nella elezione della nuova Giunta siano per appunto stati reformati tutti e tre i nostri più congiunti ed amici cioè il Signor Agostino Viale il Signor Luca Spinola et il Signor Marc’Antonio Doria … né credo che quelli che vi si son posti vin loro luogo siano punto migliori di essi”. Ma ibidem Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, Madrid, 1685 marzo 1, esprimeva apprezzamento per Agostino Saluzzo e critiche per Giambattista Spinola (!) e Agostino Viale. De Marini corrispondeva in effetti con personaggi di opinioni assai diverse, come l’amico e procuratore Giambattista Spinola e il collega in diplomazia Gian Benedetto Pichenotti: col risultato di ricevere giudizi opposti.

[90] Nato verso il 1635 e ascritto nel 1652, Gian Benedetto Pichenotti q. Giambattista fu nominato incaricato d’affari della Repubblica a Madrid il 30 marzo 1676 e ufficialmente accreditato il 29 dicembre 1678; si congedò nel settembre 1681: cfr. Guelfi Camajani, Liber Nobilitatis, 401; Vitale, Diplomatici e consoli,  181-182. Continuò a risiedere a Madrid e a intrattenere corrispondenza con rappresentanti diplomatici genovesi: sue lettere a Paolo De Marini sono conservate tra i dispacci di quest’ultimo, in ASGe, AS 2201 ter. Pichenotti, che alla capitazione del 1681 risultava accreditato del consistente imponibile di 567.999 lire, apparteneva ad una casata di finanzieri genovesi operanti in Spagna: cfr. KAMEN, Spain in the Later Seventeenth Century,  363-364.

[91] Cfr. Casoni, Storia del bombardamento di Genova,  242-253. Balbi “per meglio confermare la sua opinione con divina ed umana autorità, aveva seco recato il libro degli Evangeli e l’istoria del Guicciardini” ( 248).

[92] Cfr. ASGe, AS 2001 ter: Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, Madrid, 1685 aprile 12.

[93] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, Madrid, 1685  marzo 1.

[94] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, Madrid, 1685 marzo 12.

[95] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, Madrid, 1685 giugno 7. Carlo Tasso morì l’anno seguente in Estremadura, di mal della pietra: cfr. ASGe, AS 2461: Gian Andrea Spinola ai Collegi, Madrid, 1686 ottobre 31.

[96] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Gian Andrea Spinola a Paolo De Marini, Madrid, 1685  febbraio 1, giugno 7, agosto 16, e di nuovo 7 giugno. Spinola aveva anche osservato che a Milano operava un gruppo di governo decisamente ostile alla Repubblica: affiancavano Melgar Luca Pertusati, presidente del Senato di Milano, e Francesco de Moles, gran cancelliere del ducato. “Non molta buona luce – ne deduceva – si goderà da quella parte”; cfr. ASGe, AS 2460: Gian Andrea Spinola ai Collegi, Madrid, 1682 giugno 18 e agosto 27.

[97] Nessuno dei nomi citati con aperta approvazione da Gian Benedetto Pichenotti compare nella rosa, che includeva (tra parentesi i voti ricevuti) Pietro Durazzo (262), Gian Carlo Brignole (162), Francesco Maria Balbi (159), Francesco Maria Sauli (126), Oberto Della Torre (122), Agostino Viale (115). Nicolò Baliani non riuscì ad entrare nei sei. Il risultato del Durazzo fu meno lusinghiero di quello ottenuto dal predecessore Imperiale Lercari. Secondo Pichenotti “nelli sei non v’era chi valesse un pelo fuori del Sr. Gian Carlo Brignole troppo vecchio”; cfr. ASGe, AS 2201 ter: Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, Madrid, 1685 settembre 27.

[98] Cfr. ASGe, Supremi Sindicatori 705, dove si trovano il testo delle “pontature” e le risposte dell’Imperiale Lercari.

[99] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, Madrid, 1685 aprile 12. Nella lettera al De Marini dell’1 marzo Pichenotti aveva dipinto “il nostro Ser.mo fuori di sé di giubilo per doversi abboccare col maggior monarca del mondo, e per dover ricevere honori di personaggio reale, come spera dalla generosità del Christianissimo”.

[100] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Giambattista Spinola a Paolo De Marini, Genova, 1685 agosto 27; ma cfr. ibidem il commento di Gian Benedetto Pichenotti a Paolo De Marini, Madrid, 1685 settembre 10, con l’ironico gioco di parole: “la disgratia … che la Suprema Dignità sia caduta velocemente in una pietra, che non ha altro di durezza, che il parentado”.

[101] Cfr. Vincens, Histoire de la République de Gênes, III; Venturi, Utopia e riforma,  40-41.

[102] Cfr. la missione di Francesco De Mari in Spagna nel 1692 Istruzioni e relazioni, V,  206-256; Bitossi, De Mari, Francesco;  Pugliese, Le prime strette dell’Austria in Italia.

[103] Cfr. ASGe, AS 2201 ter: Giambattista Spinola a Paolo De Marini, Genova, 1683 febbraio 10.

Carlo Bitossi

Sono nato (1951) e ho studiato a Genova. Laureato in Filosofia (1976), ho lavorato sedici anni nell’Archivio di Stato di Genova. Dal 2000 ho insegnato nell’Università di Ferrara, come professore dapprima associato e poi ordinario di Storia moderna. Sono in pensione dall’ottobre 2021. Imitando i colleghi anglosassoni che forniscono nei profili anche informazioni private aggiungo che amo i gatti e sono un sostenitore irriducibile del Genoa CFC.