I magnifici a palazzo.
Note sul ruolo politico dei patrizi genovesi nell’età moderna.
Carlo Bitossi (Università di Ferrara)
Palazzo e palazzi
Il “Palazzo” per antonomasia, a Genova, doveva essere soltanto il Palazzo Ducale, ammoniva Andrea Spinola, nei primi decenni del Seicento[1]. Con quella espressione, invece, più d’un genovese soleva alludere alla dimora privata di qualche «cittadino eminente» in quel momento in particolare rilievo[2]. Per esempio, la residenza di Ambrogio Spinola, aureolato dai successi della guerra di Fiandra. Oppure, in altri momenti o in bocca ad altri, il palazzo del principe Doria. O qualcuna delle fastose residenze di altri oligarchi in Strada Nuova e altrove[3]. Il fatto che un osservatore tanto acuto quanto solitamente polemico come Spinola sentisse di dover fare quella precisazione significa che nel parlare, e forse anche nel sentire, comune dei genovesi il centro del potere cittadino non veniva identificato in modo univoco e chiaro con la sede del governo e del suo capo. La «reggia repubblicana», per riprendere il felice ossimoro coniato da Ennio Poleggi, era fatta di un reticolo di dimore[4]. Senza contare che in città esisteva un altro palazzo rivestito di un’immagine pubblica anche se albergava una realtà giuridica privata, e godeva per giunta di un rispetto reverenziale condiviso da genovesi e non: Palazzo San Giorgio.
L’apparente mistero della politica genovese, così scarsamente penetrato per tutta l’età moderna da osservatori forestieri più inclini a costruire categorie schematiche e a cercare formule brillanti e cattive che non ad affaticarsi a comprendere il funzionamento della repubblica, discendeva anche dall’ambiguità che stava alla base stessa delle sue istituzioni: un doge biennale che però restava ai vertici del governo per tutta la vita; un governo povero, ma legato a filo doppio a un istituto finanziario ricchissimo (San Giorgio, per l’appunto[5]) controllato e retto dagli stessi che tenevano le redini del governo; un’oligarchia di mercanti a prima vista digiuna di politica e pensiero politico e incline all’autocommiserazione, che però amministrava, senza mai affondare, un territorio dalla collocazione strategica cruciale nel cuore del più importante sistema imperiale della prima età moderna, quello ispano-asburgico, e una popolazione numerosa e attiva in settori decisivi proprio per il funzionamento di quel sistema imperiale, come la finanza, la marineria, la mercatura. E si potrebbe seguitare con il gioco dei paradossi. Per riflettere sul ruolo dei genovesi come uomini di governo conviene perciò prendere spunto proprio dall’autocritica degli oligarchi su se stessi, per saggiarne la capacità di rivelare il senso dell’azione politica dei magnifici.
Lasciamo la parola ad Andrea Spinola, questo grande scrittore politico misconosciuto incardinato nel pieno del “secolo dei genovesi”[6]. Egli non concedeva nulla ai propri concittadini quanto a capacità politica, e portava a sostegno l’autorità di Commynes. «L’Argentone» – ricordava infatti – «mentre va mostrando, che tutti li huomini hanno qualche impedimento alla felicità loro, dice: ‘Li genovesi hanno per contrapeso, il loro cattivo governo’». Eccone le ragioni:
La sterilità del sito ci forza, a procacciarsi il viver fuori di qua. Questa necessità ci fa diligenti, e ci stimola a far guadagni nelle più remote parti del mondo, hora in merci, et hor in cambii, secondo il tempo, le ocasioni, e le comodità. Quanto al governo di S. Georgio, egli è sì bello, perché li cittadini ne veggono oculatamente l’interesse pecuniario, e lo tocano ogni giorno con mano. Le opere pie poi, senza dubio sono sì ben governate perché come pii crediamo fermamente di far cosa grata a Dio, e crediam bene, aspettandone poi il premio nell’altra vita. Per il contrario, nel governo della Republica non ci si veggono di fuori guadagni pecuniarii: né dal governarla bene, e con diligenza, stimiamo doverne havere merito alcuno appresso Dio[7].
Tutta l’opera di Spinola era un tentativo di confutare e correggere questo modo di pensare, originato dalla scarsa cultura politica che attribuiva alla maggior parte dei suoi consorti, ottimi affaristi e devoti benefattori, ma svogliati e cattivi governanti.
Il doge
La rassegna delle istituzioni può cominciare proprio dall’inquilino più illustre del Palazzo Ducale, il doge stesso. Gli scritti del già menzionato Andrea Spinola sono disseminati di commenti critici sul suo ruolo. Le leggi del 1576 (le tavole di consolidamento dell’antico regime genovese, destinate a durare con pochissimi ritocchi marginali sino alla caduta della Repubblica nel 1797[8]) prescrivevano che il doge fosse cinquantenne, alieno dall’esercizio di arti meccaniche da almeno quindici anni, dotato di lauto patrimonio, di nascita legittima[9]. La disposizione sulle arti meccaniche non garbava a un sostenitore del ritorno dei patrizi dall’impegno nella finanza alle attività produttive e mercantili, come Spinola. A suo giudizio quella disposizione era un aspetto infelice della legislazione del 1576. Non il solo, per la verità: erano infatti stati occasionalmente scelti dogi poveri; e il requisito minimo dei cinquant’anni d’età poteva essere interpretato maliziosamente, eleggendo personaggi anziani che lasciassero sperare di non occupare troppo a lungo il ruolo di procuratore perpetuo[10]. E vigoroso il doge doveva esserlo: perché Spinola, riconoscendo «laborioso» il compito del governo in generale, lamentava che doge e collegi attendessero con ansia i giorni festivi; scuoteva la testa davanti all’abitudine di fare del Palazzo lo scenario di feste, magari in maschera, nelle quali vedeva l’occasione di qualche colpo di mano[11]; detestava la cerimonia dell’incoronazione, con il corollario delle due orazioni pronunciate in omaggio al neoeletto in Palazzo Ducale e in San Lorenzo: residuo del tempo dei dogi perpetui (nel suo vocabolario «tiranni» e «cappellacci»); disapprovava l’assenza di un regolamento per le udienze, che ne lasciava l’ordine all’arbitrio del solo doge[12]. A questo proposito denunciava la «mangeria brutta» esercitata dal personale minuto di Palazzo Ducale (mazzieri, messi, servitori, portiere) su coloro, plebei s’intende, che attendevano di essere ricevuti, specie se erano cittadini del Dominio che stavano sulle spese[13]. Ma le sbavature nella gestione quotidiana del Palazzo potevano venire dall’alto: al doge Francesco Maria Imperiale Lercari, all’uscita di carica nel 1685, nel corso del sindicato che sbarrava l’accesso alla dignità di procuratore perpetuo, i Supremi sindicatori imputarono, tra altre irregolarità, di essersi intromesso nella nomina del portiere del Palazzo[14].
Ciò che rendeva cruciale il ruolo del doge era però ben altro. Anzitutto il fatto che al biennio del dogato seguisse un periodo illimitato di permanenza al governo in qualità di procuratore perpetuo: un aspetto della costituzione genovese che dal Cinquecento alla caduta della repubblica non cessò di suscitare critiche. Un anonimo polemista, negli anni sessanta del Cinquecento, azzardò che «tanto quanto vivono sono Principi nella Republica»; e altrove li paragonò ai «capi de i dieci in Venetia»[15]. Molto tempo dopo, nel 1790, Costantino Balbi li dipinse come «un corpo dentro il corpo […] un circolo dentro il circolo» dei Collegi[16]. Il ruolo dei perpetui appariva temibile e sospetto perché introduceva un elemento di immobilismo e di privilegio (ma anche di continuità nell’azione di governo, risvolto che i critici rifiutavano di riconoscere) in un sistema basato sulla breve durata e la frequente rotazione delle cariche, complicata spesso e volentieri dall’incompletezza degli organigrammi.
Per questo l’unico doge escluso dall’accesso alla dignità di perpetuo, Giambattista Lercari, uscito di carica nel 1566, venne sanzionato per il comportamento autoritario e personalistico dimostrato già durante il suo biennio di governo. «Il procedere imperioso», spiegò il contemporaneo Giovanni Salvago, «con molta ambitione et arroganza … ne la dignità duchale, esercitandolla si po’ dire in molte parti da tiranno, li causò de molte malevolentie da cittadini»[17]. E anche un altro testimone coevo osservò che il Lercari «aveva comandato troppo imperiosamente et urtato parecchi ottimati»: ma al dubbio se le «querelle» (vale a dire le imputazioni nel sindicato) gli fossero state mosse «per zelo publico o per private inimicitie» rispondeva prudentemente: «Credo che se li mischiasse di tutto un poco»[18].
Durante il biennio il doge aveva la facoltà esclusiva di proporre le leggi nelle sedute del Senato, esercitando così un potere, se non di interdizione, certo di orientamento del processo di formazione delle decisioni. Tale prerogativa non si trovava nelle leggi nel 1528 e nemmeno in quelle del 1576[19]. Era una consuetudine diventata potere di fatto, che però nessuno metteva in discussione, anche se di tanto in tanto qualche politico se ne lamentava: così Spinola in linea di principio e senza menzionare un episodio preciso; così Giambattista Raggio, negli anni cinquanta del Seicento, lamentando (ma a distanza di quasi due decenni) le manovre dilatorie di Agostino Pallavicini nel sostenere il rigoroso decreto contro Giannettino Doria, genovese al servizio della Spagna, reo di aver condotto un’azione di guerra contro la Repubblica [20].
Patrizi e burocrati
Perché l’attività ordinaria del governo era faticosa? Lo stesso Spinola ne dava una spiegazione sottile: «per non picciol spazio di tempo le occupazioni de’ Collegi son intorno a cose minute»[21]. E perché quel sovraccarico di minuzie non era stato trasferito a una diversa magistratura?
Non s’è fatto perché, conoscendo i cancellieri che dal maneggio delle cose minute e strepitose ne cavano maggiore utilità e non picciol dominio, verso massime coloro delle Riviere, tengon forte con protesti apparenti, quei gelosi dell’autorità del Senato.
Dietro le disfunzioni della quotidiana gestione del governo stava insomma la burocrazia della repubblica, impersonata al più alto grado dai cancellieri del Senato. La burocrazia genovese è l’oggetto misterioso della storia istituzionale della repubblica. Se ai magnifici, che erano amministratori a tempo parziale, si presta ormai la dovuta attenzione, a coloro che erano i veri amministratori a tempo pieno si è guardato invece poco[22]. Conosciamo perciò solo alcune opinioni di parte patrizia, invariabilmente ostili, perché protese a dimostrare come nei, per altro poco numerosi, burocrati di mestiere risiedesse il governo effettivo della repubblica. Un eloquente esempio cinquecentesco riguarda il Banco di San Giorgio, il cui corpo di burocrati, stando a testimonianze posteriori che non c’è motivo di ritenere infondate, godeva di retribuzioni più alte rispetto a quello della repubblica, alla quale sottraeva perciò alcuni degli elementi migliori[23]. Nel 1560-1561 i cancellieri e i funzionari di San Giorgio avevano attivamente boicottato il progetto del governo e dei Protettori di trasferire l’amministrazione della Corsica dal Banco alla Repubblica: per non perdere, stando al giudizio di un patrizio loro antipatizzante, le occasioni di arrotondare le prebende connesse agli incarichi nell’isola. Mobilitando la base dei comperisti e inducendone ben cinquecentosessantanove («numero mai stato simille, ni in scriptura, ni a recordi de homini, et apena li potedeno chapire, bisognando stare ne le schale et altri lochi») a intervenire all’assemblea generale delle Compere erano riusciti ad affossare la proposta. Per aggirare l’ostacolo, governo e Protettori avevano dovuto modificare autoritariamente il regolamento elettorale[24]. Nulla di paragonabile a questa mobilitazione davvero lobbistica poteva accadere a Palazzo Ducale (e diverso era l’ambito del possibile intervento: in San Giorgio si trattava di denari[25]): ma la polemica contro l’eccessiva influenza dei cancellieri era un luogo comune tra i patrizi, dal ridimensionamento del ruolo di Matteo Senarega, allora segretario del Senato, per impulso del doge Giannotto Lomellini nel 1571[26], alle pungenti osservazioni di Andea Spinola mezzo secolo dopo; dalle sprezzanti parole di Gian Francesco Doria nel 1750 alle precise accuse ad personam di alcuni consiglieri negli anni novanta del Settecento[27]. Ad Andrea Spinola pareva inoltre che i cancellieri, come estensori materiali delle leggi e vertici dell’amministrazione della Repubblica, agissero di fatto a sostegno dell’autorità dei Collegi (i dodici senatori e gli otto procuratori biennali che, assieme al doge, componevano l’esecutivo della repubblica, in base alle leggi del 1576), dal momento che quanto più questa cresceva rispetto al Minor Consiglio, tanto più decisivo diventava il loro stesso operare[28]. Una volta addomesticato completamente il Consiglietto (così veniva comunemente chiamato il Minor Consiglio) restava il ruolo ombra dei cancellieri, i soli ospiti di lunga durata di Palazzo Ducale assieme ai Procuratori perpetui.
I Magnifici al lavoro
In che cosa erano occupati i Magnifici chiamati ad affollare le sale dei consigli? Ripercorrendo, dopo la breve carcerazione inflittagli nel dicembre 1619 dai Collegi, le critiche che aveva rivolto ai governanti, ancora Spinola riconobbe:
Mi dolsi che nel Minor Consiglio non si faccesse altro che l’ellezzione de’ magistrati, occupandosi i cittadini in dar fondachi, estimarie et cavalarie; e che, se pur vi si trattava talvolta di qualche cosa grave, si facceva all’improvviso et in gran fretta, e ben spesso più per sentirne i pareri, come si usa nei principati assoluti, che per risolverla insieme con i consiglieri[29].
In questa seconda funzione, inoltre, essi dipendevano dall’iniziativa dei Collegi, che sceglievano se e quando proporre un provvedimento, e lo guidavano nel Minor Consiglio (e nel Maggiore, quando occorreva adirvi) per mezzo del cancelliere. Si aggiunga che le leggi perpetue erano poche, e che l’attività legislativa dei Consigli consisteva soprattutto nell’approvare il rinnovo, generalmente decennale, di leggi temporanee, che con il succedersi dei rinnovi finivano per diventare di fatto permanenti[30].
Per convincersi della pertinenza delle osservazioni spinoliane, basta sfogliare uno qualsiasi dei manuali nei quali i Conservatori delle Leggi annotavano l’attività dei Collegi e dei Consigli, e i suoi risultati: per esempio uno dei più antichi che siano stati conservati, quello del 1639[31].
L’anno si aprì il 3 gennaio con la convocazione del Minor Consiglio e dei Collegi: nominalmente almeno centoventi persone, in realtà centododici presenti. Il numero pieno era di fatto irraggiungibile. Quando dopo il 1652 il Consiglietto venne raddoppiato a duecento membri (prolungandone la durata a due anni con il rinnovo annuale di cento) la conseguenza fu di ridurre ancor di più la percentuale dei presenti[32]. Quanto al Maggior Consiglio, che prima della peste del 1656/1657 comprendeva quattrocento patrizi, e in seguito venne allargato a includere la massima parte dei maggiorenni non inabilitati, le sue sedute erano ancora più disertate[33]. Inoltre non era raro che i membri del Consiglietto venissero eletti a cariche che comportavano la loro sostituzione. Ne conseguiva una serie di elezioni suppletive che si aggiungevano a quelle ordinarie di magistrature intere o, più spesso, di alcuni componenti di questa o quella magistratura: sia perché le leggi prevedevano sovente la rotazione scaglionata dei membri, come nel caso dei Supremi Sindicatori, sia perché un magnifico era passato da una magistratura a un’altra e il posto rimasto vacante doveva essere riempito. Ancora: il completamento annuale dell’urna del Seminario (la rosa di 120 nomi dalla quale, in base alle leggi del 1576, a metà e fine anno si sorteggiavano i tre senatori e due procuratori che entravano a far parte dei Collegi per un biennio, rinnovati in questo modo per un quarto ogni semestre) richiedeva una procedura complessa in più fasi. Si iniziava con la designazione, mediante nomina di un candidato da parte di ciascun consigliere e successiva scrematura dei nominati, di un numero di candidati doppio di quello che per quell’anno andava scelto; seguiva la selezione dei nuovi imbussolati. che alternava designazioni nominative ed elezioni[34]. Analoga la procedura di elezione del Minor Consiglio dell’anno seguente, che occupava febbrilmente buona parte del mese di dicembre: dapprima la scelta dei Trenta elettori di ciò incaricati mediante designazione di una rosa da parte dei consiglieri uscenti e la successiva selezione degli eletti; successivamente l’attività dei Trenta consistente nel redigere le liste dei consiglieri. Come si può immaginare, il ruolo dei Trenta era di breve ancorché intensa durata e di fortissimo rilievo politico: toccava a quel pugno di oligarchi, generalmente sempre gli stessi, personaggi di Seminario che a turno venivano sorteggiati a far parte dei Collegi o eletti alle altre magistrature principali, scegliere i componenti delle assemblee alle quali essi avrebbero, se divenuti membri dei Collegi, presentato le proposte di legge[35].
I candidati all’urna del Seminario dovevano avere almeno quarant’anni. Per i componenti delle due assemblee le leggi prescrivevano età diverse e ammettevano quote in deroga. I Conservatori delle Leggi, una magistratura creata nel 1576 appositamente per attuare il controllo di legalità più immediato sulle procedure elettorali e legislative, assieme al personale permanente delle cancellerie dovevano perciò approntare continuamente liste ed elenchi di nomi, di volta in volta diversi: un materiale fondamentale per lo studio dei meccanismi elettorali che ci è pervenuto con parecchie lacune[36].
Ma gli stessi votanti dovevano avere una preliminare conoscenza di massima della condizione di eleggibilità o ineleggibilità (per limiti di età, vacanza, impedimenti di consanguineità eccetera) dei colleghi. Ciò che colpisce, tra le altre cose, nei verbali del Consiglietto è infatti lo scarso margine di errori segnalati dai verbalizzatori. Il caso forse più clamoroso è lo scambio di persone, avvenuto nel 1586 e notato ma passato sotto silenzio, tra Luca Grimaldi q. Francisci e Luca Grimaldi q. Reverendissimi: era stato imbussolato il nome del secondo, ma fu estratto quello del primo[37]. Questo fa pensare a uno scambio diffuso e permanente di informazioni riguardanti la situazione personale e la disponibilità al servizio pubblico di centinaia di membri del corpo politico della repubblica. I Magnifici, insomma, avevano di certo la testa agli affari. Ma la loro attenzione era senz’altro vigile anche a quanto avveniva a Palazzo.
Le elezioni si risolvevano raramente in una sola votazione, soprattutto se si trattava di scegliere i componenti di un’intera magistratura, o costituire una rosa di più persone. I quorum richiesti erano generalmente dei due terzi dei votanti, il che significava che per una nomina occorreva radunare il consenso di una sessantina o una settantina di consiglieri. Questo implicava alcune condizioni: una, già ricordata, doveva essere la manifestazione di disponibilità informale da parte di qualcuno; l’altra, e più importante ancora, era un quadro di riferimento che semplificasse le scelte e non riducesse ogni nomina a uno scontro di tutti contro tutti. Questo schema di riferimento non poteva essere che l’appartenenza faziosa. Essere nobili “vecchi” o “nuovi”, e nell’ambito di questi ultimi, sino a una certa data[38], appartenere all’antica suddivisione dei “mercatores” e degli “artifices” divenne, dopo il 1576, assai più un contrassegno elettorale che non un marchio di contrapposizione; fermo restando che sul terreno non della politica, ma della sociabilità, la distinzione resistette più a lungo, sin quasi alla fine della repubblica, e che gli alberi genealogici attestano il permanere per più generazioni dopo il 1576 di una certa preferenza per gli imparentamenti in un giro di casate accomunate dalla origine faziosa[39]. Sapere in anticipo che il doge doveva essere, di volta in volta, di famiglia “vecchia” oppure “nuova”, o che i Trenta elettori andavano infallibilmente scelti per metà tra i “vecchi” e per l’altra metà tra i “nuovi”, o che i nomi da inserire ogni anno nell’urna del Seminario dovevano anch’essi essere ponderati con attenzione, garantiva il rispetto del compromesso del 1576, e rappresentava un potente strumento di semplificazione del sistema politico della repubblica. Non si spiegherebbe altrimenti perché questo attento dosaggio delle nomine per fazioni e per famiglie sia rimasto in piedi, nelle sue linee portanti, anche quando, nel pieno e tardo Settecento, ogni ricordo delle antiche rivalità era svanito, e una famiglia che un tempo era stata inequivocabilmente di parte “nuova” come i Durazzo poteva figurare in primissima fila tra le casate dell’oligarchia.
Pochi tra i magnifici andavano volentieri a governare il Dominio di Terraferma e la Corsica. Per giunta la fama di quanti andavano non era lusinghiera: parecchi di coloro che si sobbarcavano una trasferta annuale nelle riviere o nell’Oltregiogo o ancor peggio un soggiorno biennale in Corsica erano significativamente chiamati «mangiatori»[40].
La scelta di questi personaggi era laboriosa. Poiché l’anno amministrativo dei giusdicenti del Dominio cominciava il primo di maggio, le operazioni elettorali occupavano i mesi di febbraio e marzo, con la formazione delle rose di quattro candidati per le giurisdizioni principali (quelle che gli oligarchi si riservarono per tutta la durata della repubblica, come sedi nel contempo più prestigiose, più delicate e forse anche più comode, essendo le più prossime alla capitale) e di due per quelle minori e minime[41]. Per le prime infatti si doveva mettere in conto la possibilità di rifiuto dell’eletto, se questi decideva di richiedere di «essere scusato», e spesso, subito dopo, anche quella di ottenere il rimborso della penale pagata per la ricusazione della carica. Per le giurisdizioni minori e per gradi come quelli di comandante o ufficiale (“gentiluomo di poppa”) sulle galee della repubblica, o anche per cariche di ambito urbano di qualche ricaduta lucrosa, come quella di fondachiere del vino, c’era invece concorrenza tra i patrizi meno fortunati, i cosiddetti nobili poveri. «Broglio» era detta la sollecitazione dei voti. Ma, come aveva osservato il solito Andrea Spinola, questa pratica poteva avere significati esattamente opposti. In uno spirito veramente repubblicano il chiedere con modestia i voti dei colleghi (come egli riteneva avvenisse a Venezia, consueta pietra di paragone) era una manifestazione di umiltà: anche i più ricchi e influenti oligarchi si abbassavano a chiedere il suffragio dei colleghi meno fortunati presentando le proprie benemerenze. Poteva essere però, e di fatto era diventata, a seconda della posta in gioco, una manifestazione di influenza o di sottomissione clientelare: chi voleva essere eletto a una carica alla quale teneva per sé o per una persona amica prometteva ricompense; chi aspirava a una carica periferica si umiliava per ottenere uno stipendio e un’occasione di lucro a scapito dei “popoli”[42].
I magnifici, anzi i membri dei Collegi in persona, erano impegnati anche nella nomina dei componenti le esigue forze della burocrazia e della polizia del Dominio: scrivani, sottoscrivani, “cavalieri”, bargelli di campagna, bargelli di città. Nessuno ha mai tentato, forse anche per l’evidente difficoltà del compito, una prosopografia di questi ranghi inferiori dell’apparato statale genovese. Eppure, le ricorrenze dei cognomi, che dissimulano le ulteriori, prevedibili parentele acquisite, lasciano immaginare un sottobosco di dinastie di uomini di mano e di ufficio che non è azzardato supporre avessero qualche legame di clientela con i membri del patriziato. Una testimonianza maliziosa proviene da Antonio Roccatagliata, che a proposito dell’elezione dei capitani delle fanterie in Corsica nel 1586 affermò che «si conferirono non già a’ più meritevoli, come spesso interviene, ma a’ più favoriti da’ Senatori, quali in compartire queste cure non attendevano ad altro che a soddisfare gli appetiti loro»[43]. Nicolò Monleone podestà di Framura e Gio. Ambrogio Monleone scrivano di Porto Maurizio nel 1639/40 erano soltanto omonimi? E che pensare di Gregorio Rimassa podestà di Castiglione (chiavarese) e di Bartolomeo Rimassa scrivano di Moneglia nello stesso anno[44]? I legami tra gli ascritti e i non ascritti sono l’aspetto forse più elusivo della struttura politica genovese di antico regime. Di certo, però, non si spiega la lunga durata con scarse scosse del governo dei pochi senza dare per scontata l’esistenza di una rete tanto sfuggente ai nostri occhi, quanto estesa e capillare, di solidarietà verticali. Quel tessuto di reciprocità di obblighi e condiscendenze tra governanti e governati per alcuni di questi ultimi si concretizzava semplicemente in modesti impieghi domestici e per altri nell’accesso a funzioni di sottogoverno della repubblica.
L’anno politico era particolarmente fitto di impegni nei primi sei mesi, si trascinava sino a ferragosto, e poi lasciava il posto alle ferie autunnali, che si protraevano sino ai Santi. Novembre e dicembre tornavano ad essere mesi ricchi di attività. Nel complesso, la politica occupava una parte assai cospicua del tempo dei patrizi che venivano eletti a una delle molte cariche della repubblica (alle quali si aggiungevano, non lo si dimentichi, quelle del Banco di San Giorgio) o alle assemblee.
Chi e come diventa doge
Le procedure erano ancor più complicate nel caso dell’elezione del doge. Dal 1528 al 1797 venne praticata un’alternanza di massima, nella carica, tra un esponente di famiglia “vecchia” e uno di famiglia “nuova” (che erano poi le denominazioni applicate dopo la riforma del 1528 rispettivamente agli ex nobiles e agli ex populares). Per meglio disciplinare il sistema si pervenne alla designazione di rose di candidati appartenenti tutti alla stessa fazione. Questo espediente venne reso definitivo nella prassi (con le eccezioni che si diranno[45]) a partire dall’elezione di Ambrogio Di Negro, nel 1585, al termine di un braccio di ferro imposto dai “vecchi”:
Perché essi non volevano in guisa veruna acconsentire che nel numero de’ sei si ammettesse alcuno de’ nuovi […] e ciò per accautelarsi tanto più che nel maggiore Consiglio non si elegesse altro Duce fuor che dalla lor banda[46].
Per ironia della sorte tutti, “vecchi” e “nuovi”, si mostrarono poi scontenti della scelta fatta nella persona del Di Negro, almeno a dar retta alla penna impertinente di Antonio Roccatagliata, che lo consegnò agli annali cittadini avvolto da una luce persistentemente negativa: «altiero e superbo fuori di maniera», «poco frequente nel Senato e molto negligente nelle faccende publiche», tanto che la sua uscita di carica fu salutata «con intiera allegrezza di tutti i cittadini»[47]. In caso di decesso del doge durante munere, si procedeva all’alternanza se il doge aveva compiuto la metà del mandato: accadde nel 1699, quando Geronimo De Mari succedette a Francesco Maria Sauli, e nel 1773 quando Ferdinando Spinola succedette a Giambattista Cambiaso. Altrimenti si eleggeva un altro candidato della stessa fazione: così nel 1607 con Silvestro Invrea e Geronimo Assereto, e nel 1661 con Giambattista Frugoni e Antoniotto Invrea, dogi “nuovi”; nel 1621 con Ambrogio Doria e Giorgio Centurione, e nel 1642 con Gio. Agostino De Marini e Giambattista Lercari, dogi “vecchi”. Come a Venezia, la rosa dei sei candidati veniva composta per scremature successive affidate dapprima alla sorte e poi a votazioni alternate del Consiglio Minore e Maggiore. E non era detto, ovviamente, che chi faceva registrare un gradimento maggiore nelle prime votazioni spuntasse il successo finale. Nel 1661 Antoniotto Invrea prevalse sebbene fosse passato senza distinzione attraverso le prime selezioni. In qualche caso l’elezione era invece un successo annunciato, come nel 1685, quando Pietro Durazzo apparve sin dall’inizio il candidato inevitabile per simboleggiare l’accomodamento della repubblica con la Francia[48]. Il fatto che le rose dei candidati fossero ogni volta monocolori non spegneva la competizione, ma si limitava a restringerla nell’ambito della fazione. Per contro, le emulazioni tra membri della stessa fazione (in genere quella dei nobili “vecchi”) potevano rivelarsi particolarmente aspre. Le manovre tra Ambrogio Spinola e Cosmo Centurione, da una parte, e il principe Gian Andrea Doria, dall’altra, durante l’elezione dogale del 1597, quando Lazzaro Grimaldi Cebà, portato dai primi, prevalse su Agostino Doria, candidato del principe, vennero non a caso ricordate dall’annalista Antonio Roccatagliata[49]. Le operazioni potevano concludersi molto rapidamente, come era la regola, per evitare una pericolosa vacanza di potere, oppure protrarsi per settimane, come nel 1667 (elezione di Cesare Gentile) e nel 1669 (elezione di Francesco Garbarino). Nel primo caso il completamento del sestetto finale era stato laboriosissimo: Gio. Stefano Centurione e Gerolamo De Marini avevano aspramente conteso il terreno al Gentile. Nel secondo caso il concorrente alternativo al Garbarino era stato Gio. Giorgio Giustiniani. In entrambe le occasioni i candidati sconfitti erano figure in qualche modo ricollegabili all’orientamento navalista e repubblichista: nell’asprezza della competizione si può pertanto leggere un significato politico che trascendeva l’ambizione personale e familiare. Verso la fine della repubblica le elezioni richiesero solitamente tempi più lunghi: ma il personale disponibile era allora cronicamente scarso e nel contempo il peso specifico dei Procuratori perpetui era diventato se possibile ancor più rilevante[50]
Per effetto della diversa forza dei parentadi e delle reti di infuenza, oltre che di circostanze specifiche, alcune casate finirono col risultare sovrarappresentate nella carica, mentre altre ebbero poco risalto. Tra i “nuovi” delle casate emerse per prime sulla ribalta politica cittadina (le famiglie protagoniste della scissione faziosa del Trecento e dell’estromissione dei nobili dal vertice del Comune, perciò denominate dagli scrittori politici dell’età moderna “case del primo governo”), i De Franchi sommarono sette dogi. Ma li superarono i Durazzo, capifila delle famiglie che nel pieno e tardo Cinquecento giunsero al culmine degli onori pubblici. I Durazzo poterono vantare tra il 1573 e il 1767 otto dogi, un risultato all’altezza dei Grimaldi (nove), dei Lomellini (sette) e dei Doria (sei), e superato soltanto dai numerosissimi Spinola (undici). Invece, nessun doge Fieschi, forse a causa del ricordo della congiura del 1547 (un cui strascico durevole fu l’esistenza di un ramo fuoruscito in Francia che rivendicava il diritto alla restituzione dei possessi confiscati ai cospiratori) e forse anche perché la casa aveva una consistenza numerica modesta. La famiglia espresse, al più, dei candidati, come Ugo Fieschi, entrato nella rosa finale nel 1667 e nel 1675, ed Ettore Fieschi nel 1723. Ma non fu mai eletto doge nemmeno un Serra, senza che per questa famiglia valessero le ragioni che ostacolavano i Fieschi: al contrario, tra Cinquecento e Seicento i Serra furono impeccabilmente “spagnardi” e coinvolti sino al collo nei prestiti ai re Cattolici; nel Settecento erano rimasti filoasburgici, e perciò di parte imperiale. Chi di loro si avvicinò maggiormente al dogato fu Domenico Serra, candidato sfortunato nel 1789. I Balbi, in piena ascesa nel primo Seicento, quando avviarono la costruzione della loro strada eponima, dopo l’infortunio della congiura di Gio. Paolo Balbi (1648) dovettero attendere ottant’anni per raggiungere il dogato due volte nello stesso decennio, con Francesco Maria (1730) e Costantino (1738)[51]. Un solo Saluzzo, Agostino, vestì la toga scarlatta, nonostante le aderenze e l’opulenza della famiglia; e nessun Raggio vi riuscì.
Le leggi del 1528 e del 1576 omisero di escludere che il doge potesse essere rieletto, forse perché nel patto fondatore della repubblica oligarchica era sottinteso il rispetto di un rigoroso principio di rotazione nel governo, beninteso tra i pochi. Assume perciò un significato quasi simbolico il fatto che proprio l’ultimo doge, Giacomo Maria Brignole, eletto nel novembre 1795, sia stato il primo e il solo ad aver già ricoperto la carica, nel 1779-1781. L’inclusione nella rosa dei candidati al dogato di un procuratore perpetuo si era però verificata già nella tormentata elezione del 1597, quando i seguaci del principe Gian Andrea Doria avevano imposto l’ex doge David Vaccà, uomo di parte “nuova” ma legato al principe, in una rosa di “vecchi”[52]. Un secolo dopo l’ex doge Pietro Durazzo (1685-1687) venne reinserito due volte nella rosa dogale, nel 1693 e nel 1697, ottenendo anche buoni risultati. Ma se c’erano dogi che non riluttavano all’idea di un secondo mandato, altri erano pronti a rinunciare alla carica, cosa che le leggi non vietavano. Al doge nulla impediva di dimettersi. Aveva meditato di farlo Agostino Pallavicini nel 1639, logorato dal contrasto con i Supremi Sindicatori: ironico contrappasso per chi si era presentato come un uomo forte[53]. Si dimisero davvero due dogi settecenteschi: il religiosissimo Stefano Lomellini per prendere i voti, nel 1752, e l’anziano Ferdinando Spinola nel 1771.
Eleggere il doge (1633)
Non c’è modo migliore di illustrare le procedure messe a punto dalle Leggi di Casale per scegliere il primus inter pares degli oligarchi che raccontare come si svolgeva un’elezione dogale[54]. Quella del 1633, per esempio, che ebbe per sfondo una congiuntura politica interna ed estera assai delicata[55]. La repubblica non aveva ancora stipulato un trattato di pace con il duca di Savoia che chiudesse formalmente la guerra del 1625, anche se da anni erano in corso trattative diplomatiche triangolari, con la Spagna come mediatrice. Ma proprio i rapporti con la monarchia cattolica si erano fatti tesi, dopo la bancarotta del 1627 e le incomprensioni tra il governo genovese e le autorità spagnole a proposito della politica da seguire nei confronti del duca di Savoia. A sua volta, la Francia stava attivamente cercando di ristabilire le relazioni con la repubblica, e aveva inviato a Genova un gentiluomo, Melchior de Sabran, con l’obiettivo di istituzionalizzare una qualche forma di rapporto diplomatico e sondare l’atteggiamento del patriziato[56]. L’ambasciatore spagnolo presso la repubblica, il portoghese don Francisco de Melo, era stato incaricato da Olivares di censire le opinioni e gli orientamenti dei patrizi genovesi nei confronti della Spagna. L’elezione del nuovo doge cadeva in questo contesto, nel quale per la prima volta tra i Magnifici, e proprio nei Consigli e nei Collegi, l’orientamento “repubblichista” sembrava in grado di prendere il sopravvento e minacciava di cambiare le direttrici della politica genovese. Poiché il doge uscente, Leonardo Della Torre, era di famiglia “nuova”, la carica spettava all’esponente di una famiglia “vecchia”. Preoccupato, de Melo avvertiva Olivares del rischio che dall’urna uscisse il nome di Agostino Pallavicini, considerato un capofila dei «mal afectos a Su Magestad». Gli spagnoli puntavano su Gian Stefano Doria, ricchissimo (la sua fortuna passava per una delle più cospicue d’Italia) e influente, sicuro «bien afecto», il quale informò con tatto l’ambasciatore che, se voleva davvero aiutarlo a guadagnare la corona dogale, doveva accuratamente evitare di presentarlo come l’uomo della Spagna. Le operazioni elettorali iniziarono con il sorteggio delle banche del Maggior Consiglio tra le quali i «pallottatori» avrebbero fatto circolare un’urna contenente, tra le altre, cinquanta sfere d’oro. Sulle banche i Magnifici sedevano più o meno affollati: nella prima dal principio della sala stavano in trentadue, nella terza in quattordici. I cinquanta che estrassero le «balle d’oro» procedettero a nominare venti candidati, tra i quali il Maggior Consiglio selezionò una prima rosa di quindici nomi. Dai quindici il Minor Consiglio doveva selezionarne sei, con i tre quinti dei voti; da quest’ultima rosa il Maggior Consiglio avrebbe infine eletto il doge. Nel designare i primi venti, coloro che avevano sorteggiato la sfera d’oro si ripeterono spesso: dieci di loro designarono Gian Stefano Doria (il più votato) e quattro Agostino Pallavicini; ma anche altri candidati ricevettero un sostegno significativo: cinque designazioni ottenne Giambattista Lercari, quattro Opicio Spinola. Era già l’avvisaglia di chi avrebbe corso per la corona dogale. Curiosamente, benché il dogato spettasse ai nobili “vecchi”, furono nominati anche tre “nuovi”: Giambattista Durazzo, Giambattista Saluzzo e Ottaviano Canevari. Altra anomalia: tra i nominati figurava l’ex doge Giacomo Lomellini, anch’egli esponente di rilievo della corrente “repubblichista”. Nella riduzione dei candidati da venti a quindici caddero due dei “nuovi” e il Lomellini, ma non Giambattista Durazzo, che passò assieme a quattordici “vecchi” all’esame del Minor Consiglio. In questa assemblea, dal 2 al 9 luglio, si svolse il vero scontro. Alla prima seduta dovevano presenziare centoventitrè persone: i cento consiglieri e ventitrè membri dei Collegi. Risposero all’appello in centodiciannove, che nei giorni seguenti scesero di qualche unità. Il quorum dei tre quinti per accedere al ballottaggio finale si raggiungeva con settantadue suffragi. Alla prima votazione l’anziano Opicio Spinola ne ottenne uno in più e inaugurò la rosa. Poi, però, per dodici sedute e sessantatrè votazioni nessun altro nome riuscì a raggiungere il quorum, anche se Gian Stefano Doria risultava costantemente il più votato, sopravanzando di non molto Agostino Pallavicini e Giambattista Lercari. Alla tredicesima seduta, la mattina di sabato 9 luglio, lo stallo finì. Quel giorno, alla quarta votazione passò Doria; alla quinta i restanti componenti la rosa (tutta di “vecchi”, anche se Durazzo mantenne sino alla fine un manipolo di sostenitori), che lo stesso pomeriggio fu presentata al Maggior Consiglio. Erano presenti trecentotrentacinque consiglieri, Collegi inclusi: vale a dire che mancava all’appello quasi un quarto dei componenti dell’assemblea che a norma di legge faceva figura di Principe. Si votava distintamente per ciascun candidato: Doria ottenne centottantacinque suffragi; Lercari fu secondo con centotrenta; a Pallavicini ne andarono centoventitrè. Gli spagnoli tirarono un respiro di sollievo. Ma Pallavicini non dovette attendere molto il suo turno, che venne già nella successiva elezione di un doge “vecchio”, nel 1637.
Nel Dominio e in Corsica
L’elezione dei dodici giusdicenti principali comportava anch’essa una procedura complessa[57]. Restiamo all’esempio del 1639. Il mattino del 15 marzo il Minor Consiglio si riunì per votare le rose dei quattro candidati, scegliendoli da rose molto più ampie, di venti e più nomi. Alcuni di questi, come notarono debitamente i segretari, erano ineleggibili, perché minorenni, già membri di altre magistrature o soggetti a vacanza perché giusdicenti nello stesso luogo negli anni immediatamente precedenti. In tutti i casi i quattro candidati uscirono alla prima votazione; solo per il capitano di Chiavari ne occorsero due. Le votazioni vennero esaurite in quella stessa mattina. Alcuni nomi furono proposti per più di una giurisdizione: Urbano Raggio venne nominato per Porto Maurizio, Chiavari, Spezia, Levanto ed entrò nelle rose delle prime tre giurisdizioni; Paolo Geronimo Torriglia fu approvato per Porto Maurizio e Spezia (e fu poi destinato a quest’ultima località); Cornelio De Ferrari per Chiavari e Sestri. L’elezione dei giusdicenti maggiori venne sbrigata il 17 marzo nel Maggior Consiglio. A partire dal 2 magggio, dopo che ebbe inizio l’anno amministrativo dei giusdicenti del Dominio, gli eletti che avevano fatto parte del Minor Consiglio o di magistrature che non avevano il privilegio di leva rispetto agli incarichi di giusdicente vennero surrogati. Così Gaspare Franzone, eletto capitano di Polcevera, fu sostituito con distinte votazioni nel Consiglietto e nel magistrato dei Conservatori del Mare. Leonardo Spinola, nuovo capitano di Sestri, fu surrogato nei Conservatori delle leggi. Niccolò Zoagli, capitano di Chiavari, lasciò il posto nel Magistrato degli Straordinari a Cesare Durazzo. Si noti che i personaggi citati erano spesso destinati a brillantissimi traguardi: Cesare Durazzo, il capo della casata, sarebbe stato doge nel 1665. Altri erano già titolari di cursus honorum ragguardevoli. Cornelio De Ferrari, per esempio, nel 1639 era un sessantenne estratto già tre volte nei Collegi, dove sarebbe rientrato una quarta volta. Si trattava in ogni caso di esponenti di rilievo delle rispettive famiglie, impegnati sul versante privato in un’intensa attività d’affari.
Alcuni incarichi nel Dominio erano conferiti direttamente dal Consiglietto; altri ancora dai soli Collegi. Si trattava nel primo caso di incarichi di scrivano (di norma non ascritti) oppure di vicario (incarico quest’ultimo riservato a uomini di legge, immancabilmente contraddistinti dal titolo di “spettabile”) o anche di podestà nelle località meno importanti e di comandante delle fortezze minori (cariche attribuibili ad ascritti e non ascritti). Così il podestà di San Romolo (cioè Sanremo: una sede che sarebbe nel tempo cresicuta considerevolmente di importanza), il castellano di Sarzanello, il vicario di Recco, lo scrivano di Polcevera e una quarantina di altri incarichi passarono sotto i voti del Consiglietto nelle mattinate del 22 e del 23 marzo. Una settimana dopo, il 29, i soli Collegi procedettero ad attribuire una novantina di uffici minimi: le cariche di bargello e cavaliere (vale a dire i comandi delle forze di polizia nel Dominio) e una raffica di podesterie, castellanie, scrivanie e sottoscrivanie: le articolazioni dell’apparato statale della repubblica in Terraferma più basse e periferiche, ma, nel caso dei comandi di fortezze, non disdegnate da patrizi di cognome illustre e di scarsa fortuna, come Gio. Francesco Fieschi, castellano di Portofino, e Paolo Foglietta (omonimo discendente del poeta), castellano di Ventimiglia[58]. Nell’assegnazione della cariche, anche quando erano elettive, sappiamo che c’era margine per manipolazioni, materialmente eseguite dai cancellieri ma verosimilmente pilotate da patrizi influenti. Ecco un espediente svelato da Andrea Spinola:
E’ già accaduto, essendo più concorrenti ad un ufficio, si erano lette le patenti di tutti alla mattina, differendosi al doppo pranso lo prenderci sopra li voti del consiglio che lo conferiva. Venutosi poi a farlo, furono lette di nuovo le patenti di uno, o di due; ma delli altri no, e passandosela il Cancelliero con dire, Signori le lor patenti sono state lette questa mattina. Come si vede, li due hebbero avantaggio, e che ne sia il vero, l’ufficio tocò ad uno di loro: et al sicuro che tocava ad altri, se tutte le patenti fossero state rilette egualmente[59].
Procedure analoghe venivano seguite per le elezioni alle cariche del regno di Corsica, salvo che venivano anticipate a gennaio. Per il governatore e i commsisariati principali si costituivano con voto del Consiglietto le quaterne di candidati da proporre al Maggior Consiglio. Per gli incarichi minori bastava una votazione dello stesso Consiglietto. Prendiamo a esempio le elezioni del 1664[60]. Per primo fu scelto il governatore: incarico prestigioso che, come le altre principali funzioni di governo, veniva assegnato alternativamente a un nobile “vecchio” e a un nobile “nuovo”. Nel 1664 era il turno di un “vecchio”, che fu Cristoforo Spinola q. Cristoforo. Lo stesso giorno, sabato 26 gennaio, furono scelti i commissari di Ajaccio, Calvi e Bonifacio. Il lunedì seguente il Minor Consiglio elesse il capitano e commissario di Capraia (l’isola era amministrativamente inclusa nel regno di Corsica), il luogotenente di Sartene, il massaro del regno. Il martedì mattina, sbrigata l’elezione dell’Ufficio dei Poveri, toccò al vicario e al cancelliere di Ajaccio e al luogotenente di Aleria. Nel pomeriggio fu assegnata una decina di cariche, dalle luogotenenze di Balagna e di Capocorso alla custodia delle carceri di Bastia. Il giovedì i soli Collegi e l’Ufficio di Corsica distribuirono le cariche minori: vicariati, cancellerie, cariche di munizioniere e cavallerie. Ultima, e isolata, la luogotenenza di Vico fu assegnata il 12 febbraio. In tutto diciassette cariche attribuite a patrizi, e sedici a non nobili. Non si esauriva in questi numeri la presenza di funzionari genovesi in Corsica; ma anche aggiungendo il seguito del governatore, e coloro che accompagnavano gli altri giusdicenti principali, la struttura del governo della repubblica nell’isola era singolarmente scarna[61]. Per giunta, come rivelano i cognomi degli eletti e si trova testimoniato a profusione nella pubblicistica politica, ancor più di quanto non accadesse nel Dominio di Terraferma, in Corsica andavano i magnifici meno provvisti di opportunità e più disposti ad accettare una destinazione che, non casualmente, figurava nella gamma delle pene da infliggere ai banditi.
I verbali dicono chi veniva nominato a concorrere e chi veniva eletto alle cariche. Non dicono come. Lasciamo ancora una volta la parola ad Andrea Spinola, per vedere in qual modo il meccanismo delle nomine poteva essere manipolato. Intanto, i Collegi avevano una parte preponderante nelle nomine alle cariche: e anche in questo caso per il poco interesse dei consiglieri:
Le Signorie loro fan dir dal cancelliero che chi vuol nominare vada là su, a farlo: ma li cittadini, fra lo curarsi poco et un certo rispetto scioco e puerile, non ci vanno altrimente o molto di rado: per onde si lascia all’arbitrio delli collegii uno de’ punti più principali, che siano nel governo.
Inoltre, alcuni declinavano le nomine, e lo facevano circolare tra i colleghi per mezzo del sottocancelliere incaricato di raccogliere le designazioni. Quando non ricorrevano a un artificio più sottile:
Per esempio, io non vorrò essere eletto del tal magistrato; acciò mi riesca il non esserlo, prego ad un Senatore, che mi nomini il primo; col che, se altri vuol nominarmi, gli dice colui che scrive la lista che di già ero stato nominato. Finito di scriversi li nomi de’ ricordati, il Senator che si è fatto instromento del giuoco che io fo al publico, chiama a sé il scrittore, dicendogli che mi scancelli, non volendo più nominarmi, e così egli fa. Leggesi la lista de’ nominati ad alta voce, et in ultimo si dice, era stato ancor nominato il magnifico A. ma si è levato, di volontà di chi l’haveva fatto scrivere.
Spinola spiegava la disaffezione alle cariche proprio con la mancanza di un vero e proprio percorso ascendente, una «graduatione» degli onori pubblici: «Perché lo star sempre in un luogo dà noia, e lo tornar in dietro fa fuggir la voglia di servire»[62]. Quel che Spinola lamentava, considerandolo un deterrente all’impegno civile dei suoi consorti, era insomma la casualità delle nomine: un personaggio che era già stato senatore poteva trovarsi in corsa per un governo nel Dominio; per contro, c’era chi non poteva ambire ad ascendere alle più alte cariche pubbliche. L’idea di istituzionalizzare una vera e propria progressione della carriera politica venne ripresa ancora nel Settecento, senza successo[63]. Sembra però di poter osservare, sull’arco dei due secoli e mezzo di governo oligarchico, che a percorre un cursus honorum ad alti e bassi era solo una parte del patriziato, quella fascia media nella quale non a caso Spinola individuava il suo ideale di cittadino di repubblica. Ma assume un risalto anche maggiore l’esistenza di due gironi di carriere ben distinti: una carriera ai vertici, alla quale accedevano assai presto i membri delle casate più influenti; e una carriera ai livelli bassi, riservata ai patrizi meno fortunati, che invecchiavano tra comandi militari e piccoli governi nel Dominio e in Corsica.
Votare e parlare
Il Consiglietto aveva anche la facoltà di approvare o revocare condanne. Per esempio, i consiglieri potevano trovarsi chiamati a decidere sulle pene che la Giunta contro i banditi proponeva per i rei di propria competenza. Il 7 aprile 1639 il centinaio di magnifici presente nella sala del Minor Consiglio decise la sorte di un manipolo di malfattori. Tra gli altri, Francesco Dodero, soprannominato «fanciullo», «latrociniis et pessimis moribus famosus», si guadagnò tre anni di remo in galea; Gian Domenico Ballarino sei: ed era una condanna pesante, specie in quella congiuntura di crociere frequenti e di competizione tra le galee di catena e quelle di libertà[64]. Andrea Bertolotto, ladro e vagabondo, fu condannato a quattro anni di relegazione in Corsica. Fosse un caso dubbio o godesse di protettori influenti, Andrea Calzamiglia, «siccarius», scampò a una condanna a due anni di galea: il Consiglietto accedette alla più mite richiesta di tre anni di relegazione in Corsica.
Ma la legge detta dei biglietti, o dell’ostracismo, attribuiva al Consiglietto il potere di esiliare per un biennio gli stessi patrizi che la pubblica voce, tradotta in un congruo numero di designazioni anonime poste in un’apposita urna nel corso di una seduta del Consiglietto a ciò destinata una volta al mese, considerava perturbatori dell’ordine[65]. Per un verso, il ricorso alla designazione anonima rientrava nella prassi, diffusissima a Genova (ma non solo) di affidare alla segnalazione informale una vasta gamma di comunicazioni tra chi governava, fosse il senato, le assemblee, o una singola magistratura, e chi era governato. In questa seconda categoria poteva rientrare teoricamente chiunque. Di fatto essa si restringeva non solo alla frangia alfabetizzata della popolazione che ruotava attorno al Palazzo, ma più specificamente e più spesso al solo ceto patrizio, al corrente dei fatti e dei misfatti, anche privati, dei consorti. Le buche aperte sui muri dei cortili del Palazzo, e i calici collocati nelle sale dei consigli e anche durante le sedute dei Collegi ricevevano un regolare flusso di «lettere orbe» che ha fatto da sempre la gioia degli studiosi del costume, per la miniera di notizie di cronaca nera e bianca che sciorina. Solo da poco il contenuto dei calici e delle cassette è stato preso in considerazione come un significativo canale di comunicazione politica e un veicolo di espressione dell’opinione pubblica patrizia[66]. Nelle intenzioni deterrente dei comportamenti devianti dei patrizi, e nell’applicazione modo di disciplinare spicciativamente giovani, e non solo giovani, turbolenti o facinorosi, la legge dei biglietti poteva prestarsi a coprire di volta in volta accordi e regolamenti di conti sottobanco tra le parentele; ed era più facile che a essere puniti fossero personaggi marginali. Eppure, anche rampolli di casate illustri furono colpiti dal provvedimento. Certo, una volta votata la relegazione non mancavano le richieste di dimezzamento della pena o di commutazione del luogo di esilio per venire incontro agli interessi del condannato: ed entrambe le grazie venivano sovente accordate.
Una speciale seduta venne dedicata, a partire dal 1669, all’espressione dei «ricordi di mese». Una volta al mese, infatti, i membri del Consiglietto si riunivano appositamente per esprimere pareri e proposte critiche e richieste di chiarimento o di intervento, rivolte ai Collegi ma talvolta da questi smistate alle magistrature competenti[67]. Spesso al «ricordo» non seguiva alcun provvedimento. In altri casi esso veniva invece sottoposto all’attenzione di una delle Giunte di governo o di una magistratura, che rispondeva in merito.
La seduta dei ricordi di mese ritualizzava e rendeva periodica una delle prerogative che il pensiero repubblicano genovese riteneva da sempre connaturata al modo di governo libero, vale a dire la libertà di parola in Consiglio. In realtà, l’espressione di un parere era soggetta alle limitazioni del galateo politico, cioè il rispetto della dignità dei Collegi, e soprattutto alla tendenza dei Collegi stessi a non ammettere contraddittori fastidiosi. L’intero processo di formazione delle decisioni del sistema repubblicano genovese (come di ogni sistema repubblicano di antico regime) era rovesciato tanto rispetto ai modelli classici quanto alla prassi parlamentare moderna. L’iniziativa legislativa partiva dall’alto, dai Collegi, per il canale esclusivo del doge. La parola veniva accordata dai Collegi per bocca del segretario di turno: e nell’accordarla, in occasioni delicate come le discussioni dei progetti di legge, veniva usata qualche accortezza.
Quando li Serenissimi Collegii desiderano che alcuna cosa sia approvata dalli consigli, ― riferisce Andrea Spinola ― sogliono chiamar a parlar coloro che san di certo, o pensano essere del parer loro, dividendo le parti in modo, che chi comincia e chi finisce di ragionare l’inttenda a lor modo[68].
Nessun consigliere poteva parlare senza permesso, né poteva esprimersi del tutto liberamente. Andrea Spinola, ad esempio, subì una breve carcerazione, nel dicembre 1619, per essere stato trovato colpevole di impertinenza. Nel suo racconto, così andarono le cose. Un giovedì mattina, in Minor Consiglio, egli intervenne a parlare contro la proposta di non ascoltare il parere dell’avvocato fiscale quando si proponevano ai consiglieri grazie ai condannati, affermando che negli anni precedenti «si erano fatte delle grazie infelici et infami». Il sabato mattina venne fermato per strada dal «tragetta» (il messo del Palazzo), che gli comunicò una convocazione davanti ai Collegi. Questi lo ricevettero d’urgenza e lo imputarono, per bocca del cancelliere, di «imprudenza e d’immodestia». Alla replica di Spinola, i Collegi lo fecero chiudere nel carcere segreto, dal quale lo liberarono dopo cinque giorni. Spinola non fu né il primo né l’ultimo a venir ripreso per avere mancato di rispetto ai Collegi. Fu il solo, però, che da un incidente tutto sommato banale nella vita di un politico impegnato a osservare e commentare quotidianamente l’operato dei governanti traesse lo spunto non soltanto per un appello ai Supremi Sindicatori (una istituzione di controllo della legalità), ma anche e soprattutto per un’eloquente difesa della libertà di parola dei consiglieri[69]. Nel libello che diffuse pochi mesi dopo a commento della sua carcerazione Spinola descrisse la prassi vigente nel Consiglietto ed espresse dei principi ad essa opposti. Stando alle stesse leggi fondatrici della repubblica, il buon governo prevedeva che la libertà di parola dei consiglieri fosse ben accetta anche e soprattutto se critica[70]. Nella prassi, i Collegi dominavano i lavori del Minor Consiglio al di là e al di fuori dello spirito e della lettera delle leggi del 1576. Il tema era caro a Spinola, che vi ritornò spesso. «In primis, se alcuno parla contro all’opinione de’ Serenissimi Collegii», ebbe a scrivere prima dell’episodio che gli costò la carcerazione, «avvien talvolta che mettendo il piede in fallo si senta dir sul volto ch’egli è fuor della posta». Non solo:
Volendo alcuno non chiamato parlare ne’ consigli publici, il doge si ha preso autorità di mandargli a dire che taccia, mettendo poi il partito che chi vuol conceder licenza al tale che parli, dia il suo voto favorevole. Ciò fu direttamente contrario alla libertà, non dovendosi né potendosi impor silentio a cittadini … E se pure, nel caso che habbiamo per le mani, si fosse dovuto proibire al cittadino il parlare, era ubbligato il doge a propor al rovescio, dicendo che chi volea che il cittadin non parlasse desse il suo voto[71].
Spinola stesso ― va però aggiunto ― intendeva la libertà di parola dei consiglieri limitata alla fase dibattimentale: una volta presa una decisione, il patriziato doveva sembrare unito nel consenso e unito dichiararsi alla cittadinanza, anche tradendo la verità[72]. L’ideologia dell’unione, vale a dire della concordia del corpo nobiliare nella Repubblica rinnovata dalle leggi del 1528 e del 1576, finiva col piegare verso il culto dell’unanimità, almeno ad uso esterno.
Spinola sembrava implicare che, non fosse stato per le prevaricazioni dei Collegi, il Consiglietto si sarebbe dimostrato una palestra di oratoria repubblicana, anche se ammetteva che molti tacevano di propria iniziativa, attribuendo questo comportamento alla scarsa educazione politica dei suoi consorti. I verbali delle sedute dei ricordi di mese su un arco di oltre un secolo dimostrano però che a prendere la parola furono sempre pochissimi personaggi, generalmente gli stessi da una seduta all’altra, spesso e volentieri loquaci, ma non necessariamente rappresentativi di forti correnti di opinione all’interno dell’oligarchia. I membri di una casata influentissima come i Durazzo, per esempio, brillarono per la loro sostanziale assenza di interventi nella seduta dei ricordi di mese[73]. Ma i loro silenzi dovevano essere più eloquenti di molte perorazioni.
Un patriziato repubblicano
Gli abitanti e i frequentatori di Palazzo Ducale furono così alieni dal cercare di promuovere la propria immagine politica e hanno lasciato testimonianze impietose e autocritiche così numerose, che si fatica a comprendere come un governo i cui reggitori si flagellavano tanto spesso e volentieri abbia potuto attraversare tutta l’età moderna e cedere soltanto di fronte allo sconvolgimento epocale provocato dalla Rivoluzione francese, che del resto abbatté regimi di mitica solidità e perfezione. L’ultima parola sul governo dei magnifici, quello di Palazzo Ducale e quello di Palazzo San Giorgio, non è ancora stata detta. Ma già si può osservare che dal Palazzo dei dogi un corpo patrizio esiguo e impegnato nella politica assai più di quanto non lasci credere l’immagine consueta del genovese tutto hombre de negocios, affiancato da una burocrazia anch’essa esigua e attivissima, controllò in modo assai accentrato il governo di un intero stato filtrando una quantità di affari che sbalordisce, solo che si tocchi con mano la consistenza della documentazione letta e prodotta. Che all’esame non seguisse sempre, o seguisse di rado, la decisione di intervenire discendeva, più che da incapacità o da «svogliatezza di governare» (come pretese qualche critico interno settecentesco), dalla constatazione che era pericoloso toccare un delicato sistema di contrappesi tra magistrature, gruppi di interesse metropolitani e periferici, che assicurava la stabilità dell’intero sistema e che portava a delegare poteri di fatto ai notabilati e alle oligarchie locali: a meno di non intraprendere la strada di radicali riforme politiche che un’oligarchia monopolista del governo era poco disposta a imboccare spontaneamente[74]. D’altra parte, a dispetto delle manipolazioni praticate nella routine quotidiana, e dalla deriva oligarchica comune un po’ a tutti gli stati cittadini di antico regime, i magnifici restarono sino all’ultimo sinceramente aderenti a un repubblicanesimo nel quale era incardinata l’insofferenza per qualsiasi predominio personale e familiare. A esprimere meglio questo spirito era forse stato, con orgogliosa semplicità, il già citato anonimo cinquecentesco: «Un cittadino libero in una republica libera è simile a un re»[75].
[1] Sul personaggio e la sua opera cfr. A. Spinola, Scritti scelti. A cura di C. Bitossi, Genova 1981.
[2] A. Spinola, Ricordi, ….
[3] Cfr. Poleggi, Strada Nuova; Grossi Bianchi-Poleggi, Una città portuale.
[4] La formula riprende il titolo del libro di Ennio Poleggi sui palazzi patrizi genovesi; cfr. Poleggi, Reggia.
[5] Che la repubblica disponesse di «molti millioni d’oro nella Casa di S. Georgio» era tra i punti forti di Genova anche per un critico come Andrea Spinola; cfr. A. Spinola, Ricordi, «Che habbiamo molte cose in publico, per le quali dobbiamo stimare la nostra Patria», Biblioteca Civica Berio, Genova (BCB), Manoscritti rari, XIV.1.4 (2), p. 122.
[6] Nacque infatti attorno al 1562 e morì nel 1631; cfr. Spinola, Scritti scelti.
[7] A. Spinola, Ricordi, «Da che proceda che qui s’inttende poco, ciò che spetta al buon governo publico», BCB, Manoscritti rari, XIV.1.4 (2), p. 142. Nelle citazioni dai manoscritti si sono modernizzate punteggiatura e maiuscolazione, sciolte le abbreviazioni e rese le desinenze in –ii/ij con –i.
[8] La genesi e l’analisi delle Leggi del 1576, dette anche Leggi di Casale, in Savelli, Repubblica oligarchica; vedi anche Forcheri, Doge, governatori.
[9] Sulla genesi e le caratteristiche delle leggi del 1576 cfr. Forcheri, Doge governatori; Savelli, Repubblica oligarchica; Pacini, ‘Genova’.
[10] Sul ruolo dei procuratori perpetui si veda oltre.
[11] Di una festa di carnevale mancata nel 1586 per una ripicca dei senatori verso il doge Ambrogio Di Negro (sul quale vedi infra), cfr. Roccatagliata, Annali, p. 73: «Egli [il doge], ad istanza di suo figlio, avea dato ordine di far recitar una commedia in palazzo in tempo di carnovale, e perché in quei giorni per qualche impedimento di chi dovea intervenire in recitare detta commedia, non si poteva condurre al divisato fine, il Duce pensava trasferirla alla prima domenica di quaresima, giorno in vero solito ancora alle giostre, tornei, mascherate ed altre novità, che in Genova si chiama carnovale il vecchio, ma il Senato avvedutosi di questo pensiero del Duce, il terzo giorno di quaresima, sotto pretesto di religione, ordinò che la detta commedia non si avesse più a recitare».
[12] Sul cerimoniale della repubblica cfr. L. Volpicella, I libri cerimoniali.
[13] Chi meglio ha utilizzato episodi coloriti della storia politica genovese di età moderna per proporre una riconsiderazione simpatetica del ruolo dei Magnifici come politici è stato Giovanni Ansaldo, del quale si vedano gli articoli raccolti in Ansaldo, L’occhio della Lanterna.
[14] Sul sindicato dell’Imperiale-Lercari e sulle reali ragioni dei malumori che aveva suscitato tra i colleghi cfr. Bitossi, ‘Il piccolo sempre succombe al grande’.
[15] Sogno sopra la Republica di Genova veduto nella morte di Agostino Pinello ridotto in Dialogo, rchivio Storico del Comune di Genova (ASCGE), Manoscritti,164, c 6v, 40v.
[16] Citato in Bitossi, Repubblica, p. ….
[17] Tra le «querele» mosse al Lercari Salvago segnalava «ch’el havesse scritto lettere al commissario de Corsicha et ad altri rettori de li lochi del dominio; lettere contrarie di quello ordinava il senato et di peggio, ch’el continuasse lettere con signori forastieri, chosa molto prohibita». Due sindicatori su cinque, Bartolomeo Cattaneo Lazagna e Prospero Centurione Fattinanti, avevano volato per la sua assoluzione; ma lo stesso Salvago riporta le voci che circolavano sulle motivazioni di quei voti favorevoli: «Al Lazagna per conto di Lercaro fossero stati prestati denari e a uno suo cugnato per suo commodo et che al Fatinanti per favori del Lercharo et de soi, li Protetori de le compere de San Georgio li pasaseno uno figliuolo bastardo nel numero de XII, per farlo imune de cabele, contra le leggi et ordeni». L’esenzione dalle gabelle era riservata ai padri di dodici figli legittimi. Prospero Centurione divenne doge nel 1575. Cfr. G. Salvago, Histories, manoscritto in Biblioteca della Facoltà di Economia, Fondo Doria di Montaldeo, scat. 417, n. 1912, regi. 1, c. 125r; Costantini, Repubblica, p. ….
[18] Sogno sopra la Republica di Genova …, c. 137v.
[19] Verificare!!!
[20] Bitossi, ‘Un oligarca antispagnolo’, p. ….
[21] Spinola, Scritti scelti, p. 138.
[22] L’eccezione è costituita dai lavori di Rodolfo Savelli, dei quali si ricorda almeno Savelli, ………
[23] Esempi settecenteschi di questo atteggiamento in Bitossi, Repubblica, p. …
[24] Cfr. Salvago, Histories, c. 106r: «[1560] non fu giustata questa preposta, essendone massime statti preghati da chancelieri, scrivani et altri ministri, li quali stano de continuo alle loro cure, con le quale non solum viveno largamenti, ma as<as>sinano quello erario». Ivi, c. 107v: «[1561] qualche ambiciosi cittadini, cancelieri, notarii et ministri, li quali hanno ogni chosa in loro pottere et le asasinano, pigliorno impresa di andar per le butege, a pregare artesani, che essendo citatti al conseglio in Santo Georgio, li voglino andare et non consentire ch’el sie fatto tanto agravio a quella magnifica casa de privarla di questa honoransa et utille, per darla ad altri». La conclusione della vicenda ivi, c. 108v.
[25] Cfr. G. Salvago, Histories, c. 157r: «Se lo erario di Santo Georgio havesse lengua da parlare, diria de li escessivi danni et rubarie li sono state fatte da simili [cancellieri e notai] et di continuo li sono fatte et sostenuti dopoi da cittadini. Anchora forsi de quelli de palazzo se poteria dire qualche chosa, non habbiando però tanto manegio, quanto coloro di Santo Georgio de chose de denari».
[26] Una presentazione della vicenda tanto colorita quanto prevenuta verso il «tristarelo di Matheo Senarega, statto principale secretario del statto [???] per molto tempo, il quale havia noticia et saputa de tutte le infirmità de cittadini» si trova in G. Salvago, Histories, c. 139v.
[27] Cfr. Costantini, Repubblica; Spinola, Scritti scelti; Bitossi, Repubblica.
[28] Spinola, Ricordi, ……………
[29] Spinola, Scritti scelti, p. 153.
[30] Si veda al riguardo la produzione legislativa raccolta in ASGE, Manoscritti, …….., Legum.
[31] ASGE, Conciliorum, 20/I.
[32] Sulla questione dell’allargamento del Minor Consiglio ved. Bitossi, Governo, pp. 282-284.
[33] Sulla composizione, attribuzioni e riforme del Maggior Consiglio cfr. Forcheri, Doge, governatori.
[34] L’origine di questa formula in Savelli, Repubblica oligarchica; un quadro del funzionamento in Bitossi, Governo.
[35] Sulla chiusura dei Trenta elettori soprattutto nel primo mezzo secolo di applicazione delle Leggi del 1576, prima che venisse introdotto l’obbligo di vacanza di un anno nella carica, si veda Bitossi, Governo.
[36] Questi materiali di lavoro dei Conservatori delle leggi si trovano in ASGE, Officiorum et conciliorum, …-….
[37] Cfr. Roccatagliata, Annali, pp. 87-88: «Questa estrazione portò necessariamente seco un’appassionata malizia, ovvero una mera ignoranza, perché io non ritrovo che nel seminario sia mai stato posto il nome di Luca Grimaldo q. Francesco, ma bensì il nome di Luca Grimaldo q. R.mi quale allora si trovava estinto, di maniera che bisogna credere o che quel nome vi sia stato posto maliziosamente, o veramente che estinto il nome di Luca Grimaldo q. R.mi, quel R.mi sia stato inteso per q. Francesco. Tuttavia la cosa passò così, che niuno non se ne accorse, scorsi ben io questo errore, però non mi elessi di palesarlo, per non metter a campo qualche confusione. Lo scorgette il medesimo Luca q. Francesco, e perciò egli da principio stette in forse di accettare il carico, e tantosto che seguì l’elezione del suo nome, si ritirò alla villa ed ivi dimorò alquanti giorni che non comparse alla città». Non notò nulla, o almeno nulla scrisse, Giulio Pallavicino; cfr. Inventione, p. 128. Si noti che Luca Grimaldi divenne doge nel 1605, dopo essere stato nella rosa dei sei già nel 1593, 1597 e 1601.
[38] In occasione dell’elezione del 1619 si trovarono in competizione i cognati Pietro Durazzo e Federico De Franchi, le cui casate, per altro strettamente imparentate, erano classificate rispettivamente tra gli “artifices” e i “mercatores”. Cfr. Bitossi, Governo, p. 135.
[39] Tracce settecentesche di questo fenomeno sono segnalate in Bitossi, “La repubblica è vecchia”.
[40] La definizione è di Andrea Spinola: cfr. Spinola, Scritti, p. 274, che la dava come corrente e di chiaro significato.
[41] Questo il calendario delle elezioni: dapprima venivano formate le rose per …; poi si passava ….
[42] Ecco che cosa scriveva Andrea Spinola del «broglio»: ………..
[43] Roccatagliata, Annali, p. 82.
[44] ASGE, Conciliorum, 20/II, manuale dell’anno 1639.
[45] Nel 1597, quando in una rosa di “vecchi” si inserì David Vaccà, ex doge; nel 169… e 169…, quando in altrettante rose di “nuovi” fu riproposto Pietro Durazzo, doge nel 1685-1687.
[46] Roccatagliata, Annali, pp. 65-66. L’annalista aggiungeva: «E benché i nuovi acconsentissero che il dovere fosse di elegere uno de’ vecchi, si lasciavano però alla scoperta intendere che questa anzione loro fosse mal fatta e mal intesa».
[47] Roccatagliata, Annali, pp. 68, 73, 116. Roccatagliata si spingeva ad attribuire al Di Negro una machiavellica dissimulazione del proprio carattere, prima dell’elezione: «Molti fecero giudicio che quella domestichezza e piacevolezza che prima pareva propria di lui, fosse stata con disegno di prender la benevolenza dell’universale per fine di condursi colà dove era giunto, e che allora non avendo più quel fine, fosse ricaduto nella sua alterigia naturale»: ivi, p. 68. Un’immagine diversa del Di Negro nella Inventione di Giulio Pallavicino, p. 103: «eletione invero reputata per bonissima, essendo huomo di gran valor et esperienza». Questa diversa attitudine non va verosimilmente attribuita alla circostanza che Giulio Pallavicino era “vecchio” come il Di Negro, ma alla scelta dello stesso Pallavicini di non esprimere giudizi politici nel suo diario.
[48] Cfr. Bitossi, Oligarchi, pp. 93-94.
[49] Roccatagliata, Annali, p. 220.
[50] Cfr. Bitossi, “La repubblica è vecchia”.
[51] Sui Balbi in generale vedi Grendi, I Balbi; su Strada Balbi cfr. Grossi Bianchi- Poleggi, Una città portuale.
[52] Cfr. Roccatagliata, Annali, p. 220. Dal racconto di Roccatagliata si conclude che l’inserimento del Vaccà fu una mossa della clientela del principe Doria per tagliare la strada al candidato sostenuto dal marchese Ambrogio Spinola e da Cosmo Centurione, che in quel momento rivaleggiavano con il principe. A quell’episodio doveva alludere Andrea Spinola, ostilissimo all’ipotesi che un ex doge fosse rieletto: cfr. Spinola, Scritti scelti, p. 140.
[53] Cfr. Costantini, Repubblica, p. 282.
[54] Cfr. Leggi nuove della Republica di Genova; Forcheri, Doge, governatori.
[55] ASGE, Senato, Diversorum Collegii, 70.
[56] Cfr. Genova e Francia, passim.
[57] I giusdicenti maggiori erano in quell’epoca il commissario e governatore di Sarzana, il governatore di Savona, i capitani di Porto Maurizio, Chiavari, Spezia, Levanto, Bisagno, Polcevera, Sestri (Ponente), Rapallo, Recco, Novi.
[58] Esemplificare ulteriormente!
[59] Cfr. A. Spinola, Ricordi: “Di un tiro, che già si facceva, per far conferir l’ufficio più ad uno, che ad un altro”, BCB, Manoscritti rari, XIV.1.4 (1), pp.213-214. Spinola aggiungeva ottimisticamente: «Et io per me credo, che hoggi dì non si lasciarebbe passar per alto, per il notabile pregiuditio, che ne può risultare al publico, et al privato». Più pragmaticamente osservava poi: «Il tiro del quale si è ragionato, mi fa sovvenire che nell’ottener pure li ufficii, serve assaissimo l’andar de’ primi sotto le palle, et in buona congiontura. Questo avantaggio, il dover vuole che sia in mano della fortuna, e se si dà per via d’amicitia, doni, o comparatico, la Republica ne starà di sotto, et i migliori, e li più modesti, restaranno in dietro. Ci si provegga per tanto, considerandosi ancor l’istesso per la collatione de’ magistrati della città».
[60] ASGE, Conciliorum, 20/II, manuale dell’anno 1664.
[61] Graziani, Corse génoise; ad esempio ……
[62] A. Spinola, Ricordi, “Della nominatione alli magistrati”, BCB, Manoscritti rari, XIV.1.4 (2), pp. 97-98.
[63] Bitossi, Repubblica, p. 173.
[64] Cfr. Costantini, Repubblica, pp. 301-321 sulla politica navale negli anni trenta-cinquanta del Seicento.
[65] Savelli, ‘Repressione penale’; Bitossi, ‘Magnifici malfattori’.
[66] Grendi, Lettere orbe.
[67] Bitossi, Repubblica.
[68] A. Spinola, Ricordi, “Del parlare ne’ consigli publici”, BCB, Manoscritti rari, XIV.1.4 (1), pp. 77-84. Spinola suggeriva anche il rimedio, che mirava a raggiungere due obiettivi con un colpo solo: «Intorno a questo inconveniente, ho sentito ricordare che sarebbe a proposito tirar a sorte un numero di alquanti cittadini, li quali havessero a ragionar su le proposte. Con questo, oltre che si ovviarebbe all’artificio già riferito, si faria che ognuno starebbe attento ad udire quel che si tratta, acciò tocando a lui di ragionare potesse farlo aconciamente. Finito il ragionamento di coloro ne’ quali fosse caduta la sorte, si harebbe poi a soggionger la formula consueta, che se alcuno vuol dir d’avantaggio sarà volentier udito».
[69] I Discorsi di Andrea Spinola sopra la sua carcerazione sono editi in Spinola, Scritti scelti, pp. 144-181.
[70] Spinola, Scritti scelti.
[71] Le citazioni sono tratte da A. Spinola, Ricordi, BCB, Manoscritti rari, XIV.1.4 (1), pp. 79-80.
[72] Spinola, Ricordi, ……
[73] In Bitossi, Repubblica, il computo degli intervenuti nei dibattiti di secondo Settecento. [Ma esemplificare anche per fine Seicento.]
[74] Bitossi, Repubblica, per le polemiche settecentesche sulla «nausea» o «svogliatezza» di governare.
[75] Sogno sopra la republica di Genova … , c. 72v